9 Maggio 2016
Inchiesta, n.191 (versione integrale)

Imparare da Colonia

Imparare da Colonia
di Giordana Masotto*
*giornalista, cofondatrice della Libreria delle donne di Milano

 

A Colonia, nella notte di San Silvestro, si è acceso un riflettore. La luce che ha violentemente illuminato la scena ha mostrato una complessità e una opacità che, a oltre due mesi di distanza, lasciano ancora sgomenti. Eppure, se guardiamo lo scenario che abbiamo di fronte senza farci troppo intimidire, possiamo vedere. Possiamo farci guidare dai paradigmi che hanno dato buoni frutti, cioè quelli che rendono forti e autorevoli le donne e che fanno crescere la consapevolezza di donne e uomini sui nodi epocali che abbiamo di fronte. Possiamo imparare da quella violenza, dalla complessità e dalla opacità.

 

I fatti? Ancor oggi non possiamo descriverli con precisione. Sappiamo che il branco di maschi questa volta era di dimensioni mostruose, cinquecento, mille, che erano “di aspetto arabo e nordafricano”, che le molestie di varia gravità hanno colpito un centinaio di donne in maggioranza tedesche, sole o in compagnia, che alle violenze si è aggiunta la rapina, che la polizia non si è accorta, non ha prevenuto, di fatto era impotente, ha tenuto la cosa sotto silenzio per giorni. Colpisce inoltre che violenze simili siano avvenute in contemporanea in altre città tedesche, in Svezia, Finlandia, Austria. Orchestrazione? Casualità? Segno dei tempi? I dubbi e i punti interrogativi sono molti e realisticamente non avremo mai risposte che li sciolgano. Il 15/2 il procuratore di Colonia ha dichiarato che le denunce sono via via cresciute arrivando a 1054: 454 per molestie e aggressioni sessuali e 600 per furto. Gli identificati sono 73 di cui 61 nordafricani, dunque non parte della recente ondata di profughi. Ha precisato che la presenza di criminalità in questi gruppi sociali è paragonabile, in proporzione, a quella rilevabile tra i tedeschi e che non è emerso alcun coordinamento.

 

A quei fatti sono seguiti altri fatti – valutazioni, reazioni, prese di posizione, spostamenti – questi sì più chiari.

 

Evidente e forte è stata la reazione anti-immigrati e anti-rifugiati. Quanto accaduto ha catalizzato le posizioni di chi era contrario da sempre e di chi reagiva con difficoltà alle necessità e ai problemi sollevati dalla grande ondata di rifugiati siriani in fuga da una guerra che non dà scampo ai civili. E che si andavano ad aggiungere al flusso ininterrotto di gente che percorre il Mediterraneo in cerca di lavoro e vita decente. Le aperture di Merkel – che facevano da specchio a quelle di tanti cittadini e cittadine – hanno dovuto frenare. Si rialzano muri e frontiere. Chiudere, proteggersi dagli “invasori”, non è più un tabù. Se c’era una orchestrazione, da qualunque parte fosse, terrorista islamica o razzista (i due fronti hanno molto in comune), possiamo dire che ha funzionato, dal momento che ha alzato il livello di violenza dello scontro.

 

Altra reazione chiara è stata una diffusa tendenza a chiedere conto alle femministe: erano loro che dovevano impegnarsi a prendere posizione, farsi sentire! I media ora erano pronti a dar loro voce: i rifugiati islamici violentano le donne, come commentano le femministe? Pareva che se non avessero preso posizione schierandosi pro o contro rifugiati e islamici, un po’ di colpa ricadesse anche su di loro.

I commenti delle donne ci sono stati, altrettanto chiari. In Italia i siti della Libreria delle donne di Milano, Libera Università delle donne, DeA, InGenere, Internazionale e vari altri siti giornalistici ne danno conto. Numerosi, partecipati e informati, fermi o polemici, con toni e sottolineature diverse, tutti i commenti hanno ribadito che non vogliono sia messa in discussione la libertà conquistata dalle donne, in Europa, in India, in Egitto, in Sudamerica, ovunque accade, nel mondo cristiano e in quello islamico.

