19 Dicembre 2014
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Gesto di lotta e di piacere

di Silvia Neonato

 

 

Un gesto che sta per un vuoto ma che pure non è mancanza. Un gesto che si fa con le mani, unendo gli indici e i pollici, per poi sollevarli verso l’alto. Mostrato in strada e davanti a sedi di partiti, Rai e istituzioni, da migliaia di donne, danzanti o furiose, ma senza eccezione sfidanti eppure quasi sempre sorridenti.

 

Un gesto che nasce con il femminismo e dura negli anni Settanta per poi scomparire. Ma non dalle foto d’epoca né dalla memoria. Perché è scandaloso, turba chi lo guarda e spesso anche chi lo fa, trafigge i media del tempo, resta come il segno della trasgressione femminista, della rivolta di una generazione anticonformista e libertaria che oggi qualcuno vuole invece descrivere come moralista e sessualmente repressa: quel gesto invece designa la vagina, la mostra in piazza. E non solo: mostra il godimento, il piacere che le donne ne vogliono finalmente trarre, dopo averla vista per secoli ridotta a luogo della riproduzione. Se non della violenza impunita.

 

Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte è un libro ricchissimo e non solo per le decine di foto in bianco e nero che contiene. Lo si sfoglia con foga perché è tuttora scioccante, come quel gesto mille volte riprodotto (c’è anche la foto della bimba nuda, tratta da “Quotidiano donna” del ’78, che lo fa accompagnandolo con una irriverente linguaccia!). Avvertono le curatrici Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, nell’introduzione ai sedici saggi del volume, che il gesto non è stato fatto solo dalle femministe ma anche da donne molto diverse che magari solo una volta sollevarono in alto le due mani e sbatterono in faccia al mondo quella fessura che aprì un varco. Per sempre, anche se oggi nessuna lo fa più. Allora in tante scoprirono l’orgasmo clitorideo come una salvezza e la loro maestra fu Carla Lonzi, continuamente citata in un libro che riprende il tema della sessualità per mostraci la profondità eversiva del femminismo dei Settanta: come scrive Bussoni, bastò alle donne un gesto per inventarsi il sesso.

 

Il gesto non segna un vuoto ma appunto un varco: che fa spazio alla liberazione, alla relazione con l’altro e l’altra, al corpo, alla riproduzione, al piacere, alla costruzione dell’identità e al potere. E che annuncia sfacciato che la rivoluzione marxista non basta più a raccontare il primo, insopportabile dominio, quello dell’uomo sulla donna. Su questo punto scrive Anna Curcio, per dire che con quel gesto le donne «hanno rotto la narrazione capitalista e patriarcale» alla base della subordinazione femminile, ponendo fine all’idea che il loro sia solo un corpo riproduttore e che l’eterosessualità sia l’unica norma.

 

Quello spostamento da lotta di classe a lotta dei sessi le femministe lo chiamarono separatismo, scrive Letizia Paolozzi: ma gli uomini non capirono e non vollero ascoltare, mentre la virilità cominciava a vacillare e la Grande Madre faceva il suo ingresso trionfale. Per Cristina Morini – «il femminismo è una scuola di vita» da contrapporre a capitalismo e globalizzazione – l’insegnamento biopolitico che si può oggi trarre dal gesto è quello di allora: occorre partire dal corpo, potenza sovversiva capace di fare resistenza anche a un sistema che mette al centro il lavoro e non le relazioni. Corpo che anche per Federica Giardini è «l’unico mezzo che ho per andare al cuore delle cose, facendomi mondo e carne».

