19 Febbraio 2016
Le Monde diplomatique

Le iraniane non depongono le armi.

Aperture dopo le sanzioni.

di Florence Beaugé

 

 

Il rispetto da parte dell’Iran dell’accordo sulla non proliferazione nucleare comporta la progressiva rimozione delle sanzioni internazionali. L’apertura del mercato e le sue ripercussioni politiche influiranno sulle elezioni legislative previste per la fine di febbraio. Le donne, attente al cambiamento, occupano un posto crescente nella Repubblica islamica e prendono le misure per la strada che ancora resta da percorrere.

 

Un gruppo di ragazze adolescenti entra ridendo nel vagone e si siede allegramente in terra, non trovando sedili liberi.

A ogni sobbalzo del convoglio, i veli scivolano sulle loro spalle, scoprendo i capelli. Poco importa: qui ci sono solo passeggere. Nella metro di Teheran, inaugurata alla fine degli anni 1990, le vetture di testa e di coda sono riservate alle donne. Ci salgono «per stare tranquille», dicono. L’atmosfera è distesa. Gli altri vagoni sono misti. Le giovani coppie si tengono per mano senza problema.

Moderna e pulita, la metro di Teheran permette di sfuggire al traffico e all’inquinamento. Per ora, sono attive cinque linee. Le stazioni che si susseguono portano il nome dei «martiri» della guerra contro l’Iraq (1980-1988). È da ventisette anni che il conflitto, responsabile di almeno mezzo milione di morti, si è concluso, eppure il potere non ha mai smesso di tener viva la sua memoria.

 

La metro rispecchia le contraddizioni della Repubblica islamica. Abiti eleganti, dai colori accesi, si alternano ad altri anonimi e lisi. In media, per ogni cinque chador neri e rigorosi – l’abbigliamento previsto per le dipendenti statali – si incontrano due veli colorati. E poi, scene inattese di venditrici ambulanti che propongono reggiseni, mutandine, borse…

 

A trentasei anni dalla rivoluzione islamica, nonostante una legislazione che ne limita i diritti rispetto agli uomini, in Iran le donne hanno un ruolo fondamentale. Si sono ricavate un posto in tutti i settori, anche se la maggior parte dei ruoli dirigenziali nell’amministrazione pubblica rimane ancora inaccessibile. In virtù di un hadith (parola di Maometto), la cui autenticità è comunque messa in dubbio, le donne in magistratura hanno incarichi ridotti; le autorità religiose negano loro la possibilità di interpretare i testi sacri, pur accedendo al rango di ayatollah (il più alto grado del clero sciita). Ma possono essere architetti, dirigenti di impresa, ministri… Il Parlamento conta nove deputate (tutte conservatrici), ed è appena stata nominata la prima ambasciatrice: Marzieh Afkham si è insediata a Kuala Lumpur nel novembre 2015. Tuttavia, niente è facile: le donne devono lottare per imporsi. E soprattutto per veder riconosciuti i propri diritti, in un paese in cui le discriminazioni sono a tutti i livelli. Per sposarsi, viaggiare, aprire un conto in banca, ereditare, sono sottoposte a leggi inique e dipendono dal consenso del capo famiglia. Per esempio, una moglie, diversamente dal marito, per divorziare dovrà motivare la propria decisione davanti al giudice e aspettare la sua autorizzazione. I bambini le sono affidati fino all’età di due anni per i maschi e di 7 anni per le femmine. In seguito, è il padre ad averne la custodia, a meno che vi rinunci. La potestà genitoriale spetta al padre, anche se i bambini vivono con la madre. «L’uomo è re nella legge», riassume Azadeh Kian, professoressa di sociologia politica all’università Paris-VIII.

 

La scolarizzazione, conquista della rivoluzione islamica.

