17 Maggio 2013
Letterate magazine, n. 52, 2013

Immaginare un’altra scena. I sud, le mafie: le donne si raccontano

di Gisella Modica

Molte le suggestioni scaturite dal convegno I sud, le mafie: le donne si raccontano promosso dalla Casa internazionale delle donne con l’associazione daSud, Libera e la Società Italiana delle Letterate (Roma, 5-7 aprile 2013) che ha visto donne di diverse competenze – storiche, giornaliste, scrittrici, magistrate, amministratrici – chiamate a raccontare della propria esperienza in contesti dove le Mafie (cosa nostra, camorra,’ndrangheta) sono più radicate. Il convegno infatti intendeva porre l’attenzione sulla relazione tra capacità di raccontarsi e raccontare, da donna, il sud, e l’individuazione di pratiche politiche che il presente impone, di fronte alle trasformazioni delle Mafie definite da Franca Imbergamo, magistrata, “forme più manifeste di un potere camaleontico che conosciamo poco”. E dunque stentiamo a ri-conoscere. Attenzione imposta dalla presa d’atto di “un deficit di narrazione” che secondo Costanza Quatriglio, regista, ha origine nel fatto che “essere donna del sud ha significato un marchio di appartenenza insopportabile, come se il sud fosse qualcosa da nascondere sotto il tappeto”. Identità difficile, mai conclusa, che può rivelarsi “un trabocchetto sotto la sabbia”, e da cui si preferisce prendere le distanze – “sono del sud, ma…” – nel timore di rimanere intrappolate nello stereotipo donna-sud-mafia=svantaggio. Timore confermato da Luisa Cavaliere che già nel n.10/1993 di Madrigale, scriveva: “Abbiamo paura di lavorare sulle origini della nostra identità… questo ha prodotto quella fisionomia debole del movimento delle donne meridionali… mutilato della possibilità di radicare nel sud la sua ricerca”. Del resto le mafie oggi sono anche al nord; né la libertà femminile ha considerato dirimente la differenza territoriale, dice chi non considera dirimente o prioritario definirsi oggi donna del sud: come donna la mia patria è il mondo. Ma aver rifiutato cittadinanze formali, non significa rifiutare il luogo d’origine “conditio sine qua non del mio essere” confuta Maria Attanasio, poeta, che si chiede “quale sarebbe stata la mia storia se il mio orizzonte esistenziale fosse stato di marmo o cemento invece che di creta, del bianco della neve e del nero delle sciare sul vulcano”. Richiamando alla memoria le scrittrici postcoloniali che nell’evidenziare i limiti di un femminismo eurocentrico hanno riposizionato lo sguardo sul punto d’origine – luogo di dominio coloniale/patriarcale e di interruzione della memoria – che da luogo di esclusione si trasforma in luogo di resistenza.

Un invito dunque a riposizionare lo sguardo sul sud, da cui possa prendere le mosse “un pensiero di nascita capace di esperire pratiche diverse di esistenza” propone Laura Fortini, letterata. “Un pensiero convalescente, per frammenti, in un tessuto stramato su cui trascrivere l’esperienza corporea delle donne” lo definisce Emma Baeri, storica, che si concretizzi in “un progetto di bellezza civile, oltre il razzismo e il fondamentalismo, ripensando a quel breve momento di felicità che fu il periodo arabo normanno”.

“Oggi che tre quarti del pianeta sono al margine, stare al sud è stare sul taglio” ha commentato Tristana Dini (sito AdATeoriaFemminista). “È situarsi in una posizione dentro/fuori al Sistema, punto d’ascolto mediano tra sé e l’altro, dove l’altro è il territorio”, ha specificato Nadia Nappo.

Un pensiero che comprenda un cambio di prospettiva rispetto a quello tradizionale che vede le donne contrapporsi alle mafie in posizione di resistenza. Postura in difesa, di chi agisce nello stesso solco, e con le stesse modalità, dell’ordine simbolico maschile. E si avvicini invece a pratiche più simili alla resilienza “processo che permette di risalire da una ferita, traendo da essa energie per una risposta creativa e originale, in opposizione alle sollecitazioni che spingono verso l’emigrazione, e l’esilio” propone Floriana Coppola, scrittrice.

Un esempio ci viene già dalle collaboratrici di giustizia calabresi, che più che resistere al Sistema o contrapporsi in nome di una presunta legalità, si sono sottratte al loro ruolo di “trasmettitrici mute del pensiero del padre”.1 “Figure di confine, sospese tra due mondi, che abitano una posizione terza” le definisce Alessandra Dino, sociologa.