Consapevoli della strumentalizzazione che sta sotto alle pressanti richieste della politica e dei media. Nel comunicato di Antje Schrupp, che ha raccolto in Germania 11.000 firme nel giro di una settimana, si dice chiaramente: «è un grave danno per tutta la società quando le argomentazioni femministe vengono strumentalizzate dai populisti per fomentare l’odio nei confronti di alcuni gruppi etnici, come sta accadendo nel dibattito sugli eventi della notte di San Silvestro.» E infatti, ben presto il tema della violenza sessuale è tornato sullo sfondo, in Germania e altrove, ed è rimasto in primo piano solo il tema delle politiche di immigrazione, di accoglienza o di respingimento.

 

Invece, le diversità tra prese di posizioni di donne che pure ci sono – e ci mancherebbe – nella grande maggioranza non intaccano questo tratto comune: il desiderio di restare aderenti alle libertà conquistate, e vicine alle donne che nei diversi contesti prendono parola e si manifestano nello spazio pubblico. In misura diversa si sottolinea sempre l’importanza del rapporto tra donne.

Ed è naturale che sia così. Perché mai delle donne dovrebbero dire se è preferibile essere infastidite, molestate, palpeggiate, picchiate, violentate, ed eventualmente uccise da: impiegati nordici ubriachi e depressi, lavoratori indiani a fine turno in autobus, plotoni di combattenti islamici nigeriani, studenti nordamericani impasticcati nel campus durante una festa, manifestanti – o militari? o poliziotti? – egiziani in piazza Tahrir, ragazzini italiani in branco, soldati in guerra che si divertono con bombe e candelotti sulle donne, amorevoli mariti/fidanzati/conviventi civilissimi e cristiani, ladri magrebini a Colonia, ingegneri informatici della Silicon Valley (vedi oltre), ubriachi in festa in una qualsiasi delle grandi ricorrenze in uno qualsiasi dei Paesi europei? E l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Non è questo il punto.

È importante valutare con attenzione il nesso tra violenza maschile e presa di parole delle donne. Per spiegarmi userò un’esperienza personale. Personale ma non isolata.

Ricordo nitidamente che negli anni ‘70 non mi sentivo fisicamente insicura. Camminavo a notte fonda nelle vie di Milano, dopo quelle lunghissime riunioni di donne – erano gli anni caldi del femminismo -, e tornavo a casa piena di pensieri e di emozioni. Radiante. Non ci pensavo quasi mai, ma avevo la sensazione che fossimo padrone delle strade, che niente ci avrebbe colpito. Incoscienza giovanile? Non credo. Prendendo la parola con le altre donne, mi stavo riappropriando di uno spazio interno e credo fosse questo che mi/ci faceva sentire inviolabili, infatti ricordo di altre che dicevano la stessa cosa. La novità era questa: solo noi potevamo dare accesso ai nostri corpi, come alle nostre menti e cuori: e infatti quanto si parlava della nostra sessualità e di rifiuto o meno della penetrazione!

Intendiamoci: so bene, come ogni donna, che cosa vuol dire sentire il proprio corpo troppo visibile, come se il solo fatto di portarlo in giro, lo rendesse aggredibile, violabile. Ma prendere la parola mi andava trasformando anche nel rapporto con lo spazio pubblico. Qui la faccio facile, ma non è facile e non è mai finita, anche se l’invecchiamento, insieme al resto, cambia le cose.

Questo caratterizza l’agire politico delle donne: la rottura della segregazione nel privato e sotto il controllo maschile. I corpi femminili non sono fragili, al contrario sono abbastanza resistenti e potenti tanto che sono in grado di far crescere in sé un’altra vita e invecchiano meglio degli uomini. Sono colpiti – sempre – perché si sottraggono al controllo maschile, o minacciano di farlo, o evocano nelle fantasie maschili questa possibilità. In ultima analisi, perché ne incrinano il potere.