 

Le cifre ufficiali sottostimano il lavoro delle donne: solo il 14% di loro avrebbe un impiego. In realtà, considerando anche il lavoro nero e l’agricoltura, le donne con un’attività regolare raggiungerebbero il 20-30%. Non è che un inizio. Il numero di candidate che si affaccia sul mercato del lavoro aumenta molto rapidamente. Nelle università, il 60% degli studenti è rappresentato da giovani donne. «Hanno vinto la battaglia per la laurea triennale e i master. Presto, vinceranno anche quella per il dottorato», prevede l’antropologo Amir Nikpey. Per lui, le iraniane si trovano più o meno nella situazione delle francesi degli anni 1940 o 1950: sono presenti ovunque nello spazio pubblico, me senza un reale potere, salvo alcune eccezioni, e spesso in fondo alla scala economica.

 

Anno dopo anno, conquistano nuovi traguardi. «È il paese che forma il maggior numero di ingegneri», sottolinea Kian, e ricorda come la prima donna ad aver ottenuto, nel 2014, la medaglia Fields (equivalente al premio Nobel per la matematica), sia stata un’iraniana, Maryam Mirzakhani. «Nelle province del sud, soprattutto nel Baluchistan, a prevalenza sunnita [laddove l’ Iran è sciita per il 90%], predomina una cultura araba fortemente machista. Del resto, ci sono numerosi casi di poligamia, mentre nel resto del paese gli iraniani sono monogami. Ma anche lì il ruolo delle donne sta crescendo. È un’evoluzione globale della società», sostiene l’economista Thierry Coville. «Il cambiamento più vistoso in Iran, è la maggiore consapevolezza dell’importanza dell’educazione come mezzo per accedere all’indipendenza», conferma Kian.

 

Spesso si dimentica che la scolarizzazione delle ragazze è senza dubbio la principale conquista della rivoluzione islamica. «Paradossalmente, le famiglie tradizionali hanno accettato proprio perché era la Repubblica islamica! Quando vado nei villaggi sperduti, gli uomini mi dicono: “L’ayatollah Khomeini ha mandato le donne al fronte e le bambine a scuola. Io faccio lo stesso!”», spiega la sociologa delle religioni Sara Shariati, docente all’università di Tehran.

 

Prima conseguenza: le donne si sposano dopo, e soprattutto, fanno in media due bambini, contro i sette dei primi anni della rivoluzione islamica, caratterizzati da una forte propaganda per l’incremento della natalità. Le autorità ricordano a intervalli regolari che 100 milioni di iraniani sarebbero preferibili agli attuali 78 milioni, ma le donne fanno orecchie da mercante.

 

«Anche durante gli anni di Ahmadinejad[i], non abbiamo fatto passi indietro. Abbiamo continuato ad avanzare, come una macchina che proceda a fari spenti nella notte», scherza Shahla Sherkat, direttrice della rivista femminile Zanan e emrooz. La sua pubblicazione ha appena subito una sospensione di sei mesi per aver dedicato un numero a un tema «caldo»: l’unione civile. A Teheran, sarebbero diverse decine di migliaia le coppie che convivono. L’unione civile si differenzia dal «matrimonio temporaneo», concesso dallo sciismo, ma malvisto e poco praticato in Iran. «Nel nostro speciale abbiamo evitato qualsiasi forma di giudizio; non abbiamo affatto incitato alle unioni civili, anzi, ne abbiamo segnalato i rischi», dichiara Sherkat. Tuttavia, i conservatori hanno protestato ed è arrivata la sanzione.

 

Quando la direttrice di Zanan e emrooz è stata invitata a presentarsi di fronte a un giudice, innanzitutto, è stata accusata di essere «femminista» – un’ ingiuria in Iran. A sua difesa, ha dichiarato di volere solo «rappresentare la realtà» della società iraniana. Invano. «Il problema in Iran è che le istituzioni e gli uomini pensano che se rivendichiamo i nostri diritti, trascureremo i nostri ruoli di madri e mogli», afferma sospirando.

 

Art up man è un caffè in voga nel centro di Tehran. La capitale ha numerosi luoghi alla moda in cui i giovani vanno per «svagarsi», come dice una studentessa di giurisprudenza, mostrando la sigaretta che tiene tra le dita. Ragazzi e ragazze discutono attorno ai tavolini, smanettando incessantemente sui loro smartphone. Come sottofondo sonoro, passano le canzoni di Elvis Presley. Yeganeh K., studentessa di microbiologia, rossetto color lampone e unghie smaltate di nero, dichiara apertamente che il regime «non merita fiducia» e che bisogna «cambiare tutto, a cominciare dal nome di “Repubblica islamica”». Il doppio scrutinio del 26 febbraio le suscita solo disprezzo. «Altrove si possono scegliere i rappresentanti. Qui, no. C’è sempre qualcuno che esercita il proprio controllo su tutto e che ci “guida”! Per me, assomigliamo alla Corea del nord!», mugugna.