 

Le autrici, come si vede, sono molto diverse. C’è chi parte da esperienze personali, come Paola Agosti e Agnese De Donato, le due fotografe che lo ripresero in quegli anni e le cui foto rendono indimenticabile questo libro non per niente inserito nella collana “Fotografiche”. Ma scrive anche chi non c’era e attinge all’antropologia, alla filosofia o alla storia dell’arte. In particolare gli ultimi quattro saggi (di R. Perna, Francesca Gallo, Alina Marazzi e Vanessa Martini) parlano di artiste, registe e critiche d’arte e di come la politica del corpo scaturita dal gesto femminista influenzi le opere fino ai giorni nostri: secondo le autrici, dopo che le artiste hanno recuperato il corpo femminile alla scena pubblica, tocca ora alle critiche far sì che le opera delle donne continuino a modificare il simbolico e dunque il mondo al di là della semplice denuncia.

 

Si capisce da ciò che ho appena scritto che il volume – ed è un grandissimo pregio – non si limita al sacrosanto lavoro di memoria, ma sconfina nell’oggi. Le Pussy Riot a seno nudo o le Vagina Warriors ispirate dal lavoro di Eve Ensler e dai suoi Monologhi della vagina, sono legittime eredi del gesto femminista? Laura Corradi – a cui si deve l’aver rintracciato l’origine finora misteriosa del gesto: fu Giovanna Pala a usarlo, per prima, a un convegno sui crimini contro le donne, a Parigi nei primi anni Settanta, dopo averlo visto sulla rivista femminista Le Torchon brûle – nutre simpatia per le Pussy Riot e per quella che definisce la “prospettiva postvittimista” offerta da Ensler con le sue danze planetarie contro la violenza dei maschi sulle femmine. Ma, si interroga Corradi, non sarà pericoloso ri-essenzializzare le donne alla vagina, assimilarle al sesso biologico? E poi, se guardiamo alle critiche contro il Vagina Day delle nere e delle native americane, emerge tutta la nostra incapacità di considerare pratiche e contenuti dei femminismi indigeni.

 

Il tema del nostro “sguardo coloniale” è ripreso anche da Stefania Consiglieri e Lelia Pisani che nel loro contributo denunciano il silenzio dei media e delle femministe sulle donne del Togo che nel 2012, dopo aver annunciato uno sciopero del sesso, hanno minacciato il loro governo di marciare nude se non fossero stati liberati alcuni uomini incarcerati per reati di opinione. Minaccia che portò al rilascio dei prigionieri. Altro episodio straordinario (e con esiti positivi) eppure ignorato, quello delle donne del Mali che nel 1991 hanno sfilato a seno nudo contro il regime del presidente: procedevano verso i soldati armati indicandosi il seno che li aveva nutriti e maledicendoli.

 

Un’altra domanda resta sospesa in molti contributi. Quella rivoluzione non violenta è interrotta o comunque riassorbita nei nuovi assetti del mondo globale e connesso? Le Pussy Riot o le Femen assomigliano al mercato del corpo femminile che vorrebbero combattere? Per alcune autrici la loro idea di libertà è troppo in sintonia con quella del “capitale umano” e del libero commercio di sé che ci attorniano. L’esibizione di seni, gambe e vagina stentano ormai a rompere la barriera di una visibilità standardizzata. Quelle immagini, avverte Raffaella Perna, rafforzano lo stereotipo donna = sesso = natura. Le donne bolognesi di Collettiva XXX intitolano il proprio intervento nel testo A ciascun* il suo gesto a mostrare la pluralità di voci dei femminismi odierni e il dialogo tra diverse generazioni.

 

Per Bussoni quel gesto di piacere non è mai finito, ma non è più pubblico e perciò arriva la narrazione “vittimaria” dell’esser donna. Per Claire Fontaine quel gesto «che materializza un sesso che è un buco ed è anche una bocca muta, ha scavato un cunicolo nel cuore del visibile che resta ancora da esplorare». Voglio ricordarmelo sempre che il gesto della vagina mi ha anche ridato la parola. Come scrive Claire, abbiamo ancora tanto da scoprire. Non è una fortuna?

 

 

Ilaria Bussoni e Raffaella Perna (a cura di) Il gesto femminista. la rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte, Derive&Approdi, Roma 2014, 168 pagine, 20 euro

(da Leggendaria n.107 nov 2014)

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