Il 27 agosto 2014 Repubblica on line pubblica nella sezione degli esteri una raccolta di fotografie datata 11 aprile 2014 e sormontata dal titolo «Brasile, nella città delle donne: “Qui comandiamo noi”». Sotto, a mo’ di didascalia, l’“informazione”: poche righe, che descrivono in modo caricaturale una comunità rurale del Brasile, sostenendo che la popolano solo donne che hanno «un’età compresa fra i 20 ai 35 anni» (sic!), che alcune sono sposate ma i mariti «possono lavorare solo fuori dal paese e tornare solo nel fine settimana», e che cercano «scapoli disposti ad accettare un mondo dove sono le donne a portare i pantaloni» (sic! sic!). E questo sarebbe giornalismo! Ci meravigliamo di Repubblica. Da un organo di stampa serio ci aspetteremmo che prima di pubblicare una notizia vada alla fonte e la approfondisca, non che sbatta nella pagina degli esteri senza verifiche i gossip pruriginosi rimbalzati dalla rete. Nova di Cordeiro esiste realmente, è abitata da persone di entrambi i sessi e di tutte le generazioni , e se gli uomini sono assenti durante la settimana è semplicemente perché fanno i pendolari. Le donne, che restano, e non “comandano loro”, ma organizzano la vita e l’economia dell’intera comunità, affidandosi all’autorità di una delle anziane e delle più intraprendenti delle adulte e delle giovani. Come facciamo a saperlo? Con una ricerca in rete, abbiamosubito trovato un bellissimo reportage del 2009. E se l’abbiamo trovato noi, con i suoi mezzi Repubblicaavrebbe potuto far ben di meglio. Ecco dunque la vera notizia, che abbiamo tradotto dal portoghese.
15 Settembre 2014
revistamarieclaire.globo.com

Il villaggio delle donne

di Fernanda Cirenza

 

http://revistamarieclaire.globo.com/Revista/Common/0,,EMI102103-17737,00-A+VILA+DAS+MULHERES.html

 

pubblicato su Marie Claire edizione brasiliana del 10/11/2009

 

Prima delle sei della mattina, un po’ di movimento comincia a svegliare un’eccentrica casa colonica costruita al limitare del comune di Belo Vale, nello stato di MinasGerais. In silenzio, Juliana, ventisei anni, aggiunge legna al fuoco per preparare il caffè zuccherato. Ma la sua calma è presto interrotta da un gruppo di persone che invadono in un colpo solo la cucina di Noiva do Cordeiro, una comunità rurale formata da molte donne. Sono loro ad arare la terra, mungere le mucche, dar da mangiare ai maiali, tessere tappeti, cucire trapunte, disegnare biancheria intima, e inoltre si occupanodei bambini. Solo che dietro questa forza femminile esiste una storia orale, senza registri, di pregiudizi e diffamazione.

 

«Ci siamo unite per non morire di fame e di solitudine», dice RosaleeFernandes Pereira, 44 anni, una delle leader del posto. Gli uomini del villaggio hanno lasciato la casa tempo fa. Sono partiti per Belo Horizonte, a 100 chilometri da lì, in cerca di lavoro e di reddito. Perlopiù lavorano in fabbrica. Ma ogni fine settimana tornano per rivedere le famiglie. Con tutto questo andirivieni la casa, che già era chiacchierata, ha aumentato la sua reputazione di luogo di prostituzione. La maldicenza ha raggiunto la cittadina più vicina, la piccola Belo Vale, distante venti chilometri di strada sterrata. «Siamo state disprezzate perfino alle veglie funebri», dice Rosalee. Nessuno conferma, ma molta gente afferma di aver sentito dire che la cascina è una zona di emarginazione, di spaccio di droga, un covo di malviventi, la casa del demonio. Ma c’è anche chi ne parla bene. «La gente si inventa tutto solo perché sono belle ragazze», dice Carmem, receptionist d’albergo. È vero. Le donne di Noiva do Cordeiro (sono più di cento) sono carine e giovani, la maggior parte è tra i venti e i trentacinque anni.

 

I commenti malevoli sarebbero l’eredità di un passato marchiato da un adulterio commesso per amore e, più tardi, dalla rottura definitiva con i dogmi delle dottrine religiose.