 

I suoi due amici sussultano. Rahil H., capelli punk, protesta: «Ma niente affatto! Qui, le persone sono libere, nonostante la natura poliziesca del regime. Non abbiamo una completa libertà di parola, né di decidere come vestirci, ma per il resto facciamo quel che vogliamo!» Sorrosh T., con gli occhiali da sole poggiati sul velo per tenerlo fermo, interviene: «Non sono divertenti tutti questi divieti. Ogni volta che esco, i miei genitori mi dicono: “Fai attenzione!” Non che approvino, ma per loro, bisogna tenere conto della società, del sistema». Una cosa più di ogni altra infastidisce la ragazza: «Qui, la gente osserva sempre quello che facciamo».

 

Non è certo la prima preoccupazione delle iraniane. «Ci adeguiamo», dicono le ragazze, convinte che non valga la pena di cacciarsi nei guai per così poco. La disoccupazione, l’inflazione o il test di ingresso all’università, per loro, costituiscono preoccupazioni ben maggiori.

 

Ogni giorno, Yeganeh K. con le sue amiche si diverte a eludere le regole imposte dal potere come se giocasse al gatto e al topo. D’estate, indossa dei sandali che lasciano scoperti i piedi e le caviglie, e soprattutto le sue unghie colorate con smalti accesi, tutte cose severamente proibite. D’inverno, mette un sapport, collant spessi sopra i quali infila una gonna corta. Se a questo aggiunge un paio di stivali alti, rischia di incorrere in gravi richiami da parte della buoncostume che pattuglia le strade e i centri commerciali del nord della capitale, dove alla gioventù dorata piace passeggiare. «Un giorno, sono stata portata al commissariato. Mi hanno fotografata, hanno preso le mie generalità e mi hanno avvisata: “Se nei prossimi due mesi ricominci, ti schediamo!”», racconta, scoppiando a ridere. Sogna di scappare da questa atmosfera soffocante. Alla prima occasione, partirà per l’Europa o per gli Stati uniti.

 

Behnaz Shafie, invece, ha scelto di «rimanere e agire». Piccola, minuta, molto femminile e truccatissima, sotto il suo velo, a 26 anni è la prima donna ad aver ottenuto l’autorizzazione ad andare in moto da professionista. Mentre le donne non sono ammesse negli stadi per assistere alle partite di calcio disputate dagli uomini, lei ha il diritto di allenarsi allo stadio Azadi di Teheran, sulla sua moto da 1000 cm3. «Behnaz affascina il mondo!», era il titolo di un giornale conservatore nell’autunno scorso, al suo ritorno da Milano, dov’era stata invitata a un raduno di motociclisti come ospite d’onore. Ma la giovane donna sa che non c’è niente di scontato. Domani, un religioso conservatore potrebbe esigere che lei smetta di comportarsi come un uomo in ambienti da soli uomini. In attesa che ciò accada, lei «apre la strada alle donne», senza forzare i tempi, rimanendo nella legalità. «E sono fiera di essere iraniana», aggiunge. A Karaj, la periferia di Tehran dove risiede, le capita di girare con la sua moto. Quando gli uomini si accorgono che è una ragazza, suonano il clacson per congratularsi con lei oppure le gridano: «Ritorna alla tua lavatrice!».

