21 Marzo 2016
#VD3

Le donne e l’utero in affitto

di Clelia Mori

Le donne e l’utero in affitto

 

Due gruppi di donne stanno cambiando, dall’interno del nostro corpo: l’utero, l’idea concreta e simbolica di maternità che abbiamo come donne e lo stanno facendo con l’aiuto interessato della scienza maschile. Un gruppo è quello abitato dal mito della maternità ad ogni costo, desiderata fino all’impossibile e disposto a pagare qualcuna che gli faccia figli pur di riuscire a realizzare lo smisurato desiderio di averli.

 

Le donne pagate per farli sono l’altro gruppo, nato in seguito al desiderio del primo, che sta facendo cambiare il materno mettendo in vendita pezzi generativi del loro corpo. Ogni gruppo ha sottogruppi di donne che variano secondo la qualità del desiderio materno e del bisogno fisico per realizzarlo.

 

I desideri, e i diversi bisogni fisici individuati dalla scienza, hanno creato il mercato di pezzi di corpo di donne che la legge patriarcale si è incaricata di governare in modo più o meno disincantato. Il mercato per essere tale ha bisogno di de-simbolizzare la maternità della gravidanza banalizzando nel naturale la gravidanza stessa. E riesce a farlo coi soliti automatismi maschili, accettati però anche dalle donne dai desideri impossibili di “fertilità”. Esse cancellano dal dialogo pubblico la sofferenza e la bellezza fisica e psichica che la gravidanza contiene per ognuna di noi, lasciano visibile solo la parte aulica maschile mentre si appellano al mito neutro del femminile del fare figli/e in modo così fisicamente naturale da essere quasi indolore. Lo scopo è quello di poter attribuire la maternità, spostandola dalla pancia di chi la produce, a chi ha desideri irrisolti di maternità per l’infertilità della coppia o di una singola persona; visto che la maternità è solo e da sempre frutto di una relazione tra corpi sessuati differenti che incarica quello femminile di
realizzarla.

 

Di mezzo ci sono bambini e bambine pensati dall’origine, con questa nuova forma d’amore, già orfani di madre. Serve a cancellare la relazione fondamentale di crescita sicura e protetta nel suo ventre. Il primo gruppo di donne è straconvinto che tutti gli essere umani sono fertili. Alcuni o alcune invece sono naturalmente infertili e non è per forza una malattia né un’esclusione sociale, anche se il patriarcato si è speso molto in questo senso. Questa incapacità di accettare l’infertilità, scelta o “subita”, ha messo in gioco i desideri di molte persone che per scelta appunto, anche di coppia, sarebbero naturalmente infertili. E magari le donne non se ne sono accorte, troppo intente ad ascoltare desideri personali anche molto neutri.

 

Tra i due gruppi di donne passa un modo molto differente di leggere la gravidanza e la maternità. Le donne del primo – di serie A ?! – la sopravvalutano all’inverosimile, soprattutto quando riguarda la propria pancia, ma banalizzano all’infinito, con l’aiuto del potere legislativo, quella del secondo gruppo – di serie B?! -, arrivando ad accettare la definizione di portatrice per la donna madre che si lascia affittare l’utero.

 

Le venditrici di ovuli nel gioco del mercato dei figli sono silenziate perché più invisibili della pancia gravida, anche se all’ovulo è stato fatto assumere lo stesso valore proprietario dello spermatozoo. È un modo per far pesare di più l’atto del concepimento sulla gravidanza generativa – visto che l’uomo non può mai generare, ma solo concepire – al fine di estromettere la madre gravida che genera, e legittimarsi alla pari col corpo femminile, nella funzione ovulatoria e genetica per diventare, con meno resistenze simboliche, madre sociale.

 

Parlare di portatrice, neanche più di cicogna, è un po’ come parlare di chi porta in giro una sporta, una sogliola o un camion. E allude anche a una quasi inutilità dell’utero femminile avendo già diviso la generazione tra almeno due corpi di donna.

 

Quasi ci si potesse autorizzare a pensare che anche senza l’utero un figlio o una figlia potrebbero ugualmente essere messi al mondo. Niente di più impossibile, ancora per molto e molto tempo: senza utero non nasce nulla di questo prezioso nuovo concepito e allora perché dobbiamo assistere a queste modificazioni concrete e simboliche del materno nella gravidanza? Autorizzandoci da donne perché altre donne lo hanno fatto, modificando il simbolico di tutte noi?

 

Non riesco a credere che queste nuove visioni della funzione materna siano scevre degli stessi problemi di quella vecchia, siamo tutte persone per fortuna imperfette e nessuno sfugge a questa realtà, neppure se alcune pensano che le autorizza un desiderio molto più grande di quello delle donne che restano incinta facilmente. Neppure se la famiglia si sfascia e si rifà in altri nuovi modi. A meno che non teorizziamo l’assenza di una qualsiasi relazione tra le persone perfino nel generare, cancelliamo la nostra idea di cura e pensiamo il generare come un atto di sola cultura, anche se non so in che modo. Ma sarebbe un incubo, non certo quella pretesa di amore più intenso degli amori degli altri.

 

La banalizzazione della gravidanza l’abbiamo sempre conosciuta nell’obbligo patriarcale a figliare e qui si perpetua rendendo incerto quel simbolico femminile che si è voluto, dal ’68 in avanti, liberare dalla maternità subita e seriale. Una liberazione che ha spinto le donne a pensare di dover dimostrare che sapevano fare quasi tutto quello che sapevano fare gli uomini senza valorizzare più di tanto pubblicamente quello che sapevano già fare, ma che non era considerato socialmente utile e fondante della relazione umana. Adesso abbiamo dimostrato che siamo capaci di fare tutto quello che fanno gli uomini e forse anche meglio e che senza di noi non si può pubblicamente neppure governare. Ma non abbiamo dimostrato abbastanza bene che quello che sapevamo fare noi donne era fondamentale per tutti ed abbiamo lasciato che continuasse ad essere banalizzato come molte altre nostre competenze, divise tra natura e cultura anche nel nostro sentire, e i nodi per noi donne sono venuti al pettine.

 

Oggi il nostro corpo è ancora e più di prima a disposizione pubblica e noi non ne siamo estranee.

 

Ma perché e “per chi” abbiamo accettato di rinunciare a spiegare nel pubblico che il ruolo delle donne era già fondamentale nel mondo e subiamo invece questo smembramento del corpo in nome della libertà femminile e di desideri che non appartengono a chi si lascia smembrare il corpo dal bisogno dei soldi? Perché il nostro desiderio di maternità l’abbiamo lasciato diventare così violento contro noi stesse, visto che se è violento con alcune questa violenza può per estensione capitare a tutte noi? “Al servizio di chi” siamo? Di noi stesse o di chi? Riusciamo a governare diversamente questa nostra biologia? Magari da donne che sanno capire quando il loro desiderio è diverso da quello dell’uomo e sentono della realtà del proprio corpo una conoscenza personale indisponibile a chiunque pagando o meno voglia interpretarla per noi. Che si chiami pure amore, ma di certo è un amore differente dal nostro. Dobbiamo capire qual è il nostro! Per noi soprattutto e poi per chi generiamo. Nessuna di noi è una ideologica portatrice, anche se pagata, e chi ha partorito lo sa!

Clelia Mori

(Via Dogana 3, 21 marzo 2016)

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