«Crediamo in Dio. Ma pensiamo di non aver bisogno di andare in chiesa, sposarci di fronte al prete o battezzare i nostri figli», spiega Rosalee. La loro fede più forte è quella nella crescita della comunità per far sì che, un giorno, gli uomini non debbano più abbandonare la casa.

 

È venerdì

La stanzetta con letto matrimoniale sembra un salone di bellezza. Dodici donne si contendono il fon, le creme, i trucchi. Nelma trucca Sela con fondotinta, cipria, ombretto, kajal, rimmel, rossetto. «È venuta bellissima, guardi.» Iara spennella Elida e Eliany fa le unghie a Flávia. Persino Ângela, tre anni, vuole partecipare alle operazioni di maquillage. «No, questo no» dice Keyla, ventitré anni, sua madre, impedendole di prendere il ferro per capelli che si scalda nella presa. «È una vanitosa. Se non ci sto attenta, usa tutto quanto.»

 

Il clima è euforico. Da un momento all’altro, gli uomini arriveranno a casa. Simone, ventisei anni, madre di un bambino di sei, aspetta Rodrigo, impiegato di un colorificio. «Non si convive abbastanza. Manca lo stare insieme un giorno dopo l’altro, sa?» Keyla, ventitré, ribatte: «Ma anche avere il marito a casa è un problema». Sposata con Marcelo, Keyla è amareggiata dai sette mesi di disoccupazione del suo compagno. «Siamo alle strette con le spese. Se Ângela ha bisogno di medicine, devo elemosinare in giro, chiedere la collaborazione degli altri». Al momento, il problema di Keyla è che ha finito lo shampoo. «Lo prendo in prestito, le ragazze se ne fregano, ma preferisco avere il mio», dice.

 

La sorridente Danielle, di appena un anno, che richiama l’attenzione con dei gridolini ben piazzati, usa comepannolino unapezza avvolta in un sacchetto di plastica: gli ultimi cinque pannolini usa e getta li tengono da parte per le prossime notti. Separata dal padre di sua figlia, Eliany non ha chi l’aiuti a mantenere Danielle. «Lui ha riconosciuto la figlia, ma non paga gli alimenti e non la viene a trovare». Il padre della piccola, che abita a Belo Horizonte, aveva tentato di portarci la famiglia, ma Eliany ha avuto paura: «Non mi sono mai allontanata da qui».

 

Il maggior vantaggio di vivere nella grande cascina è il mutuo aiuto. Se a una manca qualcosa, qualcuno gliela presta, gliela dà, gliela fa. Ma c’è anche un grande svantaggio. «Dormire nella stessa stanza con Ângela è complicato. Per fare l’amore, o qualcuna me la tiene, o si deve aspettare che si addormenti». Non sempre Keyla sopporta la vivacità della figlia.

 

È difficile anche trovarsi l’innamorato. «Qui sono tutti mezzi cugini, Non c’è gusto», dice Nelma, una bruna dagli occhi verdi di ventitré anni che “da un pezzo” non ha compagnia maschile. Di fatto, la maggior parte delle donne sposate ha conosciuto il suo compagno nella comunità e ha qualche parentela con lui. Per ora, i progetti di Nelma sono di continuare a lavorare i campi e ad aiutare nei servizi di casa. Come buona parte delle donne di Noiva do Cordeiro, Nelma ha frequentato le scuole sono solo fino alla quinta elementare. «Mio padre non riteneva importante che si studiasse. Adesso non ho il coraggio di ricominciare».

 

Elida, ventiquattro anni, è una delle pochissime ad aver terminato le scuole superiori. Per questo, lavora su più fronti: oltre ai lavori agricoli, rivede testi, riceve eventuali visitatori, si prende cura delle anziane e manipola sostanze chimiche per fabbricare prodotti per la pulizia. Nata a Montes Claros, nel nord di MinasGerais, Elida vive nella comunità da sei anni. «Passavo le vacanze qui con le ragazze. Quando ho finito la scuola, ho deciso di aiutare la comunità a crescere», dice. Elida dorme nella stessa stanza di Nelma, Sonia e Flávia. «Non importa, però sogno un marito, una casetta e dei figli».