 

In questa vigilia elettorale, il clima a Teheran è particolarmente pesante. Ogni sera, o quasi, la Guida suprema compare in televisione per dare le sue consegne. Moniti rivolti alla popolazione perché stia attenta a «non farsi contaminare» dall’occidente. «Evitate il contatto con gli stranieri», consiglia l’ayatollah Ali Khamenei. Dopo l’accordo sul nucleare, si susseguono gli avvertimenti della Guida e dei radicali, a riprova della loro inquietudine di fronte all’idea che, con la rimozione delle sanzioni e la conseguente apertura, la situazione possa scappargli di mano. Qualche mese fa, l’ayatollah Ahmad Jannati, presidente del Consiglio dei guardiani, un puro e duro di 89 anni, avvertiva che l’accordo sul nucleare non doveva aprire la strada ad altre rivendicazioni: «Badate che domani non sia l’ora della questione delle donne e dell’uguaglianza tra i sessi!».

 

Fariba Hachtroudi è tra quante non si lasciano intimidire. «Non lancio provocazioni, ma dico ad alta voce quello che penso», riassume questa nota scrittrice[ii], che ammette ridendo di «avere nel [suo] Dna la follia di questa terra». Divisa tra il suo paese di nascita e la Francia in cui è espatriata nell’adolescenza, ha rinunciato a fare politica e optato per la resistenza della penna. Ogni volta che torna in Iran, constata che le donne hanno guadagnato terreno. «In un villaggio del Baluchistan, il consiglio municipale, interamente maschile, ha appena eletto un sindaco donna. Esempi come questo si trovano ovunque!», esclama.

 

Una società in balia delle apparenze

 

La brutale repressione del «movimento verde», nato in concomitanza con la controversa rielezione del presidente Ahmadinejad, nel 2009, può aver distrutto ogni forma di militanza, come molti pensano? Hachtroudi non è d’accordo. «Le donne sono sempre lì, in prima linea, e continuano a battersi, nonostante le resistenze. Non mollano!», dice, sottolineando che ovunque nascono organizzazioni non governative create da loro. Nella periferia di Tehran, con il benestare del governo, sono sorti luoghi di accoglienza per i bambini di strada e per i malati di aids, o ancora centri di disintossicazione per alcolisti. Una svolta, se si pensa che finora il potere negava l’esistenza dell’aids e dell’alcolismo.

 

Nonostante la lotta delle donne vada avanti, è disorganizzata e, spesso, personale. Le iraniane, troppo prese dalle difficoltà della vita di tutti i giorni, dimenticano spesso la repressione subita dalle figure d’avanguardia della loro battaglia: l’avvocatessa dissidente Nasrin Sotoudeh, la regista Rakhshan Bani-Etemad, entrambe sotto stretta sorveglianza, o ancora la militante per i diritti umani Narges Mohammadi, condannata a otto anni di prigione per «propaganda contro il regime».

 

«Non possiamo spiegare perché non siamo felici, – sospira questa madre e casalinga di 40 anni che chiameremo Farah.- È il clima che non va. Amiamo il nostro paese, ma quel che ci manca, è semplicemente l’aria!» All’università di scienza e tecnologia Elmo Sanat, dove studia suo figlio, ogni giorno gli altoparlanti scandiscono versetti del Corano e consegne moralizzatrici. Agli studenti spettano diverse settimane di commemorazione: c’è la settimana della guerra, la settimana dei basiji, la settimana dei «martiri»… «È un lavaggio del cervello! Siamo stufi», inveisce Farah.

 

[…]

 

 

Farah, madre e casalinga, che si professa atea, è preoccupata di quella che lei chiama una «religiosità di facciata». Il segno sulla fronte degli uomini che si prosternano al suolo, in alcuni casi procurato artificialmente per apparire pii, il rosario tenuto ostensibilmente tra le mani, tutto questo è esasperante. «Siamo una società malata, in cui dominano apparenze e ipocrisia. Non so dove ci porterà».

 

Una conferma paradossale del suo pessimismo viene dallo straordinario numero di interventi di chirurgia estetica a cui si sottopongono le iraniane. Il naso, la bocca, gli zigomi, le arcate sopraccigliari… Come regalo per il diploma, una diciottenne riceverà dai suoi genitori una rinoplastica. A Tehran, nasini alla francese, visi da Barbie, esageratamente truccati, spuntano da sotto i veli. In alcuni casi, un mix disastroso. Da dove arriva questo fenomeno, esploso negli ultimi cinque o sei anni ed esteso a tutte le classi sociali? Nessuno se lo spiega veramente. Forse è l’ossessione delle donne per il loro viso, dal momento che si proibisce loro di mostrare il corpo e i capelli?

