16 Ottobre 2019

La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti – Luciana Tavernini

Introduzione Redazione allargata di Via Dogana 3, La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti domenica 6 ottobre 2019

di Luciana Tavernini

Fino a qualche anno fa preferivo non vedere la prostituzione dicendo «Se una si prostituisce è affar suo». Tornando la sera a casa con l’auto e passando vicino alle ragazze seminude lungo la circonvallazione, le vedevo con lo sguardo che vede e non vede e mi fermavo a pensare solo al disagio per il freddo. Ho scoperto che questa è una posizione di molte infatti, quando le ho invitate agli incontri su questo problema, mi hanno risposto «È un argomento che non mi interessa», riducendolo appunto ad argomento evitabile.

Che cosa mi ha fatto cambiare e come cambiare la postura verso la prostituzione ha messo in atto riflessioni politiche che coinvolgono tutte e tutti?

Inviolabilità del corpo femminile

Quando sono riuscita a riconoscere come molestia sessuale, da parte di un medico stimato da mia madre, un episodio della mia adolescenza che per decenni mi sono sforzata di minimizzare, ho potuto vedere come questo avesse inficiato la mia capacità di radicarmi nel mio sentire e mi avesse deportata nel regno dell’altro. Per non sentirmi cosa, quanto c’è di più vicino alla morte, il cadavere è letteralmente una cosa che prima era una persona,[i] mettevo le mie energie a cercare di giustificare il comportamento maschile, a trovarci qualcosa che lo potesse rendere in qualche modo buono per me.

Ma proprio perché veniamo violate attraverso il corpo che noi siamo e per il fatto che siamo caratterizzate dall’essere dello stesso sesso della madre, ogni violazione ci fa perdere il senso del piacere e del privilegio che l’essere come la madre comporta e la fiducia che le parole, apprese principalmente con lei, dicano il mondo.

Come dice la psicologa Candela Valle Blanco[ii] nel seminario di Duoda di quest’anno il tabù dell’incesto è innanzi tutto tabù per le donne a parlarne. Ci sono proposti tanti nomi in modo che la violazione del corpo femminile appaia differenziata e noi ne siamo confuse. Anche i nazisti usavano 50 nomi diversi per definire i campi di concentramento mentre il grido delle persone deportate era «Ci portano via», indicandone la caratteristica fondamentale nell’averle private con la violenza della libertà.[iii]

Che cosa ci portano via tutte le forme di violazione delle donne che ci vengono fatte o a cui assistiamo?

Viene cancellato il riconoscimento simbolico che solo grazie alla dipendenza dalla madre ciascun essere umano esiste e quindi il senso di gratitudine verso di lei. Perdiamo la fiducia piena nel nostro sentire: quindi da un lato perdiamo la guida fondamentale per parlare pubblicamente e dall’altro quella al piacere erotico, che è prima di tutto saper ascoltare se stesse nella relazione.

Non è un caso che la maggior parte delle donne prostituite abbiano subito abusi sessuali o abbiano assistito a violenze maschili contro le donne, che ora sappiamo sono fisiche, economiche e psicologiche.

Occorre, come abbiamo fatto con la violenza maschile, far emergere le narrazioni femminili, rompere il tabù del silenzio, mostrare le conseguenze della violazione del corpo femminile sotto tutte le forme, come già accade in alcuni testi[iv]  ma anche essere in grado di rileggere testimonianze di donne prostituite, ad esempio nello storico libro Ritratto a tinte forti[v]di Carla Corso, fondatrice del Comitato di difesa delle prostitute, mi è apparso come punto dirimente il comportamento del padre che umiliava continuamente la madre.[vi]

Far questo ci permette di guardare liberamente la prostituzione, ci dà parola pubblica più rispondente alla nostra esperienza, toglie una facilitazione all’avvio alla prostituzione e riusciamo a cogliere i collegamenti con altre forme di violenza maschile organizzata, come la guerra, una riflessione ampia su cui ho scritto e a cui, per mancanza di tempo, rimando.[vii]

Liberazione o libertà sessuale?