 

Flávia, venticinque anni, concorda. «Sono ore che voglio restare un po’ per conto mio, ma non c’è verso. Entra una, entra l’altra, non ho un attimo di calma.» Lei, che abitava con la famiglia in un altro villaggio lì vicino, è arrivata nella comunità dieci anni fa. Figlia di padre alcoolista, non ha molti bei ricordi del suo breve passato. «Mio padre era violento. Un giorno, la scuola l’avvisò che mio fratello aveva usato il quaderno al contrario. Lui, allora, mise il bambino a testa in giù e gli diede una ripassata da tirar le cuoia».

 

Nonostante la mancanza di privacy, Flávia è felice della vita che fa. Se fosse rimasta con suo padre, teme che sarebbe diventata come lui. «Ero una ribelle, addirittura una selvaggia. Se vedevo qualcuno che si ammazzava di fatica, non l’aiutavo, non me ne curavo nemmeno. Ero egoista, un mostro come mio padre.» La vita nella cascina le ha offerto una nuova prospettiva. «Qui ho trovato accoglienza. Oltre a questo, mi sento orgogliosa di esser contadina. A volte piango di commozione al momento del raccolto. È un lavoro che mi corrisponde, che ha a che fare con me».

 

Nelle tredici camere della cascina abitano 37 adulti, tra residenti fisse e quelli che vanno e vengono, e dieci bambine e bambini da zero a dieci anni. Ci sono stanze per le coppie, per le madri senza marito e per single – donne da una parte, uomini dall’altra. Gli unici due bagni, che stanno uno affianco all’altro, sono di tutti. Le altre e gli altri abitanti di Noiva de Cordeiro vivono in trentacinque altre case più piccole, costruite intorno al cascinale a formare la comunità. Benché non vi abitino, è nella casa grande che prendono il caffè della mattina, pranzano, fanno merenda e cenano. «La mia casa è là dabbasso, ma passo tutta la giornata qui», dice Cida. Lei e molte altre si riuniscono nell’enorme sala con TV a 46 pollici e schermo piatto, che è stata comprata dopo una colletta durata quasi un anno, fatta fra i trecento abitanti della comunità. Se non fosse per la TV, Noiva de Cordeiro sarebbe ancora più isolata dal mondo. Nei dintorni non ci sono edicole, non esistono connessioni a internet e i cellulari non prendono. Per comunicare, le abitanti usano l’unico telefono pubblico della comunità, installato alla porta della cascina quattro mesi fa.

 

La grande dimora

Delina Fernandes Pereira, sessantacinque anni, è la matriarca di Noiva de Cordeiro. In quanto tale, decide del funzionamento del villaggio. La sua filosofia è tutti per uno, uno per tutti. La comunità vi si attiene. Delina è la loro guru. Vedova, con quindici figlie e figli, è chiamata “madre” anche da chi non ha legami di sangue con lei. Padrona della terra che ha trasformato in campi coltivati e del casolare, ha ereditato il compito di raccontare la storia di emarginazione della sua famiglia che si protrae da oltre un secolo. Chiunque sa del retaggio del villaggio, ma solo lei, di fatto, è padrona della storia.

Con una sigaretta in mano, Delina racconta che tutto cominciò a causa di un idillio. «Fu quando mia nonna lasciò il marito per vivere con il nonno Chico.» Infelice nel matrimonio con Arthur Pierre, Maria Senhorinha de Lima fuggì con Francisco Fernandes al paesello di RoçasNovas alla fine del XIX secolo. La famiglia di Francisco, indignata per il loro comportamento, cercò di diffondere la notizia dell’adulterio nella zona, così quando i due amanti ci arrivarono, furono ostracizzati dal vicinato. La chiesa li scomunicò tutti e due, insieme a tutta la discendenza che avrebbero avuto fino alla quarta generazione. Malgrado la condanna, la coppia costruì la cascina e vi allevò dodici figli e figlie.

 

Quasi cinquant’anni dopo, quando il maleficio sembrava quasi dimenticato dalla popolazione di RoçasNovas, un nuovo matrimonio aggravò la situazione. Fu quello di Delina, che abitava nel cascinale, con il pastore evangelico Anísio Pereira. «Io avevo sedici anni, lui quarantatré. Non ci contestarono la differenza d’età perché Anísio era uomo di Dio. Il problema fu che lui fondò la chiesa Noiva do Cordeiro (“Sposa dell’Agnello”, N.d.T.) e si mise a convertire la gente.» Delina non sa dire se il nome della chiesa, all’origine di quello della comunità, fu un omaggio che Anísio fece a lei. Ma sospetta di sì. «Io sono stata la sposa dell’agnello, quello toglie i peccati dal mondo».

