2 Luglio 2018
Donne chiesa mondo - L’Osservatore Romano

Tina Anselmi

di Anna Foa

Bassano del Grappa, 26 settembre 1944. I nazisti impiccano 31 partigiani sul corso. Ogni impiccato penzola a un albero. Sono tutti giovanissimi, come giovanissimi sono i nazisti e i fascisti che perpetrano la strage, i fascisti ex Fiamme Bianche inquadrati nella divisione Flak, agli ordini di un ss, Karl Franz Tausch. Nessuno degli esecutori e ideatori della strage sarà sottoposto a processo nel dopoguerra. Tra i testimoni dell’esecuzione, molti studenti portati dalle scuole ad assistere alla lugubre esposizione. Tra loro, una ragazza di 17 anni che frequentava a Bassano l’istituto magistrale, Tina Anselmi, colei che sarebbe diventata la prima donna ministro della repubblica italiana. Dopo quell’episodio, la ragazza decise di entrare a far parte attivamente della resistenza e divenne staffetta della brigata Cesare Battisti — prendendo il nome di battaglia di Gabriella — e poi del corpo regionale veneto dei volontari della libertà.

Tina Anselmi era nata nel 1927 a Castelfranco Veneto da una famiglia cattolica. La madre gestiva un’osteria, il padre invece era un aiuto farmacista di idee socialiste, per questo perseguitato dal fascismo. Nel dicembre 1944, ancor prima della fine della guerra, Tina Anselmi aderì alla Democrazia cristiana, obbedendo a quella passione politica che ispirerà tutta la sua vita e che darà il titolo a un suo bel libro di memorie, scritto con Anna Vinci, Storia di una passione politica. Nel dopoguerra, si laureò in lettere all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e divenne maestra elementare. Ma la sua vera strada era la politica: una politica intesa in senso lato, come attenzione ai problemi sociali, a quelli del lavoro, alla vita quotidiana oltre che alla gestione della cosa pubblica.

Nei primi vent’anni dopo la liberazione fu sindacalista, impegnandosi intanto attivamente nella Democrazia cristiana (Dc) fino a diventare, nel 1959, membro del suo consiglio nazionale. Nel 1968 fu eletta per la prima volta alla camera dei deputati, carica che mantenne per molte legislature, fino al 1992. Durante gli anni dei suoi mandati parlamentari, fece parte delle commissioni su lavoro e previdenza sociale, igiene e sanità, affari sociali. Dopo essere stata tre volte sottosegretario, divenne nel 1976, sotto la presidenza di Andreotti, ministro del lavoro e della previdenza sociale.

Era la prima donna a occupare quel ruolo in Italia, ed erano passati solo trent’anni dal voto che aveva portato le donne per la prima volta alle urne, nel 1946. In questa carica, Tina Anselmi fece approvare nel 1977 una legge che prevedeva la parità di trattamento e di assunzione sul lavoro fra uomini e donne. Era una battaglia che il ministro Anselmi combatteva da molti anni, da quando, nel 1962, al congresso di Napoli della Dc, in rappresentanza delle giovani donne democristiane, aveva sostenuto con determinazione, rompendo molti tabù, la necessità di cambiare la legislazione per sostenere i diritti delle donne lavoratrici. Anche sua fu, più tardi, nel 1993, la clausola «di genere» che consentì l’aumento, nella nuova legge elettorale, delle elette donne e che, dando avvio all’introduzione del sistema delle quote, suscitò molte polemiche. Ma se nel 1986 la percentuale delle donne elette al parlamento era del 6 per cento, nel 2017 era del 30 per cento.

Dal 1978 al 1979 Tina Anselmi fu ministro della sanità, in due successivi governi Andreotti. E anche qui legò il suo nome a una riforma di grande importanza, quella sul Servizio sanitario nazionale, che attuava quel diritto alla salute che era stato sancito dalla Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Fu una riforma inizialmente molto osteggiata, soprattutto da parte dei medici. Così Tina Anselmi la raccontava nel 2003: «Devo dire che in quegli anni, segnati da posizioni molto diversificate, sicuramente c’era lo scontro. E tuttavia esisteva un’adesione di fondo a quel principio sul quale è stata costruita la riforma del Sistema sanitario italiano: l’adesione ai valori su cui costruire la tutela e il diritto del cittadino ad avere una garanzia da parte dello stato per quanto riguarda la sua integrità. Per costruire un sistema che assumesse, come suo valore fondante, la tutela della persona».

Due riforme, quindi, quelle da lei messe in atto, di grande portata, fra quelle che più hanno inciso sulla società italiana degli ultimi cinquant’anni. Ma Tina Anselmi ha lasciato il suo nome legato anche a un’altra questione di grande importanza nel mondo politico italiano. Sono gli anni del terrorismo, sono gli anni dell’assassinio di Moro, a cui Tina Anselmi era molto legata. Tre anni dopo la sua morte, nel 1981 fu scelta a presiedere la Commissione parlamentare d’inchiesta che doveva far luce sulla loggia massonica P2. Era un incarico che la avrebbe esposta a minacce di ogni tipo, portandola a scavare in trame oscure che avevano segnato pesantemente la storia del paese. Era però anche uno straordinario riconoscimento della sua profonda e indiscussa onestà politica. Un’onestà che si leggeva anche sul suo volto, aperto, pulito e coraggioso.

Tina Anselmi si convinse che fra l’assassinio di Moro e le vicende legate alla loggia P2 ci fosse stato uno stretto collegamento, che ambedue le vicende avessero rappresentato soprattutto una minaccia alla democrazia italiana. E lo si vede nella relazione di maggioranza della Commissione sulla P2, che porta la sua firma e che contiene l’affermazione netta che la P2, per le connivenze stabilite in ogni direzione e a ogni livello e per le attività poste in essere, aveva costituito motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico. Affermazioni analoghe farà, negli anni successivi, parlando del caso Moro. Conclusioni che la esposero, questa volta, non agli attentati ma alla delegittimazione, al ridicolo, ad accuse di dietrologia. Quel che è certo, però, è che, dopo la conclusione della Commissione parlamentare d’inchiesta, Tina Anselmi non fu più candidata al parlamento e che nel partito ebbe una posizione sempre più marginale. Ricoprì ancora, alla fine degli anni novanta, l’incarico di presidente della Commissione di indagine sui beni sottratti ai cittadini ebrei negli anni delle persecuzioni antisemite (1938-1945), lavorando a stretto contatto con Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e facendo emergere, contro l’opinione comune, il cieco zelo con cui in Italia la burocrazia aveva messo in atto le leggi razziste del 1938.

La sua profonda onestà, il carisma di cui godeva, portarono il suo nome fra quello dei candidati alla presidenza della repubblica nel 1992, dopo la presidenza di Cossiga. Ebbe 19 voti e fu eletto Oscar Luigi Scalfaro. Morì quasi novantenne nel 2016. Nello stesso anno le era stato dedicato un francobollo, onore che in genere non viene tributato a chi è ancora in vita. Fu in tutti i sensi una donna di valore. Grazie a lei possiamo dire che la democrazia italiana non ha avuto solo padri ma anche madri.

(Donne chiesa mondo – L’Osservatore Romano, 2 luglio 2018)

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