Imparare da Colonia 1: un problema maschile

 

Stupro e violenza sono disturbi maschili come l’impotenza o la prostatite, anche se è evidente che non tutti gli uomini ne soffrono. Ma se dobbiamo analizzare i sintomi e studiare cure e prevenzione, è alla platea maschile che dobbiamo rivolgerci. Questa è la prima cosa che dobbiamo imparare da Colonia. Alcune donne lo dicono da tempo ma accade ben poco. Per esempio, non è strabiliante che ancor oggi tutte le grandi ricerche focalizzino il tema a partire da chi subisce? Come se le vittime fossero l’unico oggetto del discorso. Scarsissime sono le indagini che descrivano contesti e caratteristiche dei molestatori e violenti. Come se per combattere più efficacemente gli incidenti stradali si studiassero le caratteristiche e i movimenti delle vittime e non i comportamenti alla guida. Non basta dire che sono presenti in tutte le classi sociali. Descrivere, andare a fondo aiuterebbe a focalizzare il problema per quello che è: qualcosa di così evidente e macroscopico che scompare, che non può essere visto se non c’è la precisa volontà di nominarlo. Qualcosa che si fa finta di non vedere: un elefante nella stanza, come si dice in inglese.

Non è un caso che si intitoli Elephant in the Valley una recentissima ricerca condotta da sette donne negli ambienti di lavoro della Silicon Valley (pubblicata dal Guardian nel gennaio di quest’anno, citata anche dalla blogger ilporcoallavoro autrice del libro Toglimi le mani di dosso, Chiarelettere 2015): il 60% delle donne intervistate (220, perlopiù over 40, con buone posizioni) ha subìto molestie sessuali. Dall’indagine emerge che le donne erano grate che si portasse alla luce qualcosa di cui erano ben consapevoli, invece i colleghi maschi cadevano dalle nuvole, scioccati. È la reazione più diffusa tra gli uomini. Per questo può essere liberatorio pensare che il problema riguardi gli altri uomini, i mostri, gli ignoranti, gli immigrati, gli islamici.

Invece, anche nella civilissima Europa, i dati parlano chiaro. La vasta ricerca europea del 2014, durata tre anni, ci dice che il 33% della popolazione femminile (sessantadue milioni) ha subìto qualche forma di violenza. E il record degli abusi va proprio ai Paesi dove le donne lavorano di più e hanno più parità: Danimarca 52%, Finlandia 47%, Svezia 46% e Olanda 45%. È evidente che non stiamo parlando di mondi lontani e di retaggi del passato. Si è aperto un conflitto. Che si inasprisce là dove le donne occupano posti nuovi e magari si rifiutano di farsi carico come prima del lavoro domestico e di cura.

 

Non chiamerei tutto questo manifestazione del patriarcato. Le società patriarcali detengono il controllo indiscusso delle donne. In tempi di patriarcato vivo e vegeto le manifestazioni violente contro le donne non sono neppure nominate in quanto tali. Oggi invece il conflitto – che è sotto gli occhi di tutti/e – è la prova di una trasformazione radicale. Per questo, come abbiamo scritto in Immagina che il lavoro, «possiamo dire che (il patriarcato) è morto non perché non si manifesti più e siano scomparse discriminazioni e ingiustizie, anche raccapriccianti, ma perché è morto nel cuore delle donne: è questo che ne ha decretato la fine. I patriarchi, coloro che ancora si considerano depositari della libertà femminile e fonte, in quanto uomini, di valori universali – cioè buoni per tutti e tutte – possono, se lo vogliono, rendersene conto.»

La libertà delle donne ha dischiuso per tutte e tutti un mondo postpatriarcale.