 

La dottrina evangelica disturbò i cattolici, e la cascina, in cui si svolgeva il culto, tornò ad essere causa di turbamento. Le regole del pastore includevano preghiere quotidiane, digiuni costanti e punizioni pubbliche. Erano proibiti gli alcolici, le droghe, la musica, il taglio dei capelli e i metodi contraccettivi. La rigorosa agenda degli obblighi condusse il villaggio a una povertà francescana. «La religione è come una malattia: contagia uno, contagia tutti. C’era tanto da pregare che non avevamo tempo per piantare le colture», dice la matriarca della comunità.

 

RosaleeFernandes Pereira, la maggiore delle figlie di Delina e Anísio, è cresciuta con questo modello. A dieci anni, digiunava già insieme agli adulti. A sedici era sposata e a ventuno era madre di tre figlie. Di nascosto dal padre e dal marito, Rosalee organizzò un gruppo di donne per andare a farsi legare le tube, un peccato imperdonabile secondo la dottrina di suo padre. «Tutto quello che si faceva era peccato. Nella mia testa, evitare un figlio erasolo unofra gli altri.» Questo fu il principio della fine della leadership del pastore. Vecchio e screditato, Anísio ormai non convinceva più tanto gli abitanti del villaggio. Con la sua morte, nel 1995, le persone della comunità abbandonarono definitivamente i dogmi religiosi, e i pettegolezzi dei villaggi vicini ricominciarono. La grande casa colonica, già covo di adulteri, ora poteva diventare la dimora del demonio.

 

Nova do Cordeiro era rovinata. A Belo Vale, gli abitanti di Cordeiro non erano i benvenuti. Belo Horizonte era ancora più pericoloso per loro. Anche se non c’erano più motivi religiosi, Delina continuò a riunire la gente nella cascina. «Anísio era troppo rigido, ma una cosa buona la insegnò, e cioè l’amore e l’unione fra tutti. È in questo che credo. Sono timorata di Dio, ma non ho bisogno di patire la fame e il freddo per essere figlia Sua.» Questa comunione sarebbe stata la leva per la creazione delle piantagioni. Non essendoci lavoro per tutti nei campi, donne e uomini si divisero per garantire la sopravvivenza del villaggio. Gli uni se ne andarono in cerca di reddito, e le altre si misero a coltivare tutte insieme.

 

La registrazione ufficiale della comunità è del 1999, anno in cui è stata inaugurata l’associazione degli abitanti. Ma la collettività ha cominciato a formarsi spontaneamente almeno una decina di anni prima. Costrette dalla necessità, le abitanti dapprima hanno creato una specie di kibbutz (in ebraico, “riunione”), una collettività che in Israele si caratterizza per l’assenza di un singolo padrone della terra. «Non so che cos’è. Qui la gente non si spreca in teorie», dice Delina. Ma i campi di Cordeiro alimentano gli abitanti con riso, fagioli, miglio, caffè e ortaggi. Nonostante siano le donne a coltivare la terra, anche gli uomini contribuiscono alla comunità: parte del loro denaro è investito nell’acquisto di sementi, bovini, suini e pollame.

 

Comunque sia, la società di Noiva do Cordeiro sta sviluppandosi. Oltre alla produzione agricola, le donne hanno messo in piedi un laboratorio sartoriale di intimo, trapunte patchwork e tappeti. All’inizio, tre di loro hanno tentato di vedere gli articoli nelle comunità rurali e a Belo Vale. Non avendo avuto successo, sono partite per Belo Horizonte e si sono messe a vendere porta a porta. Oggi, i loro prodotti sono venduti direttamente in fabbrica e in un negozio della capitale. Ma quando arriva il momento del raccolto, fermano le macchine e vanno tutte nei campi. Per ora, la fabbrica non garantisce reddito alla comunità. Ma i sogni delle donne di Cordeiro volano alto. Vogliono estendere le coltivazioni e fare dell’atelier tessile una fabbrica redditizia. Il cascinale va avanti e, se dipendesse solo dal sogno, un giorno diventerebbe un albergo pieno di storie.


(revistamarieclaire.globo.com, 10/11/2009)

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