26 Gennaio 2013

La sfida politica delle Pussy Riot

Incontro organizzato da Laura Colombo e Sara Gandini al
Circolo della Rosa e Libreria delle donne di Milano

Sara Gandini

Tutta la vicenda delle Pussy Riot, può essere letta sotto diverse prospettive: l’ingiustizia della loro condanna, le condizioni inumane delle carceri, il regime repressivo, oppure la scommessa politica delle ragazze, e le pratiche che la sostengono, che è in effetti l’aspetto che interessa più a noi. I diversi aspetti ovviamente si intrecciano ma sono anche stati strumentalizzati dai media occidentali.
Tra l’altro molta parte della stampa si è focalizzata sugli aspetti più facilmente accessibili e accattivanti della vicenda, rimuovendo completamente le coordinate politiche e artistiche in cui si muovono le Pussy Riot. Da una parte si sono scagliati contro la “cattiva Russia“ e dall’altra si sono sprecati i commenti che ricamavano sessualmente l’immagine delle tre giovani Nadja, Masha e Katja (“look pre-Raffaelita”, “labbra alla Angelina Jolie”, “sex symbol voluttoso”) puntando su richiami sessuali, semplificando la vicenda e saltando le ragioni profonde della protesta.
Vogliamo quindi prima di tutto ribadire che non ci interessa porci nella posizione dell’occidente democratico che si scandalizza di fronte a tanta illiberalità del sistema autoritario russo, anche perché sappiamo che le democrazie occidentali a questo livello hanno ben poco da insegnare.
Vogliamo invece ragionare su cosa le Pussy possono insegnarci in termini di forza e radicalità politica. Quello che a noi interessa mettere a fuoco è innanzitutto la scommessa politica di queste donne, le invenzioni politiche che hanno messo in campo, senza dimenticare i rischi che corriamo e gli scivolamenti possibili quando affrontiamo realtà lontane, geograficamente e culturalmente, come questa.
Uno degli aspetti che vorremmo mettere al centro della riflessione è la radicalità della loro pratica e il lavoro sull’immaginario, e sul simbolico, che realizzano con le loro performance.
Le Pussy Riot sono state ‘radicali’ nel senso autentico del termine, perché sono intervenute alla radice del problema senza limitarsi alle manifestazioni superficiali ma partendo da una profonda critica del potere. Le loro accuse sono diverse dalle solite tirate anti-Putin (le elezioni truccate, la retorica dei diritti umani, ecc.) e svelano la natura più intima del meccanismo di consenso del regime, risultando particolarmente indigeste. Infatti spiegano che Putin ha sfruttato la religione ortodossa e la sua estetica per garantirsi un potere che proviene da Dio stesso, cosicché la Chiesa ortodossa russa è emersa come principale attore di questo progetto nei media. Su questo Katja, nella sua difesa al processo, spiega: “Hanno utilizzato notevoli quantità di professionalità scenografiche, attrezzature video, lunghe dirette sulla televisione nazionale, numerosi sfondi per le notizie moralmente e eticamente edificanti, dove presentare i discorsi ben costruiti del Patriarca, spingendo in tal modo i fedeli a fare la scelta giusta politica in un momento difficile come quello che ha preceduto le elezioni per Putin.” E sottolinea “le immagini dovevano essere scolpite nella memoria, e costantemente aggiornate, ma al tempo stesso tutto questo doveva sempre dare l’impressione di qualcosa di naturale, continuo e imprescindibile.
La nostra improvvisa apparizione musicale nella Cattedrale di Cristo Salvatore con la canzone “Madre di Dio, spazza via Putin” ha violato l’integrità dell’immagine mediatica che le autorità avevano voluto produrre e mantenere per tutto questo tempo, e ha rivelato la sua falsità. Nel nostro spettacolo abbiamo osato, senza la benedizione del Patriarca, unire l’immaginario visivo della cultura ortodossa con quella della cultura della protesta, suggerendo così che la cultura ortodossa non appartiene solo alla Chiesa ortodossa russa, al Patriarca e Putin, ma che potrebbe anche allearsi con la ribellione civile e lo spirito di protesta in Russia.”
Dichiarano che la loro sfida politica è la rivoluzione e la loro lotta non è rivolta contro la religione anche se rinunciano al principio della decenza per riuscire a colpire l’immaginario. E spiegano: “Amiamo il principio della rima cattiva e l’inspiegabile è nostro amico. Le opere intellettuali e raffinate dei poeti di Oberiu e la loro ricerca del pensiero ai limiti del significato trovarono rappresentazione concreta quando pagarono la loro arte con la vita, sradicata dall’insensato e inspiegabile Grande Terrore. Pagando con la loro vita questi poeti dimostrarono che l’irrazionalità e l’insensatezza erano le fondamenta della loro epoca.