L’altro esempio ci viene dalle sindache della Calabria, che, secondo Ludovica Ioppolo dell’associazione Libera “non operano rotture col proprio ordine di appartenenza, come le collaboratrici di giustizia, ma in coerenza con se stesse si mettono in gioco per costruire un nuovo modello di partecipazione democratica”. Donne che resistono “per dare alle bambine dei modelli femminili da imitare” (Elisabetta Tripodi, sindaca di Rosarno). “Resisto affinché le persone sane possano esercitare pubblicamente il diritto alla scelta, come ho fatto io. Perché vivere al sud è una continua scelta: di partire, di tornare, di restare. Perché vivere al sud è convivere col dolore (della perdita) e la paura (del sequestro). A spingerti è l’amore per la tua terra” (Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace). Significativa la testimonianza di Alessandra Clemente, 26 anni, neoassessora al comune di Napoli, figlia di una vittima innocente di camorra: “La mia resistenza è nel sorriso di mia madre che riusciva a spostare le montagne. Il mio desiderio è trasformare tutto ciò che è accaduto in qualcosa che somigli al sorriso mia madre, per costruire un senso a qualcosa che un senso non ha, perché la morte di un innocente non può avere un senso. Se siamo in grado di sentire l’ingiustizia, di avere questo tipo di sensibilità, scomoda, perché ti fa sentire diversa, allora puoi nel tuo piccolo, con le tue relazioni, fare la differenza. Solo quando la tua ferita diventa la ferita di tutta la città allora si è realizzata la vera giustizia sociale”.

Storie del sud, di donne appassionate, che al di là della resistenza, della loro lotta quotidiana per garantire “regole uguali per tutti”, uguale accesso ai diritti, e trasparenza amministrativa, lasciano intravedere un modo di essere e di fare differente: passione, ricerca di senso, attenzione alla memoria, sensibilità al dolore, una forma tutta femminile di trasmissione alle nuove generazioni “per imitazione”. Un modo di patire il mondo ed esperirlo difficilmente declinabile per intero nelle forme della delega e della rappresentanza istituzionale. Un ordine differente, la cui forza, o viene vanificata dietro la maschera della neutralità democratica e istituzionale, o è ridotta a valore specifico femminile, adatto solo alla cura e ai servizi, senza incidere nel contesto, anzi diventando ad esso funzionale. Testimonianze che invitano a “ripensare forme di democrazia incarnata che tengano conto dei corpi di donne” (Baeri).

Dolore, perdita, paura, amore per la propria terra; sentire su di sé l’ingiustizia e far sì che la propria ferita diventi quella di tutta la città per costruire qualcosa che assomigli alla propria madre; che sia d’esempio per le bambine affinché un giorno possano imitarlo: come fare per restituire a questi saperi femminili, che non separano l’intimo dal sociale, la stessa forza che ha saputo imprimere, per esempio, la cantautrice Francesca Prestia, dando voce col canto in lingua materna alla Ballata di Lea Garofalo?

“Il punto di partenza per chi vuole ripartire dal sud è il dolore che si interpone tra la bellezza e il degrado” dice Tristana Dini; “se il punto da cui ripartire è la bellezza e la poesia, farsi contagiare dal dolore dell’altro, allora serve scalfire la corazza che ci portiamo dentro, e la resistenza è una pratica all’opposto, che lo impedisce”, afferma Paola Bottero, editore.

Esperire nuove pratiche di esistenza è accedere ad un ordine differente, “un terzo luogo” suggerisce Dini. Terzo luogo da inventare, da immaginare. “Il valore della testimonianza da sola non basta” avverte infatti Laura Fortini; così come “non è sufficiente raccontare dei fatti: occorre inventare perché l’esperienza prenda senso”. 3

La lingua materna, il canto, la letteratura come “sguardo profetico” (Fortini) e pratica dell’alterità; come “non luogo fatto di impalcature immaginarie che partono dal reale per tradirlo, tradurlo, trasfigurarlo” (Coppola) possono aiutarci.

Immaginazione infatti non è “fantasia arbitraria, ma rischiosa vicinanza tra reale e immaginario… un andirivieni… un passaggio attraverso cui smuovere il reale da una fissità mortifera”. 4

Proviamo allora a uscire dal solco del seminato, e a riattraversare la scena imposta dalla fissità mortifera delle mafie come i corpi nelle ultime “Rielaborazioni” fotografiche di Letizia Battaglia. Corpi e visi di donne che da lei innestati “per disgusto o per disperazione” nel contesto usuale di morti ammazzati, miseria, povertà, lo trasformano, dando un altro taglio alla scena, trasformandosi essi stessi in altro, e costringendo chi guarda ad immaginare altro. Un altro sud. “Un vasto territorio, geografico e mentale, disseminato di madonne nere, di sibille, di sante e donne di fuori.” 3 Figure liminali metà prefiche, metà guaritrici, sul confine tra reale e inventato, capaci di entrare in relazione con ciò che è altro da sé e altro di sé. Capacità che le donne del sud utilizzano per sopravvivere, nel quotidiano, in situazione di precarietà e povertà, senza perdersi.

Ripartiamo da qui, da questo Sud immaginario, metafora del proprio desiderio e spinta verso l’agire sociale e il cambiamento, che ogni donna – del nord e del sud – si porta dentro, e riattraversiamo, come i corpi di Letizia, la scena imposta dalle mafie per smuoverla dalla sua fissità mortifera.

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1 Renate Siebert in AA.VV. Donne di Mafia, Meridiana, 2005.

2 Diotima, Immaginazione e politica, Liguori, 2009.

3 Chiara Zamboni in Diotima, Il profumo della maestra, Liguori, 1999.

4 Lucia Chiavola Birnbaum, Black Madonnas, Palomar, 1993.

 

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