13 Febbraio 2015
Via Dogana n. 25 (03-1996)

Il femminismo tedesco messo alla prova di Annemarie Schimmel

di Veronika Mariaux

La mia difficoltà maggiore è costituita dall’ambivalenza dei miei sentimenti nei confronti del mio paese, la Germania. Essendo il criticismo e la diffidenza nei confronti delle relazioni umane e della propria esperienza ciò che intendo mostrare e criticare, sento il rischio di essere trascinata verso la stessa deriva. Per evitare questo, vorrei partire da un esempio di segno opposto, e cioè dal caso di una studiosa tedesca contemporanea che ha basato la sua ricerca sull’amore per le culture orientali. Il nome di Annemarie Schimmel, illustre studiosa dell’Islam, è balzato agli onori della cronaca giornalistica per via della sua designazione per il premio della pace, conferito dall’associazione dei librai tedeschi in occasione della fiera del libro di Francoforte lo scorso ottobre (1995).
Come si è potuto ricavare anche dalla stampa italiana, la nominazione di Annemarie Schimmel per questo premio, che intende premiare personaggi che si sono impegnati attraverso la loro opera nella mediazione fra le culture e i popoli, è stata contestata da parte di un curioso cartello di femministe e intellettuali di sinistra, guidate da Alice Schwarzer e la sua rivista Emma, dal momento in cui Annemarie Schimmel aveva espresso in un’intervista televisiva (il 4/5/1995) il suo disaccordo nei confronti dell’operazione culturale tentata da Salman Rushdie nei suoi Versetti satanici. Pur condannando la minaccia di morte da parte del fondamentalismo islamico, Annemarie Schimmel si è permessa di fare dei distinguo e di criticare l’atteggiamento antispirituale e antireligioso dell’Occidente che si pone come giudice universale di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Vorrei qui aggiungere un dato che non è emerso sulla stampa italiana ma che è stato, a mio avviso, non indifferente nello scatenare l’ira dei difensori dei diritti universali. Prima di arrivare alla fatidica domanda su Salman Rushdie la giovane intervistatrice domanda all’anziana studiosa se, durante i suoi soggiorni nei paesi islamici, non abbia subito la terribile repressione delle donne che là sarebbe all’ordine del giorno. Annemarie Schimmel risponde che no, che lei personalmente non ha mai sofferto e che, anzi, già negli anni Cinquanta ha avuto una cattedra di teologia islamica all’università di Ankara, mentre fa presente che negli stessi anni in Germania nessuna donna insegnava teologia in un’università tedesca. Questa risposta illumina la portata politica dell’impegno di Annemarie Schimmel, che è di minare l’autocentratezza dell’Occidente su se stesso, mettendo in evidenza le contraddizioni lasciate in ombra dall’universalismo dei diritti. Le affermazioni sul caso Rushdie non sono quindi degli scivoloni “poco diplomatici” di una signora impolitica, come hanno cercato di difenderla i suoi sostenitori, ma invece una scelta politica vera e propria. Ma addirittura, ed è qui che sta il vero paradosso, l’atteggiamento critico nei confronti della propria cultura (come di se stessi) è politicamente senz’altro più fecondo (oltre che più “corretto”!) della critica fatta alle altre culture (e agli altri) in base alle proprie misure, applicate a situazioni completamente diverse, di cui in genere non ci si degna nemmeno di informarsi, nel nome di un’implicita superiorità (ciò che è bene per noi, lo sarà anche per voi). È quindi un segno importante, da parte di un paese occidentale, l’aver conferito il premio ad Annemarie Schimmel, con una cerimonia, come nel caso dei suoi predecessori, in un luogo simbolico molto importante per la Germania, e cioè la Paulskirche in cui si riunì nel 1848 il primo parlamento sul suolo tedesco. Ma è altrettanto importante tener presente che questa premiazione è avvenuta contro la volontà di gran parte dell’intellighenzia di sinistra e del femminismo.
A questo punto si pone il problema del femminismo tedesco. Un primo dato è che continua tuttora la forte identificazione del femminismo con la sinistra. Questa identificazione, anche se consapevole e spesso ostentata, produce una grande non-libertà, com’è nella sua natura: identificandomi con un altro da me, mi manca la distanza necessaria per vedere l’altro e perdo contemporaneamente ogni urgenza di lavorare sulla mia auto-coscienza. Così è successo che il femminismo tedesco abbia fatto propri i principi della sinistra (tra cui l’universalismo e lo statalismo) senza interrogarli. C’è un diffuso rifiuto di pensare in prima persona «con la propria testa», un vero e proprio «divieto di pensiero», come lo ha chiamato la storica francese Geneviève Fraisse (su Via Dogana 14/15), con il noto esito di affidare tutto ai diritti e, in ultima analisi, alla legge dello stato-padre.