 

«Che l’immagine del paese sia riabilitata»

 

[…]

Nonostante il ritorno dell’Iran sulla scena internazionale la entusiasmi, Sanaz Minai si aspetta altro: «Che l’immagine dell’Iran sia riabilitata. Che il suo valore perduto sia finalmente restaurato». Jeans, tacchi alti e foulard leggero, è un esempio di successo. Ha scritto più di venti libri sulla cucina e la cultura iraniane, lanciato una scuola sull’arte del ricevimento, il Culinary club, e fondato SanazSania, primo per copie vendute tra le riviste di cucina. La rimozione delle sanzioni le apre prospettive infinite. Vuole fare dell’ Iran «un polo culinario», che sia anche «alla moda e chic!».

 

Niente sembra poter fermare un’altra imprenditrice di successo: Faranak Askari. Nel giugno 2013, la giovane donna era a Londra, città in cui è cresciuta, quando ha sentito l’appello del nuovo presidente Hassan Rohani: «Venite in Iran!» Due mesi dopo, sbarcava a Teheran e lanciava Toiran («To Iran»), una società di servizi per turisti Vip e uomini d’affari. Parallelamente, ha realizzato un sito Internet per offrire tutte le informazioni possibili su una cinquantina di città iraniane – una sorta di Guide routard in linea. Successo immediato.

 

Dopo l’accordo del 14 luglio 2015, le prenotazioni di Toiran sono raddoppiate di mese in mese. La clientela è prevalentemente europea. La priorità di Askari è che le transazioni bancarie tra l’ Iran e i paesi stranieri, proibite negli ultimi anni per via delle sanzioni occidentali, vengano ripristinate. Toiran, come molte altre imprese iraniane, ha tutti i fondi bloccati a Dubai. «Manca la liquidità. Per cavarcela, siamo ridotti a ricorrere al baratto! Ma non può durare: abbiamo bisogno di accedere ai fondi, di investire. . . ».

 

«La minaccia maggiore per il regime»

 

Conosciuta per la sua franchezza, Shahindokht Molaverdi il giorno del nostro incontro si attiene a un politichese stretto. Bisogna dire che per lei il contesto è difficile. Nominata dal presidente Rohani, due anni fa, alla vicepresidenza della Repubblica con delega ai diritti delle donne e alla famiglia, questa giurista di una quarantina di anni non abbassa la guardia. «C’è bisogno di un numero maggiore di donne nelle assemblee», dice. Oppure, «Dobbiamo far entrare le donne in tutte le sfere del potere». Non si sbilancia oltre. Possiamo capire: vista la vicinanza delle elezioni del 26 febbraio, la prossima rimozione delle sanzioni e la crisi aperta con l’Arabia saudita, deve contenersi. Perché è considerata vicina ai riformatori e femminista; gli ultraconservatori la odiano. A uno dei loro giornali, Yalasarat, sono state sospese le pubblicazioni all’inizio di gennaio. Per mesi, questa testata radicale non ha smesso di insultare Molaverdi, accusandola soprattutto di essere lassista riguardo all’abbigliamento delle donne e di essere vicina ai «dissidenti» (un insulto che equivale a quello di «prostituta»).

 

Le donne sono la grande scommessa dell’ Iran? Senza alcun dubbio. «Il regime ha paura di loro. Rappresentano la minaccia maggiore, assicura un universitario che ha chiesto di restare anonimo. Non sa da dove cominciare con loro, come combatterle, per evitare che continuino ad aprire nuove brecce. . . » E la questione del velo, nonostante la sua relativa importanza, è un simbolo. Come dicono le teologhe di Qom, «se cediamo su questo, cediamo anche sul resto»…

(Traduzione di Alice Campetti)

[i] Mahmud Ahmadinejad, presidente della Repubblica islamica dal 2005 al 201 3, conservatore.

[ii] Autrice di Iran, les rives du sang (Seuil, Parigi, 2001 ) e di A mon retour d’Iran (Seuil, 2008).


(Le Monde diplomatique, 19 febbraio 2016)

Print Friendly, PDF & Email