Guardare liberamente la prostituzione ci interroga su quale idea di piacere sessuale abbiamo interiorizzato e ci riporta alla differenza che da femministe abbiamo fatto tra liberazione sessuale e libertà sessuale. Essere disinibite non significa essere disponibili a ciò che la rappresentazione maschile della sessualità e i comportamenti derivati propongono ma scoprire il piacere nella reciprocità, non una routine predeterminata né un obbligo a dire sì alle richieste altrui sempre e comunque. La libertà sessuale è continua invenzione e scoperta di sé e dell’altro da sé nell’unità del corpo che noi siamo. Io ho sperimentato, attraverso l’imprevedibile intimità dell’incontro con l’altro da me, un’apertura all’energia cosmica. Come donne che abbiamo preso parola pubblica abbiamo imparato a definire stupro qualsiasi atto a sfondo sessuale che non tenga conto del piacere di lei: abbiamo riconosciuto che il matrimonio non autorizza più tale abuso, mascherato da dovere coniugale, e con la definizione di Rachel Moran della prostituzione come stupro a pagamento che nessun passaggio di denaro lo giustifica.

Accettare che la prostituzione venga considerata sessualità libera e che sia una possibilità per l’uomo con cui si sceglie di stare diventa un retropensiero che costituisce un blocco al proporre o rifiutare, insomma alla creatività del rapporto, come se dal denaro e non dall’incontro potesse dipendere ciò che si può chiedere all’altra o all’altro. Questo è un altro motivo per cui molte preferiscono non vederla.

Considerare il denaro come equivalente universale che permette la libertà sessuale e la realizzazione di tutti i desideri significa ridurla a libertà di vendere e comprare e ci spinge, come ha scritto Niccolai, «a dimenticare il senso stesso della libertà, a dimenticare cioè l’idea che ci sono cose che hanno valore in sé, e che sono smisurate e perciò producono cambiamenti; siamo ammaestrati a pensare che tutto, la libertà in primo luogo, è solo un bene di scambio che, come tale, trova sempre una misura già data, non esiste per creare imprevisto, ma per confermare l’esistente e le sue leggi – la legge del denaro quale misura del valore e del senso dell’esistenza umana, che anziché come unica e incommensurabile va pensata misurabile, equivalente, fungibile».[viii]

Senso dell’esistenza e del lavoro

È proprio l’idea stessa di esistenza umana che viene ridefinita dalla prostituzione. Invece di esseri umani interi non separabili diventiamo individui proprietari di un corpo liberi di offrire le sue prestazioni all’offerente disponibile a pagarle. Ciò che conta è la possibilità di contrattarle al miglior prezzo possibile. La differenza sessuale diventa insignificante perché in questa finzione le prestazioni variano in base alle richieste del mercato: l’io proprietario non appare intaccato. L’idea che solo il contratto e la forza contrattuale regoli le relazioni umane ha invaso il mondo del lavoro.[ix] Si lotta allora per dare un prezzo a tutte le prestazioni attraverso mansionari il più articolati possibile, e per rendere accettabile la prostituzione basta che si rispetti il tabellario e i relativi prezzi, come avveniva nelle case chiuse. Sembra irrilevante interrogarsi su cosa sia un lavoro degno di un essere umano con la sua inestricabile, singolare, sessuata e unitaria esistenza.

Riflettendo sulle mie esperienze lavorative retribuite (da quella di donna delle pulizie a quella di infermiera generica, da cameriera in hotel a intervistatrice e infine insegnante in vari ordini di scuola), e quelle non retribuite come casalinga, ho scoperto che il mio modo di lavorare era condiviso da altre donne, era una visione politica e non un aspetto del mio modo di essere o una caratteristica di quel particolare lavoro, anche se mi sono scontrata più volte con la visione maschile di lavoro.

Riconoscendo la verità della definizione di lavoro come tutto quello necessario per vivere,[x] non separo i due tipi di lavoro per cui non esaurisco in nessuno dei due tutte le mie e altrui energie e do sempre importanza all’ambiente che deve essere salubre e piacevole.

Ho acquisite, sviluppate e travasate conoscenze e abilità in tutti gli ambiti e continuo a farlo e il valore del lavoro è anche in questa crescita.

Il tempo è un elemento prezioso, è esauribile e costituisce un continuum che ho imparato a gestire nell’arco della giornata, dell’anno, della vita in base all’urgenza che le relazioni mi suggeriscono.

Attraverso il lavoro costruisco e intreccio relazioni da cui cerco e offro giudizio per rendere la vita mia e altrui migliore.

E sempre quello che faccio è legato al come costruisco un senso libero del mio essere donna.

