25 Agosto 2016
il manifesto

Lavoro ecoautonomo: un’intervista a Lucia Bertell

di Alessandra Pigliaru

 

Dare conto delle numerose analisi che attengono al lavoro e alla sua trasformazione è piuttosto complicato. Lucia Bertell, studiosa e cooperatrice da molti anni impegnata nella progettazione partecipata e ricerca sociale sul lavoro, si interroga sui suoi mutamenti a partire da un libro recentemente pubblicato per elèuthera dal titolo Lavoro ecoautonomo. Dalla sostenibilità alla praticabilità della vita (elèuthera, pp. 191, euro 15).

Il percorso che ha intrapreso mostra uno spostamento generale dalle cosiddette «altre economie», «economie solidali» a quelle che lei chiama «economie diverse» per poi riflettere su una ulteriore nominazione che è quella di «ecoautonomia». Secondo lei il termine accentua e mostra l’idea della vita dal soggetto all’insieme in una «interazione continua». Cosa significa?

Il passaggio da «altra economia» a «economie diverse» è dovuto a una condivisione in seno al gruppo TiLT/Territori in Libera Transizione e di cui parliamo nel libro Davide e Golia. La primavera delle economie diverse (Jaca Book, 2013). «Altra economia» dà il senso della costruzione di un’economia parallela che non ha a che fare con quella in cui siamo, invece, tutti immersi, quella dominante. «Economie diverse» ha cercato di porre l’accento sulle molte forme di economia, sulle loro diversità e, soprattutto, sulla possibilità di sentirsi in transizione nelle forme attraverso un processo di ibridazione. Il neologismo «Ecoautonomia» mi e ci ha permesso di fare un ulteriore passaggio a partire sia da una critica propositiva fatta da Cristina Cometti che denunciava un eccesso di centralità dell’economico come lente interpretativa del contesto di studio, sia dalla diretta voce dei protagonisti e delle protagoniste della ricerca, tante lavoratrici e lavoratori produttori che, con le proprie pratiche quotidiane e le proprie reti e relazioni, ponevano l’accento sulla quotidianità della vita più che sulle questioni economiche. Si può passare da lavoratrici e lavoratori che sostengono il sistema economico dominante a persone che mettono al centro la praticabilità della vita. Il primo ordine si relaziona a qualcosa di astratto, l’altro a qualcosa di vicino che dipende da noi. Il primo afferisce a un ordine antropocentrico, il secondo si potrebbe dire «zoepensante», oppure, come direbbe Rosi Braidotti, «zoecentrico». Il primo ordina i propri fattori a partire dalla priorità dell’homo oeconomicus mentre il secondo ordina i propri elementi a partire da un’appartenenza all’esistenza intera.

Storicizzando la categoria del lavoro, si è trovata dinanzi ad almeno due ripensamenti archiviati come «amori falliti»: il cooperativismo e il femminismo. Come è andata?

Nel tempo il sistema capitalista ha dato vita a modalità più invasive e a un mercato del lavoro che ha messo a sistema ciò che di buono il cooperativismo offriva come la capacità relazionale, un’idea di giustizia, la cura, e via così. In questo tempo, troppo flebili sono state le voci e le istanze del cooperativismo delle origini. Troppo forte la malìa del lavoro strumentale. Così il movimento si è trasformato in settore, il terzo settore, inserendosi in un disegno di reciproco utilitarismo con mercato e stato. Qui si inserisce il movimento femminista che, ai miei occhi ma ormai non solo, ha enfatizzato alcune caratteristiche che le donne hanno portato al lavoro, in primis di tipo relazionale. Tuttavia, neppure il femminismo si è accorto che le donne, tanto valorizzate per il cambiamento che portavano nelle forme del lavoro, stavano reggendo il gioco del potere dominante, di una economia padrona e, diciamolo, di uomini. Nel libro parlo di «engagement delle donne». Ma mentre penso che il cooperativismo abbia ormai poche occasioni per assomigliare a se stesso, credo, invece, che il femminismo abbia ancora la forza di aprire strade e abbia la capacità di orientarci.

