31 Agosto 2015
Corriere del mezzogiorno

Elena Ferrante, il lato femminista

La scrittrice si racconta in una lunga intervista rilasciata a Vanity Fair Usa

«Gli uomini non ci conoscono»

di Mirella Armiero

L’amica geniale

Femminista, schiva (e questo lo sapevamo), amante delle faccende domestiche, adoratrice di Elsa Morante. Ecco come si presenta Elena Ferrante nell’intervista rilasciata all’edizione americana di «Vanity Fair» di venerdì scorso. Una lunga conversazione dalla quale appare chiaro almeno un punto: la scrittrice è una donna, con buona pace di chi immagina che dietro la sua firma si possa nascondere in realtà un uomo (lo scrittore Domenico Starnone, per esempio). Qualche esempio?

Alla domanda sul «femminismo», la Ferrante risponde: «Io ho amato e amo il femminismo per il pensiero complesso che ha saputo produrre in America come in Italia, come in tante parti del mondo. Sono cresciuta nell’idea che se non mi fossi lasciata assorbire il più possibile dal mondo degli uomini di grandi capacità, se non avessi imparato dalla loro eccellenza culturale, se non avessi superato brillantemente tutti gli esami a cui quel mondo mi sottoponeva, sarebbe stato come non esistere. Poi ho letto libri che potenziavano la differenza femminile e mi si è rovesciata la testa. Ho capito che dovevo fare esattamente il contrario: dovevo partire da me e dalla relazione con le altre – anche questa è una formula fondamentale – se volevo davvero dare forma a me stessa. Oggi leggo tutto quello che produce il pensiero cosiddetto postfemminista. Mi aiuta a guardare il mondo, noi stesse, il nostro corpo, la nostra soggettività criticamente. Ma anche mi accende l’immaginazione, mi spinge a riflettere sulla funzione della letteratura. Faccio nomi di donne a cui devo molto: Firestone, Lonzi, Irigaray, Muraro, Cavarero , Gagliasso, Haraway, Butler, Braidotti. Insomma sono una lettrice appassionata di pensiero femminista. Tuttavia non mi considero una militante, credo di essere incapace di militanze. Le nostre teste sono affollate di materiali molto eterogenei, frammenti di tempi e intenzioni diversi convivono e configgono senza sosta. Come scrittrice preferisco fare conti anche confusi e rischiosi con quella sovrabbondanza, piuttosto che sentirmi al sicuro dentro una schematizzazione che, in quanto tale, finisce sempre per mettere da parte un bel po’ di roba vera, in quanto disturbante. Io mi guardo intorno. Metto a confronto cosa ero, cosa sono diventata, cosa sono diventate le mie amiche e i miei amici, chiarezza e confusioni, fallimenti, fughe in avanti. Le ragazze come le mie figlie sembrano convinte che la condizione di libertà che hanno ereditato sia un dato di natura e non il risultato provvisorio di un lungo scontro ancora in atto, nel corso del quale si può perdere di colpo tutto. Quanto al mondo maschile, ho conoscenti molto colti, molto riflessivi, che tendono a ignorare o a ridimensionare con garbata ironia la produzione delle donne, filosofica, letteraria, tutto. Ma ci sono anche giovani molto agguerrite, uomini che cercano di informarsi, di capire, tra mille contraddizioni. Insomma le guerre culturali sono lunghe, contraddittorie, e mentre sono in atto è difficile dire cosa serve e cosa no. Preferisco pensarmi all’interno di una matassa ingarbugliata, le matasse ingarbugliate mi attraggono. Credo che sia necessario raccontare il garbuglio delle esistenze e delle generazioni. Cercare il bandolo è utile, ma la letteratura si fa col garbuglio».