Infine voglio precisare quello che intendo per necessario. Non significa che mi può procurare denaro per vivere. Lavorando come donna delle pulizie e come casalinga, ad esempio, pulire i gabinetti è un lavoro estremamente necessario ed è un contributo per la salute e bellezza della casa e di chi vi abita. Ho viaggiato molto e ho sempre valutato la civiltà di un paese dall’accessibilità, pulizia e gratuità dei gabinetti, anche quando sono a deposito come ho constatato nell’isola di Grinda in Svezia o come accadeva a casa dei miei nonni fino a una trentina di anni fa. Chimamanda Ngozi Adichie nel romanzo Americanah inserisce un episodio che illustra bene quando subentra l’abuso e quando diventa vitale rifiutarsi. Il protagonista maschile, Obinze, a Londra lavora pulendo i gabinetti in un’impresa immobiliare. Ma una sera, entrando in uno scomparto, rimase scioccato perché «trovò uno stronzo sulla tavoletta del water, solido, affusolato, centrato come se lo avessero collocato con cura, misurando il punto esatto. Sembrava un cucciolo acciambellato su uno zerbino. Era una performance». Il protagonista si fa domande sulla società inglese e sui problemi possibili dell’autore, poi prende una decisione: «Obinze fissò quel mucchietto di merda per un bel po’, sentendosi sempre più piccolo, finché non gli parve un affronto personale, un pugno alla mascella. E tutto per tre sterline all’ora. Si tolse i guanti, li posò accanto al mucchietto di merda e lasciò l’edificio».[xi]  Per me è un esempio illuminante della differenza tra lavoro necessario e abuso, apparentemente giustificato dal fatto che qualcuno/a riceve del denaro per rendere invisibili i danni che vengono così commessi.

Credo che chiamare lavoro la prostituzione sia stato da parte di alcune in buona fede un modo per togliere discredito alle donne prostituite, ma, come abbiamo imparato dalla relazione con le donne maltrattate, chiamare amore la violenza è proprio un modo che ci impedisce di vederla e di liberarcene. Sono rimasta colpita vedendo come la scritta «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi) era parte integrante del cancello d’entrata e chiusura dei campi di concentramento di Mauthausen e Auschwitz. Rendiamo più libere le donne chiamando la prostituzione lavoro? O è di nuovo un modo per non vederne le caratteristiche? Come nella relazione con una donna maltrattata pensare che in famiglia tutto potesse essere ricondotto all’amore coniugale da salvaguardare ha ostacolato un ascolto attento a ciò che lei comunicava della sua esperienza, così nella relazione con una donna prostituita quanto l’idea che la prostituzione sia un lavoro impedisce un ascolto attento di ciò che le accade e dei suoi desideri? Non si discuterà con lei di come organizzarlo meglio, magari sconsigliando l’uso di anestetici vaginali perché nasconderebbero più a lungo possibili lesioni, come succede in Nuova Zelanda?[xii]

Inoltre, se di lavoro si tratta allora è un’opportunità che una disoccupata, come è già stato proposto in Germania, non dovrebbe poter rifiutare.[xiii] E come opportunità deve essere aperta a tutti. Che la stragrande maggioranza riguardi donne prostituite e per la quasi totalità uomini prostitutori, sarà solo un fatto contingente.

Nuove relazioni tra donne e uomini

Invece io continuo a voler vedere di quale tipo relazioni tra uomini e donne si tratta e che tipo di società si costruisce, accettando la prostituzione e so che è in atto un cambiamento.

Vedo molte donne che, attraverso la relazione con altre, hanno reso il loro sguardo sul mondo più rispondente a sé e lo continuano a mostrare, in un rilancio di altre che dà forza pubblica alla verità che emerge. Vedo che sempre più non aderiscono a comportamenti basati su stereotipi di genere ma neppure sul loro contrario.

Vedo che, proprio per questo, in parecchi uomini che conosco, e in modo più diffuso tra quelli più giovani, si sta costruendo un’idea di che cosa significa essere uomo che tiene in gran conto il giudizio delle donne con cui sono in relazione e il loro agire non è più dettato anche qui da stereotipi di genere ma dal desiderio di costruire una vita che dia una maggiore felicità, nella concretezza del nesso necessità-libertà. Diventare maschio non è essere nella categoria di quelli superiori alle donne, da cui farsi servire o da considerare oggetti da possedere ed esibire, né in quella di quelli che basano il loro valore sulla prevaricazione di un altro individuo, basti pensare al bullismo.

