9 Febbraio 2017
l'Attacco

Dialogo di una professoressa con la Lettera di Barbiana

di Antonietta Lelario

 

Lettera ad una professoressa

Cinquanta anni fa, la società tutta mise al centro la funzione emancipatrice della cultura, la possibilità di un’ascesa sociale dei più poveri, la scoperta dei dialetti e delle altre culture, prima fra tutte la cultura da cui si proveniva, quella contadina, contro l’arroccamento del potere nelle mani dei più ricchi e la selezione di classe della scuola.

Di questo, con lucidità e passione, parlava “Lettera ad una Professoressa” della Scuola di Barbiana curata da don Milani. Il libro, pubblicato nel ’67, è stato alla base della formazione di un’intera generazione di insegnanti. Le sue parole, scelte per andare dritto al cuore dei lettori, commuovono ancora oggi per la loro autenticità. Hanno fatto quindi una bellissima operazione gli e le insegnanti che hanno messo questo libro nell’itinerario delle quinte classi del Poerio di Foggia e la loro lungimiranza non a caso ha trovato anche espressione nella scelta di far misurare gli e le loro studenti con il linguaggio teatrale. E che teatro: il teatro degli oppressi!

Il 6 febbraio, un incontro con Edoardo Martinelli, uno degli allievi di don Milani, ha reso visibile questo percorso alla città e si è concluso con una bella performance degli studenti.

Altrettanto bene ha fatto la fondazione Banca del Monte a mettere a disposizione dell’evento la sua Sala del Vento, per sottolineare l’importanza di questo tema per tutta la città, come è stato detto da un collega e dalla dirigente scolastica, Enza Caldarella.

Tuttavia ci auguriamo che l’incontro sia seguito da altre occasioni di dibattito perché la riflessione sulla Lettera apre molte domande a cui è appassionante cercare, osare risposte.

 

Oggi

Infatti c’è una grande differenza fra cinquant’anni fa e oggi.

Oggi la funzione emancipatrice della cultura non c’è più. Avere una laurea non garantisce un lavoro corrispondente, né un lavoro qualsiasi. La possibilità occupazionale dipende dal mercato del lavoro, non dalla cultura. Avere le conoscenze per risolvere i problemi del nostro tempo non serve perché la soluzione è affidata al Potere istituzionale che, quando li affronta, non lo fa con l’arma della cultura, ma del compromesso e del malaffare, teso come si sta rivelando sempre più a mantenere sé stesso.

Quindi la cultura viene percepita per lo più come inutile o come strumento di perpetuazione del potere per circuire, per distrarre.

Attenzione, però. Tutto ciò sembra vero, se si rimane schiacciati in una visione economicista, perché invece la nostra vita ci dice altro. Nella nostra vita scopriamo che la cultura, quella che ci dice qualcosa, è meraviglioso “inutile” luogo di piacere. Inutile? E chi ha detto che il piacere è inutile? Quando lo si prova diventa la cosa più irrinunciabile che ci sia, ciò che inseguiamo per tutta la vita. E che strade ci apre questo piacere? Hannah Arendt ne “La vita della mente” dice che il pensiero è dialogo fra sé e sé. E questo rende più intelligenti anche le relazioni intorno e più libere e consapevoli le nostre scelte. Il punto su cui può convergere il nostro tempo è la consapevolezza che la cultura serve a nutrire questo dialogo. A nutrire pensiero.

Per questo Vita Cosentino, nel suo libro “Scuola. Sembra ieri è già domani. L’autoriforma come trasformazione della vita pubblica” (Moretti & Vitali, in vendita presso la libreria Ubik di Foggia), sostiene che «Il senso solo mercantile della scuola non può bastare. La scuola deve avere senso nel presente dei e delle ragazze, una scuola meno coercitiva e più gentile, in cui si insegna una cultura legata alla vita, una scuola in cui si diventa se stessi, se stesse, può apparire più sensata anche agli occhi dei giovani maschi in difficoltà».

Questa sottolineatura dei giovani maschi non è casuale. Lei si è chiesta perché la scuola di massa sia accompagnata da un senso di fallimento e le pare di vedere un esito differente per i ragazzi e per le ragazze. I ragazzi patiscono molto una scuola che rimane gerarchica e non mantiene la promessa dell’istruzione come mezzo per fare una scalata sociale, le ragazze invece si sono molto avvantaggiate della scuola di massa. La sua stessa vita come quella di tante di noi ne è testimonianza.