 

Alcuni uomini ne sono consapevoli e si esprimono in tal senso. Oltre alle prese di posizione individuali, mi preme ricordare il lavoro politico e di sensibilizzazione che da anni conduce Maschile Plurale. Il loro appello “La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini” è stato pubblicato nel 2006. Nel testo si diceva: «Una forte presenza pubblica maschile contro la violenza degli uomini potrebbe assumere valore simbolico rilevante. Anche convocando nelle città manifestazioni, incontri, assemblee, per provocare un confronto reale. Siamo poi convinti che un filo unico leghi fenomeni anche molto distanti tra loro ma riconducibili alla sempre più insopportabile resistenza con cui la parte maschile della società reagisce alla volontà che le donne hanno di decidere della propria vita, di significare e di agire la loro nuova libertà» Nel loro sito ci sono i molti appelli, dibattiti e prese di posizione espresse in questi anni e ovviamente anche sui fatti di Colonia, sul rapporto con l’immigrazione e sul complesso tema del multiculturalismo, su cui ci sarebbe da aprire un grande dibattito.

Ma sappiamo bene quanta resistenza ci sia da parte di tanti uomini democratici che temono di essere confusi con molestatori e violenti.

Nel 2015 c’è stato un altro segnale simbolicamente forte. In febbraio giovani turchi e in novembre argentini hanno sfilato per le strade contro i femminicidi indossando le gonne. Non en travesti. E infatti colpivano quei normali ragazzi in felpa e scarpe da ginnastica, con delle gonnelle qualsiasi che lasciavano vedere le gambe pelose. L’hanno fatto perché «può sembrare umiliante solo ai maschilisti, o al maschilista che è in ognuno di noi, non al nostro essere uomini. Abbiamo bisogno di coraggio per farlo ma abbiamo più bisogno di fermare il femminicidio. E dobbiamo farlo tutti insieme per non continuare a far finta di niente, non continuare a far finta che non ci riguardi: è una cosa da uomini.»

 

Colonia e le reazioni a Colonia ci dicono che non basta. Ad esempio, raramente viene alla luce l’incongruità di prendere posizione contro la violenza sulle donne continuando però a coltivare un mondo al maschile. Lo notava Alberto Leiss nella sua rubrica su il manifesto del 19 gennaio: «Ho visto giorni fa il video di Repubblica on line in cui l’ex direttore Ezio Mauro apriva la riunione di redazione con un accorato discorso sul conflitto di culture che avviene “sul corpo delle donne”. Nella grande stanza con tutto lo staff dei vicedirettori, capiredattori e capiservizio di corpo femminile mi è sembrato che ce ne fosse soltanto uno.»

Sono molto d’accordo su questo punto: raramente gli uomini sentono – intellettualmente, emotivamente, politicamente – il gravissimo rischio che rappresenta per tutti loro e per le giovani generazioni di maschi, la loro incontrollabile tendenza a ricostruire e ricompattare, a ogni livello, la coorte maschile. Mi chiedo invece perché non manifestino, proprio per questo motivo e non perché politicamente corretto in una logica paritaria da maschio democratico, l’urgenza di presenze femminili con cui interagire.

 

Per arrivare dove? Come ha detto un gruppo di giuriste di Milano oltre venti anni fa, per arrivare a una forte affermazione simbolica del concetto, con l’iscrizione nella Costituzione della inviolabilità del corpo femminile. Per iniziare così un processo diffuso di consapevolezza maschile che arrivi a considerare un vero e proprio tabù la violenza sul corpo delle donne. Processo molto complesso perché la sessualità maschile e quella femminile sono radicalmente diverse, convivono dentro ognuna/o di noi e non è possibile l’incontro e lo scambio senza la piena consapevolezza di questa differenza. Se consideriamo la diffusione della violenza maschile sulle donne e il rigetto del femminile che la accompagna, dobbiamo concludere che c’è bisogno – specialmente da parte maschile – di una immane determinazione a voler conoscere la verità. Una determinazione non dissimile da quella che spinse il re Edipo a voler alzare il velo, mettendo a repentaglio il proprio potere e nonostante fosse non-responsabile.