Sull’ossessione che soprattutto i critici di sesso maschile hanno per la sua reale identità e per l’ipotesi più volte formulata che la Ferrante sia un uomo, ecco cosa replica la scrittrice:
«Ha mai sentito dire, di questi tempi, a proposito di libri firmati da uomini: sono libri scritti da una donna o da un gruppo di donne? Il genere maschile può mimare, inglobandolo, il genere femminile, grazie alla sua esorbitante potenza. Il genere femminile invece non può mimare alcunché, la sua ‘debolezza’ lo tradisce subito, il prodotto non può fingere la forza maschile. La verità è che di questo luogo comune sono convinti anche l’editoria e gli altri media, che tendono a chiudere le donne che scrivono in una sorta di gineceo letterario. Siamo brave, meno brave, bravissime, ma solo all’interno del perimetro riservato alle persone di sesso femminile, o meglio a temi e tonalità che la tradizione maschile considera proprie del genere femminile. Mentre, per esempio, è abbastanza comune riportare la produzione letteraria femminile a una qualche dipendenza da quella maschile, è rarissimo che nel lavoro di uno scrittore si segnali l’influenza di una scrittrice. Non lo fanno i critici, non lo fanno nemmeno gli scrittori. La conseguenza è che quando un qualche lavoro letterario di donna non rispetta le competenze e la settorialitá e i toni che sono assegnati d’autorità al genere dentro cui sono state relegate, ecco che si tirano fuori ascendenze maschili. Se poi in copertina non c’è una foto di donna, il gioco è fatto: si tratta di un uomo o di un’intera squadra di virilissimi cultori del bello scrivere. E se si trattasse invece di una tradizione femminile di scrittura sempre più esperta ed efficace, stufa del gineceo letterario, in libera uscita dagli stereotipi di genere? Sappiamo pensare, sappiamo raccontare, sappiamo scrivere come e anche meglio degli uomini».

Il discorso si sposta poi sul quotidiano femminile: «La vita quotidiana delle donne è continuamente esposta a ogni tipo di abuso. Eppure la convinzione diffusa è che la vita conflittuale, violenta, delle donne all’interno degli stessi ambienti domestici e nelle più comuni esperienze di vita, non possa essere espressa se non nei moduli che il mondo maschile definisce femminili. Se si esce dalla loro millenaria invenzione, vuol dire che non sei femmina».

E sulla prevalenza della visione maschile la Ferrante dichiara: «Ritengo che la colonizzazione maschile del nostro immaginario – in sé una iattura finché non eravamo in grado di dar forma alla nostra differenza- oggi sia una forza. Noi conosciamo a fondo l’ordine simbolico maschile, loro in genere non sanno niente del nostro, soprattutto di come si è andato ristrutturando sotto gli urti del mondo. E per lo più non ne hanno nemmeno curiosità, anzi ci riconoscono solo dall’interno del loro».

Nella conversazione c’è spazio per le origini: «Napoli è uno spazio che contiene tutte le mie esperienze primarie, infantili, adolescenziali, della prima giovinezza. Molte delle storie di persone che conosco e a cui ho voluto bene si sono sviluppate in quella città e con le parole di quella città. Poiché scrivo di ciò che so ma che covo disordinatamente – riesco a tirar fuori il racconto, a inventarlo, solo a partire da una mia opacità – succede quasi sempre che i miei libri, anche se muovono dall’oggi e da città diverse, abbiano radici napoletane».

Le letture formative? «Il manifesto di Dona Haraway che ho letto con colpevole ritardo, e un vecchio libro di Adriana Cavarero: ‘Tu che mi guardi, tu che mi racconti’. Il romanzo invece per me fondamentale è ‘Menzogna e sortilegio’ di Elsa Morante».

Dove lavora Elena Ferrante? «Dove capita. L ‘essenziale è che sia un angolino, vale a dire uno spazio di minuscole dimensioni». E per rilassarsi? «Mi dedico alle noiose incombenze domestiche».

Poi, sul mistero Ferrante: «Non ho scelto l’anonimato, i miei libri sono firmati. Mi sono invece sottratta ai riti con cui gli scrittori sono più o meno obbligati a sostenere le loro opere, ad affiancarle con una loro immagine spendibile. Ed è andata bene, per ora. I libri mostrano sempre più la loro autonomia e perciò non vedo perché dovrei cambiare la mia posizione. Sarebbe una deplorevole incoerenza». Infine: «Chi scrive e pubblica fa tutt’altro che cancellarsi. Ho infatti una mia vita privata e dal punto di vista pubblico sono ampiamente rappresentata dai miei libri. La mia scelta è stata un’altra. Ho semplicemente deciso una volta per tutte, più di venti anni fa, di sbarazzarmi dell’ansia di notorietà e della smania di entrare nella cerchia di chi ha successo, di chi crede di aver vinto chissà cosa. Questo è stato per me un passo importante. Oggi mi sembra di essermi guadagnata, grazie a quel passo, uno spazio mio di libertà dove mi sento attiva e presente. Rinunciarci sarebbe un grande dolore. Per quel che ne so i lettori non si disperano affatto. Ricevo lettere che mi sostengono nella mia piccola battaglia a favore della centralità delle opere. Evidentemente a chi ama la letteratura i libri bastano».

 

(Corriere del mezzogiorno, 31 agosto 2015)

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