Certo non le sfugge che le trasformazioni che la scuola ha subito nel corso degli ultimi venti anni, attraverso un processo che l’ha appesantita burocraticamente e ha tentato di sottometterla a logiche aziendali, sono quanto di più lontano ci sia da ciò che serve al processo educativo.

E tuttavia, anzi proprio per questo, lei pensa che solo la spinta soggettiva ad essere sé stessa e a portare tutta sé stessa nel suo lavoro l’abbia salvata. E non solo lei.

Una scuola in cui si diventa sé stessi è una scuola in cui il piacere di insegnare e quello di imparare si riprendono il loro posto centrale.

Di questo piacere ogni buon insegnante ha esperienza, ma questo elemento, cancellato nei discorsi ufficiali sulla scuola, corre il rischio di essere cancellato anche da noi.

Il libro è il racconto di una insegnante femminista, ma che cosa significa per lei essere femminista? Lei dice:

«Potevo esserci nel mondo con i miei desideri più profondi senza rimandarli al futuro.

Potevo capire assieme agli altri qualcosa in più di me e del mondo e non applicare ciò che era stato pensato dagli organi dirigenti.
«[…] Ho imparato che è politica vivere dando un senso a quello che ci capita»
.

 

Il femminismo

Quindi femminismo per lei non significa sottolineare lo svantaggio femminile, né rivendicare diritti paritari, ma portare nel mondo il proprio desiderio e capire… capire se ciò che ci capita è nell’ordine della necessità o se la nostra libertà può aprire strade… E capire insieme ad altri, perché anche se le cose che ci capitano non sono quelle che vorremmo, capirne insieme il senso non è mai inutile.

 

L’autoriforma

Per questo insieme a docenti che hanno lo stesso amore per il proprio lavoro ha dato vita al movimento di autoriforma attivo dai primi anni ’90 che consiste nell’incontrarsi per discutere liberamente di ciò che avviene ogni giorno in classe, vedendo la quotidianità come esperienza preziosa e la differenza sessuale come un’occasione di pensiero “in più” per sé e per i propri e le proprie studenti.

Vita Cosentino è stata l’anima di questo movimento e, raccontando la sua esperienza, narra anche gli anni fertili dell’autoriforma. Io ne ho fatto parte insieme a tanti docenti, uomini e donne di Foggia.

Con l’Autoriforma noi volevamo dire una cosa molto semplice e che molti insegnanti già fanno: non c’è possibilità di cambiamento vero se non ci interroghiamo su cosa desideriamo e se, per realizzare i nostri desideri, non ci prendiamo tutta la libertà che possiamo prenderci, se non individuiamo gli ostacoli che vengono da fuori ma anche quelli che vengono da dentro di noi, da abitudini consolidate, da paure, da incertezze e queste non sono le stesse per uomini e donne.

Qualcosa di grandioso è ancora da fare, dice Vita Cosentino nel suo libro.

«C’è una rivoluzione culturale che, iniziata dalle donne, finisce per riguardare tutti e tutte.

Al mondo da sempre ci sono uomini e donne e questo va reso significativo.

Si apre un cammino, lungo, di immaginazione politica, di lavoro comune e scambi e ricerca e tentativi. E soprattutto un dibattito fuori dagli schemi e dalle posizioni precostituite, che parta dalla realtà mutata, che la veda, la capisca, la racconti».

 

I saperi

Ma i contenuti, quelli da cui si pensa che dipenda una solida formazione, sono inessenziali? Vita Cosentino, cercando le parole per dare senso alla propria esperienza, fa vedere l’arricchimento teorico avvenuto in questi anni grazie soprattutto alla scoperta o riscoperta di grandi pensatrici, avvenuta per merito del femminismo. Per cui a Pasolini, Fachinelli, Illich, Don Milani, Touraine, si affiancano, nel libro, V. Woolf, A.M. Ortese, Vandana Shiva, L. Muraro, C. Zamboni, C. Campo, M.C. Bateson. Mostra quindi che il monopolio maschile è finito, i contenuti vanno fortemente arricchiti attingendo alla ricchezza culturale prodotta dalle donne, oltre che dagli uomini e, soprattutto, ci fa riflettere su come sia cambiata la relazione con la cultura: una relazione che ha sottratto i saperi alla rigidità della tradizione e li ha approfonditi, ha chiesto risposte, li propone alle nuove generazioni come libro aperto, come luogo di scambio, non come canone prestabilito. Per tornare ad usarlo, il sapere. Con piacere e con libertà.

 

(l’Attacco, 9/2/2017)

Print Friendly, PDF & Email