Come scrive, il momento storico in cui ci troviamo richiede attenzione riguardo il pericolo di «non subire la predominanza omologante del mercato». A questo proposito sostiene che sia la metonomia, e quindi la lingua materna, a poter mantenere aperto il conflitto con il capitale…

Sì, questa è una tesi che perseguo da un bel po’ di tempo. Come dice il mio amico Michele Bottari, le femministe sono fissate con la nominazione e, aggiunge, hanno ragione. È proprio con un’attenzione alla nominazione che il femminismo ha aperto conflitti e fatto ordine simbolico. La pratica metonimica invece che quella metaforica, come diceva già Luisa Muraro nel suo Maglia e uncinetto, attiene alla specificità della nominazione che sta proprio nel formarsi attraverso collegamenti trovati e non inventati. Le connessioni linguistiche possono essere di qualsiasi tipo purché siano stabilite attraverso dati che si presentano con l’esperienza e non sulla base di un rapporto di puro pensiero. Qui sta per me oggi la forza comunicativa della metonimia che si fa strada nel vissuto del lavorare. Vi sono state riflessioni importanti su singole parole all’interno dei gruppi e dei movimenti come Genuino clandestino o al Centro documentazione anarchica Domaschi o al Gruppo di acquisto sociale Piccoli. Una per tutte, per fare un esempio, quella di «sovranità» alimentare messa da parte in favore di «autodeterminazione».

L’anarchia e l’ecoautonomia hanno più di un’affinità, in relazione a ciò che chiama saperi anarchici liberamente agiti…

In realtà quello che è emerso ai miei occhi, con l’aiuto di Cristina Cometti, è un legame di affinità tra anarchia ed ecoautonomia ma anche tra queste e il femminismo. È qualcosa che è rimasto ancora aperto nella mia ricerca. Solo pochissimi intervistati si sono autoposizionati in un’area di pensiero e di pratiche anarchiche ma a partire da un’intuizione emersa dalle pratiche di economie diverse osservate in Sardegna, si è fatta strada una pista anarco-libertaria senza che questa fosse detta o potesse essere detta.

A tal proposito, riporta alcune delle storie raccolte durante l’anno della sua ricerca tra il Veneto e la Sardegna. Dalla raccoglitrice di zafferano al riparatore di biciclette, passando per la casara e alcune esperienze di coltivazione biologica. Cosa ha scoperto attraverso questi incontri e che tipo di narrazioni ne sono scaturite?

Il confronto tra Veneto e Sardegna su questi temi ha raccolto molto materiale perché come TiLT lavoriamo tra queste due regioni dal 2010, a partire da due progetti di ricerca con Antonia De Vita, Giorgio Gosetti e Federica de Cordova. Ma ancor prima con Cristina Cometti che si è trasferita lì per un cambio di stile di vita e di lavoro. Quello di cui le donne e gli uomini intervistati mi parlavano non aveva più a che fare con un mondo alternativo caratterizzato da buoni valori solidali, ambientalisti, mutualisti. Questi valori, pur presenti nella cultura e nei percorsi personali, sono rimasti come sfocati mentre a tinte forti emergevano i tratti dell’autoderminazione e della libertà sostanziati da caratteristiche che ho individuato nel «vivere semplicemente», nel «reddito decentrato», nelle «relazioni di utilità» e in un’idea di «remuneratività» che non è solo una possibilità di scambio tra umani ma anche con la terra che accoglie. Lavori e vite che mostrano come possibile un altro paradigma in dialogo con quello in cui tutti siamo immersi, ma al tempo stesso rende possibile un percorso di transizione. Transition work, l’ho chiamato, per indicare che non è possibile un confronto tra lavoratori postcapitalisti e lavoratori ecoautonomi, perché entrambi i modelli, mi si passi il termine, che questi esprimono risulterebbero mancanti e fallimentari l’uno agli occhi dell’altro.

 

(il manifesto, 25 agosto 2016)

Print Friendly, PDF & Email