25 Febbraio 2014
il manifesto

L’alfabeto visivo di un’astrazione

di Arianna Di Genova

 

A undici anni faceva i ritratti dei com­pa­gni di classe a china. Poi  passo a guar­dare se stessa. Una volta cre­sciuta, scelse il giar­dino bota­nico di Palermo come set da ripro­durre su fogli e tele. Sem­pre, negli occhi, con­ser­vava l’abbaglio di luci bru­li­canti delle saline della madre, a Tra­pani. Carla Accardi, l’artista sici­liana che ha scritto la sto­ria dell’astrattismo ita­liano, se n’è andata a 89 anni. Rico­ve­rata per un ictus al santo Spi­rito dome­nica mat­tina, non si è più ripresa. Eppure, a dispetto della sua età, era ancora in piena atti­vità. A fine gen­naio, il suo col­la­bo­ra­tore sto­rico e arti­sta Fran­ce­sco Impel­liz­zeri aveva ter­mi­nato un lavoro cer­to­sino di inven­ta­rio, in vista di un pro­getto di Fon­da­zione dedi­cato all’intera sua opera. E per il pros­simo otto­bre, a cele­bra­zione dei novant’anni, il museo Riso di Palermo le aveva offerto la sede per ospi­tare una grande mostra.

Dolci con­tra­sti

Decana della pit­tura ita­liana, nata nel 1924 a Tra­pani, Accardi passò gio­va­nis­sima dalla «mimesi» dell’autoritratto all’esplosione geo­me­trica delle forme in libertà. Fu per lei un pas­sag­gio natu­rale, uma­ni­stico e insieme poli­tico: il qua­dro vis­suto come l’interprete di un campo di bat­ta­glia, un luogo di con­tra­sti dolci, in cui si pale­sava l’ambiguità per­cet­tiva, l’impossibilità di una verità unica, l’idea che l’armonia si assag­gia solo spe­ri­men­tando e non a tavo­lino, con tesi pre­giu­di­ziali. Sarà que­sta stessa aper­tura filo­so­fica a con­durre l’artista sulla strada inter­na­zio­nale dell’astrattismo, una volta tra­sfe­ri­tasi a Roma. Dopo nume­rose sor­tite all’Osteria Fra­telli Men­ghi di via Fla­mi­nia, luogo di ritrovo di regi­sti e pit­tori, il 15 marzo 1947 Carla Accardi prese la sua posi­zione nell’ambito della con­tro­ver­sia che infiam­mava l’Italia intel­let­tuale del dopo­guerra: fra astrat­ti­smo e rea­li­smo scelse il primo, ade­rendo al mani­fe­sto del gruppo «Forma 1» (nella foto in pagina), con­vinta che, come venne sigil­lato anche per iscritto, «i ter­mini for­ma­li­smo e mar­xi­smo non siano incon­ci­lia­bili». Con lei c’erano Anto­nio San­fi­lippo (suo marito nel ’49 e padre della figlia Anto­nella, da cui si sepa­rerà nel 1964), Giu­lio Tur­cato, Ugo Attardi (che poi tor­nerà al figu­ra­tivo), Mino Guer­rini, Piero Dora­zio, Achille Perilli e Pie­tro Con­sa­gra. Dall’altra parte della barricata,si sta­gliava Renato Gut­tuso e, schie­rato con lui, il segre­ta­rio gene­rale del Pci, Pal­miro Togliatti. Nono­stante Carla fosse pro­fon­da­mente legata al par­tito, non indie­treg­giò. L’arte doveva avere il suo lin­guag­gio, senza rispon­dere a nes­suna ideologia.

Coe­ren­te­mente, dovrà tron­care la rela­zione stretta con il Pci: ci vorrà del tempo, ma lo farà nel 1956, non rin­no­vando la tes­sera e non solo per gli avve­ni­menti in Unghe­ria. Il divor­zio fra arte e poli­tica era stato gra­duale, la rela­zione si era pro­gres­si­va­mente dete­rio­rata, con­ge­lata in posi­zioni dis­so­nanti, aveva assunto su di sé i ter­mini di una sco­mu­nica inte­riore. «Nel nostro lavoro ado­pe­riamo le forme della realtà ogget­tiva come mezzi per giun­gere a forme astratte ogget­tive, ci inte­ressa la forma del limone, e non il limone», affer­ma­vano i pala­dini di «Forma 1». Nella foto che ritrae insieme i com­po­nenti del gruppo, Carla occupa il cen­tro: nono­stante sfoggi un deli­cato vestito a fio­rel­lini, ha una postura sta­tua­ria e fron­tale che lascia intuire un carat­tere fuori dal comune e una forza che si rive­lerà vin­cente e la por­terà ad assu­mere una posi­zione di rilievo in un mondo cul­tu­rale dove le donne, quando pre­vi­ste, erano costrette a rita­gliarsi pic­coli spazi. La sua «stanza tutta per sé» invece, divenne una fucina internazionale.

