28 Febbraio 2013
Corriere della Sera

Le donne cambiano l’Islam, non viceversa

Marco Ventura

Un giorno, nella Parigi di fine anni Settanta, Nilüfer Göle fu invitata a ritrovarsi con un gruppo di femministe nel bagno turco della moschea della capitale francese. La giovane, allieva del sociologo Alain Touraine, scoprì che per quelle donne l’hammam era uno spazio privilegiato, in quanto esclusivamente femminile, per coltivare la «sorellanza» e costruire l’emancipazione. L’imbarazzata Nilüfer non aveva dimestichezza con un luogo che nella sua famiglia laica era sinonimo di una segregazione dalla quale le donne turche si erano emancipate da tempo.
Più di trent’anni dopo, nel 2005, Nilüfer Göle raccontò l’aneddoto in un libro francese sui rapporti tra Islam e Europa. Divenuta ormai una delle più note sociologhe dell’Islam, direttrice di ricerca nella prestigiosa École des hautes études en sciences sociales, l’autrice utilizzava la propria esperienza di turca francese per spiegare le «interpenetrazioni» che stavano sfidando, e cambiando, musulmani ed europei. Otto anni dopo, il volume, nel frattempo pubblicato negli Stati Uniti, esce anche in Italia (L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni, Armando Editore). Gli otto anni passati non pesano sul libro: il racconto resta prezioso, le idee hanno semmai acquistato autorità alla luce degli sviluppi più recenti. Globalizzazione e immigrazione hanno instaurato tra Occidente e Islam una «prossimità», in cui si riduce la distanza e si sovrappongono storie e culture. Il processo, sottolinea l’autrice, ha portato paura e scontro: sicché accade che «le fratture si allarghino e siano sentite più intensamente a mano a mano che aumenta la prossimità», e che la posta in gioco diventa «la divisione dello spazio».
È finito il tempo in cui la modernità occidentale era il modello indiscusso. Nessuno lo sa meglio dei turchi che a tale modernità si sono ispirati a più riprese, e in particolare al tempo delle riforme ottomane di metà Ottocento e negli anni Venti, con la rivoluzione kemalista. La modernità europea è oggi lo spazio in cui i musulmani reinventano la propria presenza, il magazzino degli attrezzi coi quali l’Islam si esprime. La sfera pubblica europea è per Nilüfer Göle «il palcoscenico in cui il dramma dell’incontro tra musulmani ed europei prende forma», in cui cambia la scenografia, via via che si succedono attori con «nuovi stili di vita», di comunicazione e di partecipazione.
Nel «repertorio d’azione» del nuovo Islam contano l’espressione, l’improvvisazione, le emozioni personali e le passioni collettive: i musulmani si muovono, impongono la loro visibilità. Lo sradicamento dalle terre d’Islam e la ri-territorializzazione nello spazio europeo producono una «performatività islamica» in cui l’Islam globale è esso stesso fattore potente di globalizzazione.Modernità e tradizione si confondono; l’islamismo fraintende le fonti e reinventa la tradizione. «L’interpretazione del testo coranico», scrive l’autrice, «subisce una erosione democratica» in forza della quale la guerra santa può essere dichiarata «da una persona priva di autorità religiosa, la cui legittimità si fonda solo sul suo attivismo».
Sotto la superficie di un elemento religioso amplificato, la modernità produce un sincretismo dal «carattere ibrido, meticcio e impuro», simboleggiato per la sociologa dai nuovimartiri, in particolare dagli ingegneri islamici radicali, e dalle parlamentari e studentesse turche che rivendicano il diritto di portare il velo in aula.
Il legame tra imartiri terroristi e le donne è decisivo. Nel suo testamento, l’attentatore delle Torri Gemelle Mohamed Atta si rivela ossessionato dalla sessualità e dal contatto con le donne: «L’uomo che laverà il mio corpo e i miei genitali», ha lasciato scritto l’attentatore delle Torri Gemelle, «deve indossare dei guanti cosicché le mie parti intime non siano toccate»; nessuna donna dovrà assistere ai funerali, «né, in seguito, venire a piangere sulla mia tomba». Dalla prima all’ultima pagina del libro, le donne risaltano come il perno della trasformazione. «La modernità islamica può essere scritta solo al femminile», scrive l’autrice, puntando l’attenzione sull’azione e sulla visibilità delle donne. La sfida femminile è scritta nel corpo e nello spazio. Prende direzioni diverse seguendo il vento della storia. È emancipazione dal passato nella Turchia che a partire dagli anni Venti fa della donna il vessillo della laicità e il pilastro del progresso. Tanto che nel 1938 lo scrittore Peyami Safa saluta con entusiasmo il Paese «dove le donne possono vestirsi come vogliono, dove la polizia, i fanatici religiosi e persino i conduttori dei mezzi di trasporto non possono più dire alcunché su quello che le donne indossano». Ma la donna è anche la protagonista del movimento islamista turco che si sviluppa negli anni Ottanta. Merve Kavakçi, la trentunenne che il 2 maggio 1999 sfida il Parlamento presentandosi velata, è l’icona di una generazione di donne «musulmane e moderne», come recita il titolo di un libro di Nilüfer Göle del 2003, purtroppo non tradotto in Italia.
Vissuta a lungo negli Stati Uniti, laureata in Ingegneria informatica all’Università del Texas e divorziata con figli, Merve Kavakçi è il simbolo di una donna islamica a suo agio nella modernità, che usa il corpo per disegnare strategie adatte al contesto. Portare il velo in Turchia, dov’è vietato nei luoghi istituzionali, è un atto di protesta dal basso contro l’ordine laico e repubblicano. Viceversa in Iran, dove la rivoluzione ha imposto il velo dall’alto, le donne protestano velandosi solo in parte.
La «femminilizzazione dell’Islam» descritta da Nilüfer Göle non riguarda solo i Paesi islamici,ma anche e soprattutto l’Europa, dove la battaglia sul velo è assurta a simbolo delle tensioni sulla cittadinanza femminile, tra uomini e donne, e soprattutto tra donne. Prende forma così la domanda essenziale: se le donne sono la chiave, «chi avrà in mano questa chiave? ». Nessuno conosce la risposta. Di certo Francia e Turchia, proprio perché eccezioni laiche, saranno un laboratorio decisivo per l’Europa e per l’Islam. Non esiste più, né per gli uni né per gli altri, la possibilità di un dialogo basato su una «distanza rassicurante». Purezza e identità sono una strada senza uscita: «Rendere l’altro ancora più diverso per creare la propria identità» scrive l’autrice «è un modo per rendersi ciechi fissando l’immagine riflessa dell’altro», fino a «cadere in preda alle illusioni e distruggere ogni possibilità di trovare un terreno comune, di costruire un legame tra il sé e l’altro». Solo la fatica dell’elaborazione di un progetto, non la scorciatoia di finte identità, consente di guardarsi nello specchio dell’altro senza divenire ciechi.

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