20 Marzo 2015

Devo rispettare chi usa la propria libertà per sottomettersi?

di Massimo Lizzi


Un mio tema controverso è il rispetto nei confronti di chi usa la sua libertà per sottomettersi. Un tema che genera in me intolleranza e dubbi.

Spesso a sottomettersi liberamente sono le donne: la donna che sceglie di stare con il suo compagno violento, la donna che sceglie di prostituirsi, la donna (talvolta) che sceglie di mettersi il velo; la donna che sceglie nei media di farsi oggettivare.

Ma in una situazione simile possono trovarsi anche molti uomini. E’ il caso dei lavoratori dipendenti che liberamente assumono il punto di vista del loro datore di lavoro e, per esempio, non aderiscono agli scioperi. O il caso di quei giornalisti, scrittori, intellettuali, che scrivono al servizio di un editore imprenditore o di qualche potente, sacrificando la propria autonomia, le proprie idee.

L’intolleranza è dovuta al fatto che queste persone mi ispirano un sentimento di disprezzo. Un disprezzo di due tipi. Uno penoso, nei confronti delle persone che vorrei vedere “liberate” come nel caso della prostituta, e uno soltanto avverso, nei confronti delle persone la cui sorte mi lascia indifferente, come nel caso del giornalista.

Un corno del dilemma giustifica l’avversione. Penso che chi sceglie di sottomettersi abbia una scarsa consapevolezza del proprio valore e metta a repentaglio la libertà di tutti, generando pregiudizi, immagini, e aspettative sbagliate, concorrendo a rapporti di forza sfavorevoli. La donna che rimane con un compagno violento alimenta l’idea di un masochismo, di una corresponsabilità femminile, motivo per cui la violenza maschile esisterebbe soprattutto perchè accettata da chi la subisce e sia in fondo una questione privata. La donna che si prostituisce contribuisce a definire una idea di sessualità femminile intesa come servizio, mezzo di soddisfazione di un presunto bisogno maschile. Inoltre, le prostitute “libere” svolgono una funzione di copertura nei confronti della tratta e della schiavitù sessuale, tanto per il fatto che le cosiddette sex workers e le escort occupano quasi tutto il dibattito pubblico sulla prostituzione, quanto per il fatto che clienti e bordelli non distinguono tra libere e schiave e le tengono insieme. Il lavoratore dipendente che aderisce al punto di vista aziendale, che non si sindacalizza, che non sciopera, può concorrere a peggiorare i diritti e le condizioni di lavoro di tutti i lavoratori. I pennivendoli mettono a rischio la libertà di informazione e formano una opinione pubbllica inconsapevole. Quindi, forzando un po’, disconoscere la libera scelta di queste persone, può essere visto come un atto a favore della libertà di tutte e di tutti.

L’altro l’altro corno del dilemma giustifica l’esitazione. Negare l’esercizio di una libertà vuol dire negare la soggettività di chi la esercita, il fondamento stesso della libertà, anche di un suo uso eventualmente corretto dal mio punto di vista. Se come conseguenza di un determinato esercizio, il danno nei confronti degli altri è più teorizzato, ipotizzato che accertato, la negazione della libertà può essere considerata inaccettabile.

Così i dubbi non li risolvo o li risolvo caso per caso, con spirito sperimentale. In un caso la soluzione può essere la legge: nella prostituzione può essere la sanzione del cliente prostitutore. In un caso può essere la violazione della legge, come è stato per decenni a tutela del diritto di sciopero con l’organizzazione dei picchetti davanti ai cancelli delle fabbriche. In un caso può essere il libero esercizio del giudizio contro chi si vende e sottomette, per esempio contro giornalisti e avvocati al servizio dei potenti.

Nella mancata soluzione della controversia, vale per me il principio della maggioranza interiore, potenzialmente transitoria, per cui, pur cercando di tenere presenti le controindicazioni della mia scelta, mi assumo la responsabilità di prendere una decisione, di assumere una posizione.



(www.libreriadelledonne.it, 20 marzo 2015)

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