I segni fluidi di Accardi, quelle matrici ara­beg­gianti di uni­versi astratti che tra­scen­de­vano il sup­porto della tela e tra­smi­gra­vano nello spa­zio, non pas­sa­rono inos­ser­vati e cat­tu­ra­rono l’attenzione di Michel Tapiè, il fran­cese che sguin­za­gliò l’Informale, for­nen­do­gli le coor­di­nate cri­ti­che per orien­tarsi nel mondo. Fu lui a invi­tarla nel 1955 alla ras­se­gna inter­na­zio­nale Indi­vi­dua­lità d’oggi che si tenne in due sedi: presso la Gal­le­ria Spa­zio a Roma nella col­let­tiva insieme a Burri, Capo­grossi, Fon­tana, Klein e alla Gale­rie Rive Droite di Parigi, dove espose con Polia­koff, Mathieu, Rio­pelle, Sam Fran­cis. Accardi però si dichiarò sem­pre lon­tana dallo spon­ta­nei­smo infor­male. «Anche se in me c’era un certo auto­ma­ti­smo quando mi met­tevo per terra a dise­gnare o dipin­gere bianco su nero, man­te­nevo il con­trollo su quello che facevo». Il segno dell’artista, infatti, pur se all’inizio imma­gi­nato libero, era sem­pre strut­tu­rato. Somi­gliava a un alfa­beto visivo che con­te­neva in germe un prin­ci­pio pro­gram­ma­tico e poe­tico. Per Carla Accardi, era neces­sa­rio che un segno per­desse la sua arbi­tra­rietà e la sua «soli­tu­dine». Doveva farsi gioco impre­ve­di­bile sì, ma con delle regole. «Il mio scopo è di rap­pre­sen­tare l’impulso vitale che è nel mondo», diceva. E lo fece, oscil­lando fra due poli, quello costrut­tivo e quello orga­nico, dando vita ad amebe in grado di creare architetture.

Intanto, si guar­dava in giro. Fre­quen­tava Lucio Fon­tana di cui ammi­rava la com­po­si­zione (razio­nale) di buchi e tagli. Sarà pro­prio quest’ultimo, in giu­ria, a fare il suo nome per la Bien­nale del 1964, dove con­qui­stò una intera sala. È l’anno degli ame­ri­cani Pop, che Accardi osser­vava da lon­tano con sim­pa­tia, non dimen­ti­cando però il fascino che aveva eser­ci­tato su di lei Jack­son Pol­lock, soprat­tutto per il suo modo di lavo­rare tota­liz­zante, abbrac­ciando tutto lo spazio.

Anche il suo segno comin­ciò a fuo­riu­scire dal sup­porto. Tra le pos­si­bili forme scelte per appli­care e sug­gel­lare la potenza di quella cal­li­gra­fia ripe­tuta osses­si­va­mente, l’artista negli anni Ses­santa si con­cen­trò su una tenda. Nella tra­spa­renza e sma­te­ria­liz­za­zione delle pareti di quel rifu­gio — la tenda come luogo noma­dico per eccel­lenza, ricreata sulle sug­ge­stioni di abi­ta­zioni tur­che — aveva tra­spo­sto tutta la sua filo­so­fia arti­stica. Per lei, rap­pre­sen­tava un azze­ra­mento della civi­liz­za­zione, un sim­bolo magnetico.

