27 Dicembre 2016
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«Donne che raccontano le donne? Non è un cliché ma un bisogno»: intervista a Susy Laude

di Marta Stella

Dal 2006 al 2013, secondo uno studio effettuato in sette paesi europei (soprattutto in Italia, Francia e Germania), solo un film su cinque è stato diretto da una donna. La stragrande maggioranza dei finanziamenti pubblici (l’84%) hanno contribuito alla realizzazione di film diretti da uomini. Questi sono solo alcuni dei dati diffusi lo scorso febbraio dall’EWA, l’European Women’s Audiovisual Network, che ha pubblicato un report per denunciare la diseguaglianza di genere nel cinema. Nonostante questo, quando si prova quantomeno a sfiorare lo stato attuale dell’essere donna e regista in Italia (ma naturalmente anche in senso geograficamente più ampio), cadere nel cliché, per chi intervista così come per chi è chiamata a rispondere, è ovviamente facile. Se non addirittura banale. A questo si concatena poi il tema delle donne che raccontano le donne: è altrettanto ovvio che faccia (ancora) notizia, benché abbia alle spalle decenni di esempi celebri e un dibattito che evidentemente ha ancora bisogno di essere sviscerato. Secondo Susy Laude, attrice e regista, «non è un cliché ma un vero bisogno». Scommessa di Marie Claire nell’ormai lontano 2008, nel suo lavoro cinematrografico più recente è la madre dell’adolescente Lorenzo, uno dei protagonisti di Un bacio, l’ultimo film di Ivan Cotroneo contro il bullismo.

«Sulle donne che raccontano le donne? Purtroppo c’è ancora molta strada da fare», mi dice mentre usciamo da una minuscola sala da cinema all’interno di un appartamento signorile diventato l’atelier di Gio Pagani. Qui, al 30 di via Montebello a Milano, è stato girato e appena proiettato in anteprima Madame, il corto che ha realizzato per il designer e architetto fondatore dal 1995 dell’omonimo brand liberamente tratto dall’atto unico Le serve di Jean Genet. In pratica: un modo per unire design, moda e cinema rivisitando un classico del teatro e celando un messaggio che a lei sta molto a cuore.

La domanda è ovviamente provocatoria. Non ha paura di promuovere la negazione di questo cliché ma al tempo stesso rimanervi imprigionata?
No, perché purtroppo c’è ancora un estremo bisogno di continuare a parlarne. C’è ancora molto da fare, soprattutto in Italia. Tutto sta nel modo in cui lo si tratta. Dopo il teatro, ho deciso di debuttare alla regia con La spes, una web series che mi sta dando molte soddisfazioni. Ho vestito due uomini da donne (Dino Abbrescia, suo compagno, e Giampietro Preziosa, ndr) per raccontare la violenza sulle donne. La protagonista, che viene presentata come vedova, in realtà non lo è. Ha chiuso infatti il marito in cantina perché dopo essere stata picchiata con la moka per il caffè si ribella. È uno scherzo ovviamente. L’importante però è far passare dei messaggi. Che sia in modo comico, ironico o ridicolo. O, come nel caso di Madame, raccontare la sofferenza di una serva che vorrebbe essere qualcos’altro ma la società non glielo permette. Trovo che sia un tema ancora attualissimo, soprattutto per le donne.

Immagino intenda sia dal punto di vista dell’essere regista, ma anche attrice…
Sì, anche quello per me è un tema fondamentale. Nell’ultima mia regia teatrale ho portato sul palco nove donne e due uomini. La pièce parla della fatica dell’essere attrice. È ambientato negli anni Venti ma è attualissimo. Su quel fronte non è cambiato nulla. È un tema che sento a me molto vicino e che per questo voglio raccontare. Poi subentra anche un fatto di maturità. Credo che sia questo il senso e la motivazione dell’invecchiare. Il dovere di raccontare ai giovani qualcosa della tua esperienza, del tuo vissuto. Per me è fondamentale raccontare il mondo dell’attore. La passione per questo mestiere così come la fatica di noi donne. Io stessa con la regia ho scelto di rimettermi in gioco, passando dall’altra parte della macchina da presa. È stato faticoso, sono sincera. È come affrontare una sorta di fallimento, l’abbandono di un’altra te, per iniziare un nuovo percorso. All’inizio ti chiedi: quell’altra dove è andata? Poi capisci che lo scoprirai strada facendo.

Crede che questa difficoltà sia legata a una specifica generazione, come quella delle donne nate negli anni 40 e 50, o che trascenda il fatto generazionale?
Personalmente ho visto mia madre soffrire moltissimo perché non riuscì a uscire dall’etichetta che lei stessa si era creata. Purtroppo questo è un grande tema ancora attuale. Io stessa, che appartengo a una generazione estremamente diversa, ho ancora paura del cambiamento in quanto donna, artista e madre. Su questo frangente trovare l’equilibrio è ancora molto difficile. Abbiamo fatto qualche passo in più, ma non è ancora abbastanza. L’opera di Genet in questo senso è esemplare. Lì il concetto di libertà per la donna è relativo: una la trova nella morte, l’altra nella prigione e l’altra ancora in un mondo ideale che non le fa vedere la realtà così com’è. Sono negli anni 40, ma ci fanno riflettere ancora oggi.

Il suo corto termina con queste parole: “il dolore di non poter essere artefici del proprio destino. Il sogno di voler essere liberi di cambiare. Di provare a divenire qualcosa d’altro. Il delitto è come il teatro. Non paga”. È un appello celato?
Più che altro un dato di fatto. Il teatro oggi sta vivendo una situazione drammatica. Forse a Milano è un poco diverso, ma a Roma è così. È dal teatro che sono nata, e rimarrà la mia più grande passione. Oltre ciò da cui traggo ispirazione per ogni mio lavoro. A differenza del cinema il teatro non è immagine, è carne. E poi la scenografia è fondamentale. Ecco perché amalgamare gli oggetti di design a una storia è stato per me facile ed entusiasmante. Gio mi ha espressamente detto di non volere al centro dell’attenzione il suo design. In questo modo è venuto tutto per me molto naturale.

D’altronde è una certezza atavica, il bisogno di un mecenate per l’artista…
Certo, assolutamente! Diciamo però che ci sono mecenati e mecenati. L’intelligenza sta nel lasciare libero un artista di esprimersi così come avere la fortuna di trovare un mecenate intelligente. Questo fa parte da sempre del mestiere dell’attore e del teatrante. Passiamo la vita a cercare sponsor e qualcuno che creda in una tua idea e nel tuo talento.

Quale crede sia oggi la chiave? 
Mescolare i generi e le narrazoni aggiungendo poi il tuo punto di vista. La commistione di mondi diversi è una cosa meravigliosa. E poi per farcela bisogna mettersi in gioco. Quando è vissuto con passione, il tuo mestiere è l’abito che scegli di indossare.

 

(27 dicembre 2016)

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