In questo esito pesa, forse, una certa cultura tedesca. Ma quello che si nota con più evidenza è la vicinanza, se non proprio l’imitazione, del femminismo nordamericano. Come avviene negli Usa, anche le femministe tedesche privilegiano la strada della rivendicazione di posti di potere. Restano così bloccate le iniziative che potrebbero nascere da relazioni non formate o deformate dalla rete del potere pianificatore, relazioni in cui si giocano differenze e disparità, facendo nascere autorità e libertà.
Non bisogna dimenticare che in Germania anche il ’68 ha avuto molto più il significato di una resa dei conti fra figli (e figlie) e padri (madri) sul nazismo, che non quello di una liberazione da vecchi poteri. Poco eros e molto giudizio morale: voi siete stati cattivi, noi siamo buoni. Perché l’eros, ciò che può esserci solo in relazione, è destabilizzante e quindi potenzialmente pericoloso. Così il famoso «make love not war» è stato inteso solo alla lettera e non in profondità. L’amore infatti mi pare che sia quello che si teme di più, in tutte le sue forme.
Per questo motivo le questioni poste da Annemarie Schimmel hanno avuto un effetto così forte di rottura con gli schemi di pensiero fondati su identità/alterità, buono/cattivo. È come se Annemarie Schimmel avesse tutte le caratteristiche necessarie in questo momento per far luce sulle contraddizioni in cui siamo prese. Il fattore primario è certamente la differenza femminile, così dirompente da mettere in evidenza sin dalla prima intervista la questione vera su cui si gioca la partita in questo momento storico: l’autorità femminile e la sua capacità di fare ordine simbolico. Che si trattasse di una donna anziana è un altro elemento importante, perché le settantenni, per motivi storici, non fanno parte di un femminismo diffuso che caratterizza invece le generazioni tra trenta e i cinquant’anni e che spesso prende la forma di un conformismo ideologico, fino all’opportunismo. Il fatto che sia una studiosa, e non una politica di professione o una donna impegnata nel sociale/statale, le consente quella distanza necessaria per vedere ciò che accade; e che sia una studiosa tedesca di una cultura e di una religione straniere come l’Islam, da secoli punto di focalizzazione e di proiezione delle paure dei cristiani, ha fatto sì che potesse essere posta la questione dell’universalismo. Infine, il suo aver assecondato fino in fondo l’amore per le culture e le lingue islamiche («Quando si ama una cultura si ha la sensazione di doverla difendere»), è un ulteriore elemento di rottura degli schemi moderni, che privilegiano in modo esclusivo l’atteggiamento critico (analitico) rispetto a un atteggiamento di empatia nei confronti dell’oggetto studiato.
Così, nelle sue parole e attraverso la sua vita di studiosa, ha fatto davvero un grande lavoro politico, non solo nel senso più esteriore, come le è stato riconosciuto dalla giuria con il conferimento del premio per la pace. Il merito maggiore proviene proprio dall’aver messo in questione i nostri “valori” (cioè quelli della cultura occidentale), facendoci scoprire una serie di -ismi che sono diventati o possono diventare: criticismo, universalismo, femminismo.
Micha Brumlik, politologo tedesco, in occasione di una trasmissione televisiva sul “caso” di Annemarie Schimmel, molto ricca di informazioni sulla sua vita e i suoi studi, ha messo in guardia dal rischio che corre l’Occidente, nel sostenere i diritti umani e nel suo combattere il fondamentalismo islamico, di cadere a sua volta nel fondamentalismo.
Che il criticismo (verso gli altri) trovi il suo uguale speculare nel conformismo (verso il mio e il noi) mi sembra si sia visto bene nella reazione stereotipata all’apparire in scena di una donna “non contemporanea” che è andata controcorrente nel suo rapporto con il mondo. Rapporto dettato non da un atteggiamento negativo (dal nichilismo) ma dall’amore per il sapere nel senso più antico della parola: al centro degli studi di Annamarie Schimmel, infatti, c’è, fin dalla sua giovinezza, la poesia (ha svolto una cospicua opera di traduttrice, soprattutto di poesie) e la mistica islamica, il sufismo.

(Via Dogana n. 25, marzo 1996)


Annemarie Schimmel (1922-2003) è conosciuta in Italia per il libro La mia anima è una donna Il femminile nell’Islam, ECIG, Genova 1998.

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