8 Dicembre 2017
Donne Chiesa Mondo - L'Osservatore Romano

Tutto comincia da dentro

di Luisa Muraro

Da questa collezione d’immagini affiora un significato di tipo allegorico, che non vuol dire nascosto, vuol dire che non si esaurisce nell’immediato e va oltre, in una profondità cui non si arriva con gli occhi.

Ai miei occhi le immagini mostrano donne che stanno forzando un blocco. Più letture sono possibili, ovviamente. Io credo però che le diverse letture convergano verso l’allegoria di donne che sfidano l’uomo per rompere il regime d’irrealtà che si è creato con la subordinazione del femminile al maschile. In parole storiche, io ci vedo un’allegoria del femminismo della differenza, quello che ha fatto della differenza sessuale il varco per la presa di coscienza che tutto comincia da dentro (come dicono in architettura), un dentro che racchiude il segreto della soggettività libera.

Subordinare gli altri a sé, a cominciare dalle donne, ha fatto credere alla più parte degli uomini di essere entità autosufficienti e di poter controllare e cambiare il mondo mettendolo in un’esteriorità oggettiva.

Con parole riprese dalla dottrina cristiana, le donne di queste immagini stanno forzando il blocco che impedisce la circolazione dello Spirito santo.

Non è nella dottrina cristiana che ho trovato la chiave di quest’allegoria, ma in un testo apparso nel 1980, intitolato Vai pure (ripubblicato nel 2011 da et al.) Si tratta di un testo registrato e trascritto, per volontà di una lei, di un dialogo tra questa lei, Carla Lonzi, e l’artista Pietro Consagra, che era allora il suo compagno di vita. Carla Lonzi è una delle iniziatrici del femminismo della differenza, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

A un certo punto dello scambio lui le dice: tu, a differenza di me, “ti presenti con le esigenze nuove”. No, lo interrompe lei, sono mie esigenze e sono cose che le donne sanno ma vi hanno rinunciato molto spesso, “perché se non cedi spacchi la tua vita”. (AGGIUNTA POSTUMA: “Ovviamente per le donne la vita è sempre più facile se accettano la visione del patriarcato” (Daniela Danna, Maternità. Surrogata? 2017, p. 246) E spiega: io non ho intenzione di cedere ma capisco perché una donna possa farlo, “perché il bisogno di autonomia entra in un tale contrasto con il bisogno di amore, e il bisogno di amore è sentito così forte che prende il sopravvento”.

Segue, nella stessa pagina, come un lampo, la rivelazione del come sa amare una donna che non cede. Io, dice, ho accettato la tua contraddizione di uomo integrandola nel nostro rapporto, tu invece proponi delle soluzioni preconfezionate che, in questo modo, negano il senso del nostro rapporto. Sa bene, lei, che ne va della sua vita e della condizione femminile, ma non soltanto. “Quello che proprio mi scandalizza e che mi fa sentire estranea e ferita da questo mondo…” e parla della priorità che si dà, in questo mondo, alla produzione di cose, “a scapito dell’autenticità dei rapporti”.

Lui tenta di capire, fa delle domande, ed è a questo punto che la risposta di lei fa pensare allo Spirito santo: “Io per rapporto intendo una coscienza della realtà che scorre tra le persone, e che per me è indispensabile a rimuovere i punti morti di una cultura che viaggia solo sulla coscienza maschile. Questo per immettere me nel mondo, perché non vedo altra possibilità di una vita vivibile”. Poi aggiunge: anche l’uomo risente negativamente di “questa mancanza di una coscienza femminile” e chiede al suo compagno come sia possibile andare ancora avanti con l’impostazione unilaterale maschile, arrivati “a questo punto di crisi e di spaccatura”. Il discorso di papa Francesco all’Accademia per la vita, 5 ottobre 2017, sull’alleanza tra donne e uomini, le darà ragione: non è possibile.

In un testo precedente la stessa Lonzi aveva polemizzato con un certo modo di rivolgersi agli uomini “come se fossero dei bambini a cui le proprie verità bisogna porgerle adottando il linguaggio dei loro libri di lettura”. La questione ci riguarda. Ci adattiamo perché gli uomini capiscano, sarebbe la risposta, per restare cioè nella cultura comune. Ma è una trappola: la cultura comune, infatti, non offre alle donne il linguaggio per esprimersi come autonomi soggetti pensanti e desideranti. Qual è allora la pratica che farà deperire l’imprigionamento simbolico delle donne? Risposta: “fare tutti i gesti di espressione di sé e di riconoscimento dell’altra che aprono le porte del limbo in cui le donne cercano, senza trovarla, un’incarnazione reale”. Che, per le vecchie femministe come me, è un chiaro riferimento alla pratica dei gruppi separati di donne che, negli anni Settanta, ha dato inizio al movimento femminista dotandoci di una lingua per significare a noi stesse che esistiamo per noi stesse.

