13 Febbraio 2019
#VD3

Insieme

 

di Antonella Nappi

 

Si illumina chi affronta il mare per espatriare, non si illumina neppure un poco il dolore degli abbandonati, vecchi malati, poveri nel nostro paese. Anch’essi muoiono, con fatica, a furia di patire e alcuni di suicidio. Ho visto tramite il filmato di Franca Caffa chi vive nello sporco del suo locale, nel disastro del degrado che non sa più contenere quando le forze cedono e la solitudine intontisce. Ho visto malati e famiglie disperate e miserabili a causa della malattia mentale di un componente. Io stessa per molti anni ho avuto la madre malata ed era sola e povera, mi sono disperata nel non saper risolvere né confortare i suoi problemi e nel sentirmi terrorizzata da tanta solitudine nella responsabilità verso di lei.

Ci vogliono molte cure e moltissimi soldi per sollevarsi da gravi malattie che con l’età avanzata incombono e non si può essere soli di fronte alla rovina delle proprie energie e della propria vita. È pochissimo quello che le istituzioni riescono a fare, sono necessarie molte più risorse, prese o non date ai ricchi e ancor più ai ricchissimi. Ci vogliono misure che rendano sopportabile l’esistenza con l’assistenza domiciliare e quella in case comuni che devono essere multigenerazionali perché gli anziani non possono vedere solo altri vecchi morenti.

Sono mostruose le condizioni dei ricoveri di vecchi e malati che non abbiano moltissimi soldi propri e dei parenti, li ho visti tutti, sono un inferno che non sembra possa esistere appena te lo togli dagli occhi; dovrebbero essere filmate tutte queste situazioni, mostrate continuamente come si fa con i salvataggi in mare perché l’opinione pubblica comprenda che cosa vivono di disperante molte persone assieme ai loro parenti e queste stesse si sentano esistere per la società.

Nella città e sui media sembriamo vivere in un nirvana di giovani e di adulti in benessere, divertiti dai negozi illuminati e dai nuovi consumi, ci tranquillizzano, mentre l’immagine di chi chiede aiuto è un peso; non vogliamo sensi di colpa, non si vogliono perdere privilegi che si sentono esilissimi, ma soprattutto fa paura ciò che non sembra trovi soluzione.

Molti di noi hanno visto qualche cosa che tengono nascosto, sanno di vicende penose che ad altri sono capitate, temono l’angoscia che hanno già provata. Per questo dietro il paravento di chi dice: “prima gli Italiani” tacciono ma si accodano o non hanno parole, o non osano parlare.

L’inesistenza di una cultura solidale, di una pratica più solidale e comune di quella che nella tua famiglia ti può prendere al collo e obbligare; la rabbia per l’isolamento in cui si è affrontato qualche cosa di difficile, la certezza di poter affogare in futuro se fossi costretto a chiedere aiuto sono le ragioni di una paura e un fastidio che ti fanno lasciare a Salvini il compito di chiudere quel discorso di condivisione che tu non hai praticato né visto praticare. Una pratica solidale non la costruisci solo con le belle parole, quante persone hanno fatto le pratiche per accettare nel loro monolocale affittato agli studenti o ai turisti un migrante? E perché dovrebbero perdere un introito se basta demandare allo Stato tutta la problematica senza dare indicazioni? O senza riceverne un piccolo tornaconto?

Se tutta la nostra realtà sociale potesse essere mostrata e condivisa, se fossimo abituati a renderla meno dolorosa, a soccorrerla e vederla soccorsa, se la solidarietà fosse stata maggiore per noi e per gli altri, se ci fosse più giustizia sociale e meno dolore non farebbe impressione oggi vedere quanti scappano da paesi più poveri per aiutare chi resta o per mettersi in salvo o cercare di migliorare la propria condizione. Sembrerebbe più normale. Se fossimo stati abituati a sollevare le difficoltà agli altri e a vedere sollevate le nostre non saremmo così spaventati e incattiviti.

Oggi a Milano chi abbisogna di terapie fisiche, necessarie a moltissimi che abbiano compiuto settanta/ottanta anni, deve a fatica riuscire a entrare in una lista di attesa per l’anno prossimo, aspettare un anno, o spendere almeno 1000 euro. Se ne hanno 700 in tutto aspettano e sperano la morte.

L’ingiustizia del tutto italiana sugli italiani ci ha convinti che non ci siano alternative a una piramide di classe con una base larghissima di emarginati, è colpa della scelta politica della sinistra di concordare la piramide di classe con le destre e farla apparire come la naturalità dell’esistenza, la giusta organizzazione sociale e questo ha creato un riflusso di invidia e indifferenza che si abbatte, almeno su chi non è stato procreato qui ma altrove.

Davanti a questi tanti giovani, grandi e coraggiosi che vogliono approdare da noi io penso: “ce la faranno!”; oppure resto senza parole perché non posso pensare di dover dare ogni giorno un aiuto solo io, solo a loro. In realtà ogni giorno da anni lo faccio, come lo faccio con molte associazioni politiche e culturali, ma diventa troppo oblativo un infinito dare senza che la politica ti porti un tornaconto.

Una integrazione degli immigrati è indispensabile, non possono essere l’esempio del massimo sfruttamento che il padronato vuole. Dal film su Riace, dagli articoli di Muraro e da quello di Mammani, colgo il desiderio che è mio: i più disperati degli italiani devono stare molto meglio, devono essere assistiti economicamente e relazionalmente, magari proprio dagli immigrati, usando denaro pubblico per istruire questi ultimi nella lingua e nell’assistenza, congiungendo due bisogni diversi, realizzando una felicità comune che deve essere necessariamente mostrata. Anche i giovani possono lavorare per ciò che serve al paese: l’assistenza a chi non è del tutto autosufficiente, a chi è solo, è questo che oggi serve all’Italia per alleviare le preoccupazioni di chi oggi assiste da solo con aiuti economici irrisori o inesistenti. Immigrazione e disoccupazione possono essere investite di risorse che rincuorano tutti quanti, divenire iniziative di gioia e di relazione comune che attragga anche gli indifferenti quando la possano vedere. Usiamo i mezzi di comunicazione per condividere cultura e solidarietà positiva, non per spaventare.

Chi si ostina a giudicare con parole inutili la popolazione che non intende solidarietà agli sconosciuti accresce il fastidio di essere appunto sconosciuti agli altri e ingrossa le fila di chi incarna la peggiore reazione.

È necessario trovare una mediazione che restituisca volontà positive, è necessario comprendere chi non vede soluzione e prospettargliela. Come Riace ha fatto, utilizzando i soldi degli immigrati per farli vivere in un paese che guadagnava dalla loro presenza la ristrutturazione delle case, l’impiego di insegnanti per la scuola, quello di personale per la creazione di un poliambulatorio che diveniva una opportunità anche per gli abitanti. A Milano c’è bisogno di molta assistenza relazionale, di accompagnamento, di impieghi per il personale paramedico, di impieghi per la ristrutturazione delle case popolari. Mettiamoci un poco di professionalità nella lotta politica.

 

(Via Dogana 3, 13 febbraio 2019)

 

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