 

Imparare da Colonia 2: un conflitto di civiltà

 

Io credo che il problema immane che si è visto all’opera a Colonia non possa però trovare soluzione se non si vede il contesto più ampio. Che va ben oltre il pur gravissimo tema della violenza. Perché è vero che è in atto uno scontro di civiltà. Ma non quello sempre evocato.

Si è aperto un conflitto di civiltà da quando le donne hanno preso il controllo sul proprio corpo e sono uscite sulla scena pubblica con una parola autonoma. Anche l’entrata nel mercato del lavoro, di per sé non nuova, cambia di segno a partire dagli anni ’70: proprio perché le donne si sono riappropriate del corpo e della sessualità, fatto inedito nella storia dell’umanità.

È questo che le rende soggetti imprevisti. E complessi. La presa di parola pubblica e autonoma delle donne infatti mette in discussione la secolare divisione sessuale del lavoro e più in generale la dicotomia anima/corpo, polis/oikos, padrone/schiavo, libertà/necessità, soggetto/oggetto che è alla base di tutto il pensiero, l’economia, la politica da Socrate/Aristotele in poi. Materia deriva da madre: le donne/corpo controllate da un padre padrone, donne naturalizzate e, come la natura, territorio vivo e fertile da possedere e sfruttare. La libertà delle donne, che si manifesta in modi e misure diversi alle più diverse latitudini e longitudini della terra, cambia alla radice i paradigmi della convivenza umana. Infatti tutte le forme sociali, politiche, relazionali hanno condiviso per secoli un assunto di fondo: il controllo degli uomini sui corpi femminili, intesi come sessualità, riproduzione, forza lavoro.

Dunque le donne invadono lo spazio pubblico come soggetti inediti nella storia. E oggi non si può affrontare alcuna politica se non la si pensa a misura di quei soggetti complessi che sono le donne.

Le donne, per fortuna, non possono e non vogliono separarsi dai propri corpi, che facciano o non facciano figli. Conoscono la vulnerabilità degli umani lungo tutto l’arco dell’esistenza. L’intreccio vita/lavoro è diventato qualcosa di radicale.

Una piccola digressione. Non può prescindere da questo scenario neppure quella manifestazione estrema di patriarcato su sfondo neoliberista che è l’intreccio sesso/potere magistralmente analizzato da Ida Dominijanni (Il trucco, Ediesse 2014): anche qui la voce delle donne coinvolte introduce un elemento di assoluta novità. Così come è imprescindibile analizzare i nessi tra soggettività femminili e individualismo neoliberalista (Femminismo e Neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà, a cura di Tristana Dini e Stefania Tarantino, Natan edizioni 2014).

Tutto questo ha ricadute potenti sul modo in cui pensiamo il lavoro, l’economia, la politica, la riproduzione, la democrazia. Ma anche la felicità, le relazioni, il senso, il tempo.

Tutto ciò lo vediamo già all’opera in mille modi e in tutti i continenti: nel pensiero delle economiste e delle filosofe, nel lavoro delle giudici e delle avvocate, in quello delle manager e delle sindacaliste, delle politiche e delle teologhe. Che in maniera sempre più precisa si prendono spazio per ripensare i fondamenti del mondo in cui si trovano ad agire.

Sta accadendo sotto i nostri occhi e non ha niente a che fare con qualche aggiustamento del già noto. Con un po’ di uguaglianza in più. Le donne vogliono essere uguali a se stesse. Libere sulla scena pubblica come nelle relazioni private. Niente è più lontano dai desideri di una donna di essere uguale a un uomo.

Imparare da Colonia oggi vuol dire accettare questa sfida: esporsi alla diversità. Per le donne vuol dire accettare una responsabilità più grande, uscire dagli spazi protetti in cui hanno preso la parola. Per gli uomini accettare le implicazioni di ripensarsi in un mondo postpatriarcale, non più a senso/sesso unico.


(Inchiesta, n.191)

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