27 Febbraio 2015

Il post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico.

Intervento di Antonietta Lelario preparato per la presentazione a Foggia del libro di Irene Strazzeri “Il post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico. Sintomi, Passaggi, Discontinuità, Sfide”

 

Sono passati molti anni da quando uno dei fogli più importanti per il femminismo italiano, il Sottosopra rosso, scrisse con il titolo “È accaduto non per caso” che il patriarcato era morto perché non aveva più credito, né funzione ordinatrice.

Da allora quasi tutti gli uomini hanno continuato come se nessuno avesse parlato e noi donne ci siamo divise fra quelle che sostenevano che il patriarcato era ancora vivo e quelle che ne ribadivano la morte, facendo vedere quanto di nuovo c’era sotto il cielo. È forse necessario riconsiderare che “nulla finisce d’un colpo”, come fa questo libro e come sintetizza Elettra Deiana nell’introduzione.

Irene Strazzeri giustamente parla di un’intera fase, il post-patriarcato, in cui ci sono contemporaneamente sintomi dell’agonia patriarcale, passaggi ad altro, discontinuità e sfide da vincere.

Tanto più importante è scrivere un libro del genere per l’Università.

Nelle università, nella scuola, con gli e le studenti ancora c’è timidezza nell’usare la categoria del patriarcato con grave danno per la loro formazione. E come potrebbe essere altrimenti visto che anche nel dibattito politico è un discorso a rischio, per non dire, poi, nell’informazione?

A maggior ragione è apprezzabile introdurre nei saperi specialistici la categoria del patriarcato, perché proprio in quei saperi c’è un continuo esercizio di potere che tenta di asservirli e di conformarli nel linguaggio, separandoli dalle domande che invece sono vive nella realtà.

Osare di pensare e nominare le cose con voce femminile nei saperi specialistici, assumendosene la responsabilità, senza la tranquillità che dà il muoversi sui binari riconosciuti dall’accademia richiede già fiducia nella propria autorità: è già aprire un conflitto fra potere e autorità. E chi dà questa autorità? tutti sanno che non è possibile scrivere senza aver in mente un interlocutore o interlocutrice a cui ci si rivolge, delle figure da cui ci si sente autorizzati. Se si guarda alle donne, se si scrive per loro, si restituisce loro autorità e se ne riceve in cambio. Questa é la più evidente dimostrazione di come l’autorità di cui parlano le donne, l’autorità femminile, sia un processo circolare e sia una pratica prima ancora che un paradigma. Ma attenzione l’autorità femminile non è una questione di sguardi rassicuranti fra donne. Irene Strazzeri sa bene che l’autorizzazione che cerchiamo si gioca sul piano simbolico: sulla capacità di dare diverso senso e diverso peso ai vari aspetti della realtà, di trovare collegamenti inediti, di lasciar cadere lacci che ci vincolano alla ripetizione dell’esistente.

E il libro si cimenta in questa lettura del presente modificata dallo sguardo femminile. Così facendo si colloca nella grande sfida che il femminismo ha aperto fin dagli anni ’70 del 900 per far vivere all’interno dei saperi altri punti di vista, rispetto a quello neutro dominante, e un’altra lingua che, per dirla con Simone Weil, “accolga il grido della realtà per essere letta diversamente”. Penso a tutto il lavoro fatto, in questi anni, sul corpus letterario e artistico, sulla scienza, sulla teologia, sulla storia, sulla politica, sull’economia. O sulla sociologia, come fa questo libro. Con questo lavoro di ricerca a tutto tondo le donne si sono tolte dal posto in cui il patriarcato voleva relegarle, l’ambito della sessualità e della maternità, mostrando che potevano ripensare tutto a partire dal proprio sesso. Un altro grande atto di libertà e autorità insieme: intreccio fecondo e inedito!

Fa bene quindi Irene Strazzeri a concludere il libro indicando l’autorità femminile come una strada maestra per “rimettere al mondo il mondo”.

Alcuni passaggi tuttavia del libro mi hanno suscitato perplessità e io voglio nominarne due. Lei trova parole molto attente ed efficaci per indicare il cambiamento avvenuto ormai nella società “dal riconoscimento al solo lavoro produttivo alla visibilità della cura”. E per questo dobbiamo dire grazie anche al lavoro politico fatto dal gruppo di femministe del mercoledì di Roma. Ma Strazzeri sottovaluta la proposta del Sottosopra “Immagina che il lavoro” che tenta di raccogliere questa nuova sensibilità indirizzandola verso la necessità di modificare l’intera organizzazione sociale e sessuale del lavoro che io, anche come madre, trovo urgente ed essenziale. Immagino infatti quanto deve patire mio figlio, padre di un bimbo di quasi tre anni e di due gemelli di otto mesi ogni volta che è costretto a chiedere permessi familiari. Il lavoro deve ormai essere pensato, mettendo in conto la cura della vita per uomini e donne.

È chiaro che se si perdono questi passaggi aperti nella contrattazione sociale, ci si trova a dar credito a chi afferma che posizionarsi solo in quanto donne non sia sufficiente per avere una visione anticapitalista. Chi sostiene questo ha ancora l’idea delle donne non come umanità femminile, ma come parzialità rispetto al tutto che rimarrebbe l’uomo.

A me sembra, infine, che nel trattare la questione dell’identità l’autrice sottovaluti l’esperienza della lingua materna riferendosi alla lingua solo a partire dall’affermazione di Derrida: “Ho solo una lingua e non è la mia”, che lei fa diventare: “Ho solo un’identità e non è la mia”. Eppure in un’altra parte del libro ha scritto che le donne cambiano le parole perché vogliono cambiare le cose, quindi sa bene l’importanza della lingua. La lingua materna nel dare conto dell’esperienza femminile avvicina ciò che la cultura patriarcale tende a separare e fa vedere un altro modo di sentire, pensare, amare, conoscere, più vicino alla vita. È ciò che abbiamo per deviare rispetto alla lingua del potere.

Antonietta Lelario (Circolo La merlettaia)

Foggia 11 febbraio 2015

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