22 Febbraio 2014
il manifesto

«Lascia che il mare entri», un tempo tutto al femminile

di Andrea Colombo

 

È pos­si­bile rac­con­tare in un cen­ti­naio appena di pagine la para­bola del Nove­cento, fis­sare l’istantanea gron­dante dolore della sua anima, rica­pi­to­lare la somma delle sue pro­messe e dei suoi tra­di­menti, le illu­sioni sma­glianti e le delu­sioni cocenti, la spe­ranza e la fero­cia? Ed è pos­si­bile farlo guar­dando la sto­ria dal basso, con gli occhi di chi la ha subìta e sof­ferta e ne ha pagato i prezzi più salati ma ha anche cre­duto di poter­sene ren­dere pro­ta­go­ni­sta, con la pazienza tenace della fede nel pro­gresso o con l’impazienza furiosa di chi cer­cava una rivo­lu­zione che resti­tuisse tutto e subito a chi non aveva avuto mai niente? Bar­bara Bal­ze­rani dimo­stra in que­sto libro breve e pro­fon­dis­simo che lo si può fare.

Però non basta scri­vere molto bene: il requi­sito è neces­sa­rio, non suf­fi­ciente. Biso­gna anche sapere per istinto innato e sapienza acqui­sita che «dipin­gere è l’arte di svuo­tare un qua­dro», lezione che in Ita­lia ha con­tato un solo mae­stro, Luigi Pin­tor. Occorre cali­brare le parole e le emo­zioni una per una, mai a cuore leg­gero, mai inse­guendo il vezzo dello stile, cari­cando ogni frase e ogni rifles­sione di una sof­fe­renza affron­tata a viso aperto e di una ricerca tanto ambi­ziosa quanto corag­giosa. Si deve con­si­de­rare la scrit­tura non come mestiere ma come stru­mento atto a scan­da­gliare sem­pre a più fondo la pro­pria anima, per cogliervi i riflessi di un’intera epoca.
Lascia che il mare entri (Deri­veAp­prodi, 2014, pp. 96, euro 12.00) è il risul­tato di que­sta inda­gine che parte da sé per arri­vare a una realtà comune e gene­rale: un dia­logo sospeso nel tempo tra l’autrice, una bisnonna con­ta­dina mai cono­sciuta ma pre­sente da sem­pre nel suo imma­gi­na­rio, una madre ope­raia pas­sata dai campi alla fab­brica, dalla mise­ria dei brac­cianti al mirag­gio di affran­carsi da quelle catene anti­che gra­zie alla moder­nità della catena di mon­tag­gio. Tra una vita e l’altra ci pas­sano due guerre, una migra­zione, un mira­colo eco­no­mico, una rivo­lu­zione fallita.

Lungo que­sta para­bola di donne forti, corre il filo di un sogno fra­nato, rovi­nato su quelle (e quelli) che gli ave­vano affi­dato la mis­sione di cam­biare l’esistenza loro e quella dei loro figli, e ci ave­vano inve­stito tutto. Fati­cando la vita in casa men­tre gli uomini se la suda­vano nei campi. Restando ad aspet­tare che tor­nas­sero (forse) i mariti, spe­diti in trin­cea come carne da macello. Migrando non solo da una regione d’Italia a un’altra, ma tra un mondo e uno tutto diverso. Lasciando le cucine per i padi­glioni del lavoro sala­riato. Con­qui­stando a prezzo caris­simo bran­delli di auto­no­mia come per­sone e come donne. Alla fine ten­tando una rivo­lu­zione che rove­sciasse per intero lo stato delle cose.

Quel sogno per­duto, quel giu­ra­mento disat­teso, è anche, ma non solo, la rivo­lu­zione. È molto di più. È il pro­gresso. È la fede sal­vi­fica nella tec­nica come ele­mento desti­nato in un modo o nell’altro, col passo lento della sop­por­ta­zione o con quello acce­le­rato della spal­lata rivo­lu­zio­na­ria, a redi­mere la vita di tutti gli ano­nimi sulla cui testa la sto­ria era abi­tuata a pas­sare senza nep­pure con­sul­tarli.
Lascia che il mare entri è anche la sto­ria di un con­flitto, e della sua ricom­po­si­zione postuma: tra due donne, o forse tra due gene­ra­zioni di donne, che hanno com­bat­tuto per gli stessi obiet­tivi, cer­cato il mede­simo riscatto con stru­menti diversi e per vie oppo­ste, senza riu­scire a rico­no­scersi se non per attimi fug­genti, e poi subìto lo stesso inganno, patito la stessa scon­fitta. Arri­vati al momento del bilan­cio, la chi­mera della rivo­lu­zio­na­ria armata e quella della ope­raia immi­grata si somi­gliano molto più di quanto non appa­risse. L’amarezza della disil­lu­sione è gemella.

In que­sto fan­ta­sma­tico con­fronto tra tre gene­ra­zioni di donne, quella che più si avvi­cina a aver com­preso l’essenza della vita è la più anziana, la con­ta­dina che sapeva ade­guarsi ai ritmi lenti della natura, senza ten­tare di vio­larli né illu­dersi di poterli domi­nare: la matriarca che si era chiusa per sem­pre nel muti­smo quando l’angelo ster­mi­na­tore del Nove­cento si era pre­sen­tato alla sua porta per annun­ciare la guerra che inau­gu­rava il secolo breve. Una di quelle che sape­vano accet­tare tutto, «non per codar­dia ma per intel­li­genza della forze che rego­la­vano il mondo».. Pos­se­deva il segreto degli anti­chi costrut­tori delle case di Scilla, dove si con­clude que­sto romanzo: costruite in mezzo al mare, con porte pen­sate non per chiu­dere fuori il mondo ma per fare entrare le onde e lasciar fluire all’ interno la marea.
Ci sono scrit­tori che si guar­dano intorno e creano uni­versi. Ce ne sono altri che guar­dano al loro interno, lavo­rano sulla pro­pria espe­rienza per sgros­sarla e raf­fi­narla sino a rin­trac­ciarne la valenza uni­ver­sale: la genea­lo­gia pri­vata di un sen­tire comune. Di libro in libro, Bar­bara Bal­ze­rani rac­conta la realtà intima e uni­ver­sale di una scon­fitta che va molto oltre i con­fini della nostra rivo­lu­zione fal­lita o di un’opulenza bugiarda, rive­la­tasi poi intrisa di veleno. Quella scon­fitta rap­pre­senta il cuore dell’esperienza pro­fonda della gene­ra­zione e dei tempi da cui Bar­bara pro­viene. Riguarda tutti, anche chi può illu­dersi di esserne uscito vin­cente. Però nes­suno, sinora, era riu­scito a ren­derne com­piu­ta­mente il senso, l’intima realtà e insieme, la neces­sità di redi­merla attra­verso l’unica pos­si­bile via di riscatto, che è la ricerca della verità.

Forse non si può pre­ten­dere che chi, nell’Italia di oggi, si gua­da­gna da vivere scri­vendo di chi scrive, e sco­pre un Proust o un Sime­non die­tro ogni chiac­chie­ric­cio, sap­pia met­tere da parte la vicenda bio­gra­fica di Bar­bara Bal­ze­rani per misu­rarsi senza schermi e pre­giu­dizi con quello che scrive. Quando ne saranno capaci, e prima o poi suc­ce­derà, sco­pri­ranno che è una delle poche scrit­trici vere che ci siano oggi in que­sto Paese. Que­sto è il suo libro migliore. Per ora.

 

(il manifesto,  21 febbraio 2014)

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