8 Marzo 2015

Laura Boldrini e il sessismo nel linguaggio

di Massimo Lizzi

 

Laura Boldrini ha scritto una lettera a deputate e deputati per chiedere di declinare al femminile i nomi delle cariche pubbliche quando sono assunte da donne.

L’iniziativa ha provocato reazioni, alcune delle quali molto offensive. L’account di Twitter della presidente della camera ha collezionato una ventina di insulti. Alcuni organi di informazione, come l’Huffington Post, hanno amplificato il caso come se si trattasse di centinaia, migliaia di insulti, nonostante fossero molte di più le condivisioni.

Per le basse qualfiche la declinazione al femminile è scontata e nessuno si affanna a presidiare primati maschili. La questione si pone per le alte qualfiche e per i titoli di potere. Qui le obiezioni alla presidente sono tre: sta facendo una crociata; è una questione poco importante, i problemi sono altri; la lingua è naturale, non si può forzare, non si possono imporre cambiamenti.

Se l’iniziativa della presidente è una crociata, l’iniziativa di coloro che si impegnano nel contrastarla è almeno una controcrociata.

Se un uomo viene chiamato come una donna, secondo me, reputa la cosa abbastanza importante. Un uomo chiamato come una donna può sentirsi inferiorizzato, di certo disconosciuto nella propria identità. Al contrario, tanti uomini e anche alcune donne pensano che una donna chiamata come un uomo si senta meglio valorizzata, come se la propria identità fosse motivo di difetto, spesso di ridicolo. Talvolta persino una donna chiamata come una donna si sente inferiorizzata. E’ il caso di quelle donne che arrivano al vertice e vogliono essere chiamate al maschile. Questo è il punto oggetto della controversia. La lingua, riflette, riproduce e rinforza una cultura che attribuisce maggior valore agli uomini e minor valore alle donne, fino al punto di rappresentare il maschile come neutro e universale e il femminile come parziale e particolare.  Chi attacca, attacca questo. Chi difende, difende questo.

Un tempo era un sistema di valori comune: gli uomini erano considerati meglio delle donne, anche se si ammetteva l’esistenza di donne eccezionali, magari meritevoli di titoli maschili. In tal modo era naturale pensare e parlare. Dopo il femminismo e la messa in crisi del dominio maschile, questo sistema si è incrinato: quel che prima era naturale per quasi tutti, oggi è naturale solo per una parte. Mettere in discussione la lingua, il linguaggio, non è solo una scelta politica, militante, che forza un presunto spontaneo modo di esprimersi. Per tanti di noi non è affatto spontaneo chiamare una donna come fosse un uomo, e per tanti altri è motivo di disagio, e incertezza. C’è da riconoscere che non siamo più d’accordo neanche nel modo di parlare. C’è da rifare un codice comune. A partire da due soggetti.

Riferimenti:
Il sessismo nella lingua italiana – Alma Sabatini
Il sessismo nella lingua italiana – Cecilia Robustelli
Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo – Cecilia Robustelli
Infermiera si, ingegnera no? – Cecilia Robustelli
Il femminile di questore e prefetto – Patrizia Bellucci


(www.libreriadelledonne.it, 8 marzo 2015)

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