21 Febbraio 2019
Donne Chiesa Mondo

Senza tatto

di Lucetta Scaraffia 

Come ci insegnano i commenti ai vangeli da una parte e la psicanalisi dall’altra, il tatto, che occupa un posto decisivo all’interno dell’insegnamento evangelico, costituisce un fattore essenziale nel nostro modo di conoscere la verità e di comunicare con gli altri. È un senso nascosto ma molto potente che coinvolge gli aspetti più profondi della psiche umana. Il fatto che da qualche anno, per effetto dello scandalo degli abusi, il tatto sia diventato un tipo di contatto impraticabile per sacerdoti e religiosi nei confronti di bambini e donne non costituisce solo una nuova forma di galateo e una forma di prudenza elementare per evitare sospetti (anche infondati), ma una vera mutilazione della vita di relazione, della comunicazione umana, dell’apostolato nella comunità cristiana. In un momento storico in cui la Chiesa già versa in una crisi grave nella sua capacità di trasmettere il messaggio evangelico, cuore del messaggio cristiano, l’impossibilità di dare una carezza a un bambino, di stringere le mani di una donna addolorata o agitata, costituisce un vulnus grave. Negando la possibilità di utilizzare il tatto come forma di comunicazione, diventa quasi impossibile comprendere la capacità del soggetto coinvolto di affrontare la reciprocità del rapporto, l’intimità, l’identità dell’altra persona. In sostanza, la realtà profonda di un rapporto umano.

Non si può certo negare che si tratta di una mutilazione meritata, ma è comunque una mutilazione.

Per ritornare alla libertà di dare una carezza, di prendere per mano, di mettere un braccio sulla spalla — la carità è fatta anche di questo — bisogna trovare una via di uscita dallo scandalo degli abusi.

Ogni gesto è diventato sospetto perché il significato semplice, buono, affettuoso, di tanti gesti è stato utilizzato non per rassicurare e confermare un altro, ma per violare l’intimità di un bambino, di una donna, cioè di un debole.

Papa Francesco ha dato l’interpretazione più forte e radicale a questa crisi: non si tratta di cadute nella tentazione della carne, di peccati sessuali, ma di abuso di potere, abuso che nasce da una interpretazione perversa del ruolo sacerdotale, da un male che ha chiamato clericalizzazione.

Se al peccato della carne si può infatti rimediare con la conversione individuale, l’abuso di potere, il clericalismo, richiede invece un cambiamento più profondo, una revisione completa della cultura cattolica e della preparazione dei futuri preti, richiede di tornare alle origini del messaggio evangelico, che parla sempre di servizio e non di potere. Si capisce bene quindi come il discorso di Francesco susciti tante opposizioni, e come la complessa struttura ecclesiastica opponga ancora molte resistenze al suo discorso, alla sua richiesta di purificazione radicale.

Lo vediamo soprattutto se guardiamo a una delle due componenti del gruppo delle vittime degli abusi, le donne. Mentre per i minori l’ammissione e la condanna conseguente sono obbligate, dal momento che partono da una trasgressione riconosciuta dal codice penale, per le donne il discorso è più complesso e tocca proprio il cuore dell’analisi del Papa, il potere.

Nelle trasformazioni delle leggi stabilite nei paesi occidentali la violenza sessuale nei confronti delle donne e quella nei confronti dei minori sono sempre strettamente collegate. Prendiamo l’esempio italiano: il codice Rocco, in vigore fino al 1996, puniva ogni tipo di violenza sessuale — su donne e su minori — in quanto “delitto contro la morale pubblica e il buoncostume”. Cioè tutelava un bene collettivo e non la vittima, che scompariva, quasi colpevole anch’essa di avere infranto una legge morale.

Nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, si ottiene finalmente una nuova legge: lo stupro diventa così delitto contro la persona, che ha diritto all’intangibilità sessuale, e di conseguenza la legislazione rinnovata stabilisce che l’attività sessuale debba essere frutto di una libera scelta individuale, perché rientra nel diritto proprio dell’individuo. La libertà sessuale, in quanto libertà personale, assurge così al rango di bene primario, e lo stupro diventa dunque delitto contro la persona.

La protezione individuale si estende anche ai minori, cioè a coloro che hanno meno di quattordici anni di età. Prima invece — e questo in parte accadeva anche per le donne — diventava cruciale ai fini di stabilire la gravità del reato valutare la condotta di vita del minore, e venivano protetti solo quelli che venivano considerati “minori non corrotti”. Con la nuova legge vengono ora protetti tutti i minori, perché si tutela il valore della persona, tanto è vero che il minore è protetto anche contro la sua volontà.

Ma la situazione delle donne rimane molto ambigua, e soprattutto all’interno dell’istituzione ecclesiastica secoli di cultura incentrata sulla donna pericolosa e tentatrice spingono a classificare queste violenze, anche se denunciate, come trasgressioni sessuali liberamente commesse da ambo le parti. Ecco allora che l’analisi sugli abusi fatta da papa Francesco ci viene ancora una volta in aiuto: se si punta il dito sul potere, sul clericalismo, gli abusi sulle religiose prendono un altro aspetto e possono venire finalmente riconosciuti per quello che sono, cioè un atto di prepotenza in cui il tatto diventa violazione dell’intimità personale. La differenza di potere, la difficoltà di denunciare per il timore — seriamente motivato — di ritorsioni non solo su di sé, ma anche sull’ordine di appartenenza, spiegano il silenzio che per anni ha avvolto questa prepotenza.

Lo rivela anche la storia recente: verso la fine degli anni novanta due religiose, suor Maura O’Donohue e suor Marie McDonald, hanno avuto il coraggio di presentare denunce precise e circostanziate, inchieste approfondite e analisi delle situazioni più esposte a questo tipo di prepotenza. Il silenzio è calato sulle loro denunce, e si sa bene come il silenzio di fatto contribuisca a dare sicurezza ai violentatori, sempre più sicuri della loro impunità.

In quest’ultimo anno molti giornali hanno sollevato di nuovo il velo su questa tragedia, e molte religiose, del terzo mondo ma anche dei paesi avanzati, hanno cominciato a parlare, a denunciare: sanno che hanno il diritto di venire rispettate, sanno che la condizione delle donne, anche nella Chiesa, deve cambiare. E sanno che per realizzare questo cambiamento non basta nominare qualche donna nelle commissioni. Se si continua a chiudere gli occhi davanti a questo scandalo — reso ancora più grave dal fatto che l’abuso sulle donne comporta la procreazione, e quindi è all’origine dello scandalo degli aborti imposti e dei figli non riconosciuti dai sacerdoti — la condizione di oppressione delle donne nella Chiesa non cambierà mai.

La prospettiva nella quale papa Francesco ha inquadrato il problema degli abusi è quindi quella giusta, e si incrocia su un’altra delle sue richieste alla Chiesa: che alle donne venga riconosciuto il ruolo che spetta loro. Infatti è su questa evidente mancanza di riconoscimento delle donne che si innesta la cultura degli abusi, che si rende possibile una massiccia pratica di prepotenza indegna di ogni cristiano. La denuncia di questa situazione è arrivata di recente dal cardinale Marx, con un intervento pubblicato nel nostro numero di gennaio, ed è stata ribadita, in un’intervista all’Osservatore Romano, dal cardinale Ouellet: per quanto riguarda la questione femminile «non prendere atto della “trasformazione avvenuta nella società” e dei “progressi” degli ultimi cinquanta anni rappresenterebbe un “fallimento” per la Chiesa, che è già “in ritardo” in questo orizzonte».

Una questione di tatto, quindi. Da affrontare con il tatto necessario, ma anche con il coraggio che ci chiede papa Francesco.

 

(Donne Chiesa Mondo, febbraio 2019)

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