L’essenza della vita umana sta in questo: essere un mendicante ma arricchire gli altri. Non avere niente ma possedere tutto. Si pensa che i dissidenti di Oberiou siano morti ma sono vivi. Sono stati puniti ma sono ancora da insegnamento.”
Le Pussy sono nate dal gruppo di street-art Vojna (fondato nel 2006) di cui faceva parte anche Oleg Kulik che racconta: “L’azionismo russo nasce proprio da una dichiarazione di pazzia. Ha radici nel 1600, nel movimento ascetico degli Stolti di Cristo. Asceti come Avvakum e San Basilio il Benedetto durante le loro performance aggressive erano i soli a poter criticare apertamente il potere. La loro lotta si basa su azioni estreme in spazi pubblici simboli del Paese”. In modo simile i Vojna speravano che l’arte si sarebbe aperta un varco attraverso il pubblico, un dialogo con la società civile, attraverso azioni di guerriglia, agendo di notte e distribuendo informazioni in rete. Ma Kulik ammette che l’arrivo del capitalismo in Russia e il disfacimento del Socialismo resero le azioni dei Vojna invisibili. “Erano performance radicali basate sull’eliminazione di comportamenti civili, ma avvenivano sullo sfondo di un capitalismo selvaggio tale che la società non si scandalizzava più. Eravamo nulla in confronto ai politici di quegli anni.”
Così nel 2011 da una costola di Vojna nacquero le Pussy Riot che dichiarano di credere nel potere della preghiera e dell’arte, nel potere della parola e dell’amore. Un lavoro prettamente sul simbolico quindi.
Non rivolgono proposte politiche a partiti, sindacati e istituzioni, e nemmeno al mercato dell’arte. Infatti quando Madonna e Bjork le hanno invitate a suonare con loro hanno risposto di essere lusingate ma hanno ribadito che le sole esibizioni a cui sono interessate sono quelle illegali. “Rifiutiamo di esibirci come parte del sistema capitalistico, in concerti dove vendono biglietti” hanno risposto.
Le Pussy Riot sono un gruppo punk rock femminista e mettono al centro del loro lavoro politico il fatto di essere donne, lavorando anche sul corpo in modo interessante. Nascondono il viso con dei passamontagna colorati e adottano un look che ha, come segni distintivi, vestiti corti che mostrano calzamaglie colorate. Annullano aspetti che possono costituire richiami sessuali (diversamente dalle femen che si mettono a seno nudo) per evitare proiezioni sessuali maschili e sviare l’attenzione dai messaggi politici, ma mantengono elementi distintivi femminili. Infatti scelgono come nome Pussy Riot che significa ‘Rivolta della figa’. Si tratta di un lavoro sul loro aspetto che ha colpito molto l’immaginario collettivo tanto che è diventato un Logo, volutamente non registrato, ed è stato ripreso ovunque, facendo il giro del mondo.
Le Pussy mostrano la capacità di partire da sé, dalla loro verità, dal loro corpo, sfidando il potere e un decalogo morale rigido e insensato, senza fare compromessi. Si tratta di giovani donne coraggiose che forti della loro verità, hanno saputo mettersi in gioco personalmente fino in fondo, sfidando direttamente gli uomini di potere che determinano la vita del paese.
Criticano da un punto di vista russo e ci tengono a definirsi patriote. Nadja infatti dice di odiare Putin ma di amare la Russia e di battersi perché la sua bambina possa crescere in una Russia libera. Si dichiara addirittura contenta di questa sanzione spropositata, perché in questo modo il sistema Putin ha in realtà “emesso una sentenza contro se stesso”.
Uno degli effetti più interessanti della condanna, secondo Nadja, è che il processo ha riunito forze diverse e opposte e che la pressione esigente, incalzante e costante della società sulle autorità del governo ha reso il processo un evento politico che sta scrivendo la storia della Russia. Nadja ha dichiarato che qualunque fosse stato il verdetto, aveva già vinto perché aveva imparato ad arrabbiarsi e a farsi ascoltare politicamente. Ed ha aggiunto: “Pur trovandoci in un contesto essenzialmente autoritario e vivendo sotto leggi autoritarie, vedo questo sistema sgretolarsi di fronte a tre Pussy Riot. La Russia non ci condanna e ogni giorno sempre più persone credono in noi e pensano che dovremmo essere libere. Ogni giorno, sempre più persone capiscono che, se il sistema attacca con tale veemenza tre giovani donne che si sono esibite nella cattedrale per 40 secondi, significa che questo sistema teme la verità.”

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