Molti, compresi uomini onesti e in buona fede, non hanno capito il significato di questo affronto della separazione, né la sua necessità. E hanno criticato il femminismo, i pretesti si trovano sempre nelle imprese umane, senza capire che la rivolta e la sfida erano il prezzo da pagare a causa della loro stessa, di uomini, negazione dell’altro con la a minuscola: la loro simile e differente. Se lei lascia perdere, lui non ci pensa e passa sopra.

Le immagini mostrano dunque donne che, uscite dal limbo dell’inesistenza simbolica, si trovano la strada sbarrata e lì restano impavide con un gesto che sostituisce parole che non ci sono ancora. Per trovarle, continua Carla Lonzi, il blocco va forzato in prima persona: questo è il passaggio necessario per la nascita della nostra soggettività, il presupposto di qualsiasi cambiamento. Lei così ha fatto ed è diventata un passaggio; da lì siamo passate e possono passare anche gli uomini.

Tra le immagini, colpisce quella della palestinese che va per la sua strada portandosi dietro due creature, ma un uomo in divisa, piegato sulle gambe, le sbarra la strada puntandole un’arma all’altezza del ventre. Per uno strano capovolgimento dei sensi, a me pare che lui le stia chiedendo l’elemosina, che una volta chiamavano la carità: lui le chiede la carità di riprenderlo con sé.

Non si arriva al senso libero della differenza sessuale che è parte integrante dell’essere umano, con meno del prezzo pagato da una Carla Lonzi. E da una Maria Celeste Crostarosa. Di lei parlerò tra poco. Entrambe sono donne che hanno affrontato il blocco creato da un ordine simbolico che era anche disordine, l’hanno affrontato nel modo giusto, pagando un prezzo ingiusto con la fermezza di chi non nutre risentimenti.

Per due secoli e mezzo la storia ha ignorato la figura di Maria Celeste e i suoi grandi meriti. Il 15 giugno 2016 L’Osservatore Romano ha dato l’annuncio che suor Maria Celeste, oltre che santa, è stata finalmente riconosciuta come fondatrice dell’Ordine religioso del Santissimo Redentore. È il felice esito di una vicenda che il giornale stesso chiama “enigmatica”. A dire il vero, una volta ricostruita, la vicenda non ha nulla di enigmatico, ma certo lo è il suo significato ultimo.

In breve: la Crostarosa, nata a Napoli nel 1696 da una famiglia del ceto medio, in tutta libertà si fece suora; il cielo le ispirò una grande impresa che lei si dedicò a realizzare, insieme a un amico e compagno di prim’ordine, Alfonso de’ Liguori. Ma disse no al comando di un superiore che andava contro la sua libertà spirituale. Alfonso, che aveva i mezzi e i motivi per difenderla, non capì che lei aveva ragione e la giudicò male (ma, a riprova della sua buona fede, conservò le prove storiche del proprio errore, il che ha permesso poi di correggerlo). La riprovazione di Alfonso fu la fine per lei. Privata di ogni credibilità, scrisse allora una dichiarazione in cui non rinnega niente ma rinuncia a tutto, tranne che a Dio che, però, nella “confusione degli abissi” (parole sue), non si faceva trovare.

La sua vita ne fu spaccata, come ha detto Carla Lonzi parlando di quelle che difendono la loro autonomia nelle circostanze più difficili, donne che aprono nella strada bloccata varchi di libertà da cui possono passare anche gli uomini che si arrendono, non dico alle donne, perché noi non chiediamo questo, intendo quelli che si arrendono allo Spirito santo… Chiamatelo come volete, purchè non lo confondiate con il vostro Ego o con qualche dottrina preconfezionata.

A proposito di dottrine. Per una fortuna così immeritata che mi sembrò una sfortuna, per alcuni anni ho fatto scuola a persone molto giovani. A scuola, come noto, si insegna che la Terra è rotonda, che non è propriamente una dottrina ma un fatto ricavabile, con il ragionamento, dall’esperienza. Un giorno mi parve che una mia alunna, una ragazzina di undici anni, non avesse chiaro che la Terra è rotonda. Interrogata sul come sappiamo con certezza che la Terra è rotonda, lei alzò il braccio destro e, con un gesto che oltrepassava i muri della scuola, disegnò l’arco della volta celeste. Poi, davanti al mio stupore, aggiunse: “Anche mia mamma la pensa così”.

Sbagliava, scolasticamente parlando, ma il suo era un errore che veicola un vero ancora indicibile. Io ho continuato a pensarci arrivando a quella tappa (di più non è) della ricerca che ho riassunto nella formula: tutto comincia da dentro.

Dicendo “da dentro” si pensa per opposizione a un fuori e non è sbagliato, perché dal dentro del luogo materno, si viene fuori, al mondo. Ma c’è un nascere ulteriore che viene grazie alla relazione materna man mano che s’impara a parlare, e allora si scopre che il dentro si ricrea ed è sconfinato. È come un’altra dimensione in cui le cose prendono senso, le lingue annodate in gola si sciolgono e quello che era muto, distante, minaccioso, diventa prossimo.

Donne Chiesa Mondo – L’Osservatore Romano, 1 dicembre 2017


Questo numero di “Donne chiesa mondo”,  corredato dalle fotografie, sarà in vendita alla Libreria delle donne

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