25 Marzo 2015
il manifesto

La tessitrice di parole

di Alessandra Pigliaru

 

«Sapete, mi pia­ce­rebbe scri­vere come suc­cede nella testa. Nella testa le cose più dispa­rate acca­dono simul­ta­nea­mente, ma pur­troppo si può scri­vere solo in modo lineare. La mia imma­gine ideale di scrit­tura è un tes­suto. Vor­rei creare un tes­suto in cui i fili si intrec­ciano e si sovrap­pon­gono, e poi nasce una trama che non è la risul­tante di un filo solo». È il 14 giu­gno del 2010 e Chri­sta Wolf rila­scia una lunga inter­vi­sta a Susanne Beyer e Vol­ker Hage – pub­bli­cata su Der Spie­gel – che diviene pre­te­sto per imba­stire una con­ver­sa­zione appas­sio­nata sulla poli­tica e la let­te­ra­tura, punti fon­da­men­tali attorno a cui si con­cen­tra l’ultimo e imper­di­bile Rede, daß ich dich sehe (Ver­lag, 2012) ovvero Parla, così ti vediamo (edi­zioni e/o, pp. 176, euro 17), nella tra­du­zione di Anita Raja.

La tes­si­tura di cui accenna, cioè il pia­cere che affiora da ciò che si affolla nella testa e arriva alla disci­plina sapiente del dare conto di sé, è il con­tro­canto di ciò che per Chri­sta Wolf è sem­pre stata accu­rata ricerca verso una parola che non cedesse a disor­dini né a con­fu­sioni. Parola ses­suata, pro­getto di desi­de­rio e di cono­scenza dove fosse chiaro che «scri­vere è fare le cose grandi», dove cioè «le cose si supe­rano solo scri­ven­dole», la mera­vi­glia della scrit­tura di Chri­sta Wolf si dipana a que­sta altezza lungo dodici brevi scritti tra saggi, inter­vi­ste, let­tere e discorsi pre­pa­rati dal 2000 al 2011.

In Parla, così ti vediamo, trat­teg­giata l’esperienza dello scri­vere e l’andirivieni della lin­gua, emer­gono il rigore degli affetti e dei legami così come l’osservazione cri­tica della tem­pe­rie in cui Wolf è vis­suta, una com­ples­sità che ancora può inter­ro­gare il pre­sente e la sua vio­lenza strut­tu­rale, doman­dare giu­sti­zia, deci­frare le falle e le rinunce di una con­tem­po­ra­neità appa­ren­te­mente senza scampo e fon­data sul pro­fitto e sull’ottusità.
Si potranno così seguire alcune con­si­de­ra­zioni e inter­lo­cu­zioni col­lo­ca­bili tra Tho­mas Mann, Paul Parin, Egon Bahr, Gün­ter Grass, nomi­nati e incon­trati in spe­ci­fi­che occa­sioni. Di Mann, Wolf ricorda la cara­tura in occa­sione di un pre­mio che riceve nel 2010 e che è a lui inti­to­lato; poi la descri­zione dell’incontro con Uwe Johnson.

Fin dalla con­di­vi­sione di uno spa­zio affa­sci­nante e sim­bo­lico come il Meclem­burgo, Wolf ne resti­tui­sce gli accesi scambi, sì che le serate tra­scorse a chiac­chie­rare di let­te­ra­tura e poli­tica scor­rano insieme al ritratto di uno scrit­tore appas­sio­nato e com­bat­tuto per cui cen­trale è stato «essere infi­ni­ta­mente vul­ne­ra­bile e con­tem­po­ra­nea­mente pre­ten­dere con impa­zienza la per­fe­zione, da sé e dagli altri».

Sullo stesso cri­nale della gene­ro­sità cri­tica, avanza la figura di Gün­ter Grass che uti­lizza le parole come fos­sero cipolle – ripren­dendo il titolo di un suo scritto — e decide di met­tere in que­stione le frat­ture, gli oneri e le con­trad­di­zioni del suo per­corso di «ritro­va­mento di sé», por­gendo a Wolf la pos­si­bi­lità di riflet­tere sull’autobiografia e i suoi rischi.

Con­sa­pe­vole che i punti dolenti di una comu­nità si pos­sano rico­no­scere pro­prio dal fatto che se ne tace sia in pub­blico che in pri­vato, la scrit­trice ana­lizza in più di un pas­sag­gio il rap­porto ambi­va­lente con la Rdt – che innerva quasi tutti gli scritti com­preso il cele­bre discorso dedi­cato al «punto cieco» tenuto nel 2007 al Con­gresso inter­na­zio­nale di psi­coa­na­lisi, svol­tosi a Ber­lino per la prima volta dopo la Seconda guerra mon­diale. Parole pun­tuali sono per esem­pio dedi­cate al momento ini­ziale del movi­mento rivo­lu­zio­na­rio nella Rdt, indi­men­ti­cato per­ché all’inizio sor­retto da una forte uto­pia. Doman­darsi se l’errore di valu­ta­zione delle pos­si­bi­lità offerte dalla situa­zione sto­rica non possa forse defi­nirsi anch’esso il «punto cieco» di quei sog­getti che ne sono stati coin­volti, con­sente a Wolf di con­clu­dere che «la piena com­pren­sione di tutti i nessi e di tutte le con­se­guenze di una realtà con­trad­dit­to­ria para­liz­ze­rebbe ogni neces­sa­rio movimento».

Il ricordo insieme al tema del ripe­tere e rie­la­bo­rare carat­te­rizza il pro­cesso psi­coa­na­li­tico ma anche il lavoro di Wolf e serve per pre­ci­sare alcuni motivi su cui si è sof­fer­mata, al con­tempo pro­po­nendo uno sfondo che è quello della let­te­ra­tura con­si­de­rata in gran parte «il ser­ba­toio della memo­ria di un popolo». Bre­cht, Proust, Tabori, Hesse e Sil­via Boven­schen, sono i nomi attra­verso cui Wolf alle­sti­sce una breve sto­ria della parola ricordo nella scena let­te­ra­ria. La con­si­de­ra­zione poli­tica è tut­ta­via che siamo in pre­senza di una marea che si muove tra la dimen­ti­canza e l’assillo per la con­ser­va­zione senza solu­zione di con­ti­nuità e soprat­tutto senza una rap­pre­sen­ta­zione effi­cace nel tempo pre­sente. Infine, se «lo spi­rito del tempo si impos­sessa dei nostri ricordi», que­sti ultimi si decli­nano in molti modi: simili a una cor­rente scura che tra­scina rituali, reto­ri­che, estor­sioni e bloc­chi rive­lano una vasta risacca tra per­dita e dimenticanza.

Il rife­ri­mento prin­ci­pale va all’esperienza dei tede­schi che dopo il secondo con­flitto mon­diale hanno ope­rato una «mas­sic­cia per­dita del ricordo», quasi al limite di una nega­zione di con­sa­pe­vo­lezza. La memo­ria «cede, e si vieta l’irruzione del ricordo dei mas­sa­cri».
Eppure, tenen­dola viva, forse occorre farci i conti per diven­tare se stessi, «con ogni ener­gia diven­tare se stessi».



(il manifesto, 25 marzo 2015)

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