A pre­sen­tare il lavoro, in cata­logo, c’era un testo di Carla Lonzi (una foto in pagina le ritrae). Gli anni Ses­santa furono un decen­nio impor­tante anche per l’amicizia intensa e cul­tu­ral­mente assai fer­tile con lei. Fu allora che si conob­bero la cri­tica d’arte fem­mi­ni­sta e l’artista che amava l’astrattismo; nel 1970 quel loro soda­li­zio sfo­ciò in Rivolta Fem­mi­nile, uno dei primi col­let­tivi fem­mi­ni­sti in Ita­lia, con annessa una pic­cola casa edi­trice con la quale ver­ranno pub­bli­cati impor­tanti saggi teo­rici. Carla Accardi fu una co-autrice del mani­fe­sto (venne redatto nel suo stu­dio di via del Babuino) che atte­stava la neces­sità non di una neu­tra ugua­glianza fra sessi, ma il rico­no­sci­mento di una orgo­gliosa dif­fe­renza. Stu­diò le arti­ste del pas­sato insieme a Carla Lonzi — Arte­mi­sia Gen­ti­le­schi, Ange­lika Kauf­f­mann — e nel 1971 pagò la sua mili­tanza con l’interdizione dall’insegnamento (aveva distri­buito alle alunne l’opuscolo di Rivolta fem­mi­nile). Nel tempo, però, non riu­scì a reg­gere l’«estremismo» pro­vo­ca­to­rio delle posi­zioni dell’amica. La rot­tura fu trau­ma­tica, ma ine­so­ra­bile. Per Accardi, l’arte era una ragione irri­nun­cia­bile di vita, men­tre l’altra andava allon­ta­nan­dosi da lei, per­se­guendo solo la strada della poli­tica. «Mi sono tro­vata all’opposto della tesi radi­cale per la quale la cul­tura è maschile e la donna stan­dovi den­tro opera un tra­di­mento», con­fes­serà in seguito.

La bar­riera del Sicofoil

Negli anni, Accardi aveva impa­rato a non demor­dere mai. Anche da anziana, tor­men­tata dai dolori alla schiena, aveva con­ti­nuato a lavo­rare tutti i pome­riggi, con la con­sueta meto­di­cità di sem­pre, esclusa la dome­nica. La mano ferma, dipin­geva pure su tele di grandi dimen­sioni, seduta di fronte al suo tavolo incli­nato per archi­tetti. Schizzi, dise­gni e foto­co­pie la aiu­ta­vano ad orien­tarsi nel gro­vi­glio della nuova opera. Negli anni Qua­ranta era par­tita con una sin­fo­nia di segni in bianco e nero, per poi pas­sare ai colori, aveva spe­ri­men­tato le ver­nici fluo­re­scenti, era più volte tor­nata sui suoi passi per fare salti in avanti. Attenta ai mate­riali nuovi e curiosa di ciò che acca­deva in altre parti del mondo, pre­sto si con­cen­trò sulle poten­zia­lità della pla­stica: la sua tra­spa­renza pro­met­teva una pos­si­bile defla­gra­zione del dentro/fuori, interno/esterno. La pla­stica era per­fetta per incar­nare quella sua vec­chia idea di rela­ti­vi­smo, abbat­teva i con­fini dati.

Il sico­foil visto come bar­riera mobile con­tro la rigi­dità opaca della tela. «Uso la pla­stica come cosa di luce, mesco­lanza, flui­dità con l’ambiente intorno: forse, anche per togliere al qua­dro il suo valore di totem». RotoliLen­zuoli mol­ti­pli­che­ranno quelle tra­spa­renze tra­sfor­man­dole in pae­saggi veri e pro­pri. Della pla­stica, l’artista amava anche la fra­gi­lità, una carat­te­ri­stica che andava in con­tro­ten­denza rispetto al valore dure­vole dell’arte. In fondo, è un’allusione iro­nica a un gioco intra­preso per pro­cu­rare pia­cere a sé e agli altri. Che Carla Accardi si sia sem­pre diver­tita nel suo lavoro lo dimo­stra un’opera eccen­trica nel suo per­corso: quel pavi­mento per­cor­ri­bile, «tag­gato» con la sua par­ti­co­lare cal­li­gra­fia e reso sonoro dalla can­tau­trice Gianna Nan­nini. Espo­sto nel 2011 a Cata­nia, presso la Fon­da­zione Puglisi Cosen­tino, con la sua cera­mica dipinta in blu faceva risuo­nare le note che la musi­ci­sta aveva rac­colto sulla piazza Rossa di Mosca.

(il manifesto, 25 febbraio 2014)

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