Il senso dell’onore maschile, dell’essere degno di stima, si basa sempre meno sul rapporto esclusivo con gli altri maschi e sempre più sulla relazione costruita con le donne. Con l’altra da sé, infatti, si aprono orizzonti di conoscenza e di sperimentazione altrimenti impossibili. Guardiamo, ad esempio, al rapporto con le creature piccole che i nuovi padri sperimentano, che fa riscoprire il valore dei piaceri elementari, la delicatezza nel contatto, il limite al proprio volere nell’altro essere preciso che ci è di fronte. La prostituzione non prevede padri, pone il limite a ciò che puoi desiderare nel denaro non nell’altro che ti è di fronte, costruisce la mascolinità nel considerare ininfluente il desiderio di lei.

Rappresentare invece il nuovo tipo di relazioni tra i sessi è un impegno politico in cui le giovani sono capaci di mettere la loro creatività. Penso al progetto di cinque spettacoli che, a partire da Le mille e una notte, Lidelab,[xiv] una compagnia teatrale di cinque giovani, in uno scambio intergenerazionale tra donne, ha rappresentato con i modi spiazzanti e toccanti dell’arte e del teatro contemporaneo un punto di vista femminile trasformativo, per ora in due spettacoli, uno sulla violenza maschile e il suo superamento, l’altro sul piacere sessuale. Non un discorso per donne (molti uomini erano in sala) ma di donne che parlano a tutte e tutti.

(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 6 ottobre 2019)


[i] Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterios Editore, Triste 2012, pp.39-40

[ii] Candela Valle Blanco, Decir lo indecibile. Escuchar lo verdadero, intervento al XXX Seminario Público International di Duoda El cuerpo se confiesa: el incesto, 11 maggio 2019. Il video dell’incontro si trova in

[iii] Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, Affinità elettive, Ancona 2017, p. 251.

[iv] Vedi in particolare Marie-Thérèse Giraud, «Il peso del silenzio» in Comunità di storia vivente di Milano, La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, pp. 25-40; Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Round Robin, Roma 2017; Annie Leclerc, Della paedophilia e altri sentimenti, Malcor D’, Catania 2015; Luciana Tavernini, «Gli oscuri grumi del disordine simbolico» in DWF 2012/3, pp. 35-45. Segnalo due opere letterarie che senza moralismo ma con incisiva lucidità rappresentano i danni della concezione maschile della sessualità: il racconto del 1930 di Dorothy Parker «The big blonde», tradotto con «La bella bionda» in Il mio mondo è qui, Bompiani, Milano 1984, pp.187-215 e un episodio del romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah, Einaudi, Torino 2015, pp. 149-150 e 159-165.

[v] Carla Corso e Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, Giunti, Firenze 1991.

[vi] Ho esaminato alcune testimonianze di donne prostituite in relazione con femministe, a partire dall’inizio del Novecento ad oggi nel saggio «Quanto ci tocca la prostituzionein Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, Vandae-publishing, Milano 2019, pp. 180-205. 

[vii] Luciana Tavernini, «Un’eredità dirompente» in Comunità di storia vivente di Milano, La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, op. cit., pp.107-123.

[viii] Silvia Niccolai, «La legge Merlin e i suoi interpreti» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, op. cit., p. 113.

[ix] Una storia del contrattualismo e una lucida analisi delle sue conseguenze rispetto al lavoro, alla prostituzione e alla maternità surrogata con grande preveggenza critica si trova nel libro, uscito nel 1988, di Carole Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, ristampato nel 2015 da Moretti&Vitali.

[x] La definizione è del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, in particolare in «Immagina che illavoro», Sottosopra 2009, ripresa in «Cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda», Sottosopra 2018. Molte riflessioni sul lavoro le ho elaborate con Marina Santini per Mia madre femminista. Una rivoluzione che continua, Il Poligrafo, Padova 2015, in particolare per il testo, le testimonianze e le foto del capitolo «Immagina che il lavoro», p.181-233.

[xi] Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah, op. cit., pp. 245-247.

[xii] Vedi Daniela Danna, «Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, op. cit., p. 29-30.

[xiii] Vedi Daniela Danna, «Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione», op. cit., nota 13, pag. 34.

[xiv] Si tratta di un progetto finalista Registi under 30-Biennale College teatro. Uno spettacolo è stato rappresentato al Festival dei due mondi di Spoleto e l’altro nel Festival di teatro contemporaneo L’altra scena a Piacenza. Per conoscere il gruppo vedi

"Le mille e una notte – III Ora" in recensione oggi in Libertà Piacenza."Un elogio alla preziosità del confronto…

Pubblicato da Lidelab su Venerdì 4 ottobre 2019

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