9 Settembre 2014
Il Manifesto

Le relazioni che rendono giustizia al mondo. Un’anticipazione da «L’Europa di Simone Weil», nuovo numero della rivista femminista milanese Via Dogana

di Maria Concetta Sala


L’odierna babele sociale, i drammi e le tra­ge­die nei nostri mari e nelle nostre case, i reboanti bol­let­tini di cro­naca e di poli­tica interna, euro­pea e inter­na­zio­nale squas­sano cuore e mente con il risul­tato di acuire le lace­ra­zioni del vivere e offu­scare la per­ce­zione del pre­sente, sic­ché allo smar­ri­mento inte­riore e al disor­dine esterno si rea­gi­sce ora con la lamen­tela ora con la con­ci­ta­zione volta a sanare tutti i mali del mondo ora con un tor­pore al limite del cini­smo o con un’apatia deva­stante. (…) In simili fran­genti, mi pare di com­pren­dere il «sen­ti­mento di col­lera e di ver­go­gna» che assalì nel 1931 Simone Weil nei con­fronti del suo Paese durante la visita dell’Esposizione colo­niale di Parigi e di cui rife­ri­sce non solo negli scritti sulla que­stione colo­niale ma anche nelle rifles­sioni di Lon­dra volte a ride­fi­nire la rior­ga­niz­za­zione politico-istituzionale della Fran­cia nell’Europa post­bel­lica e a pen­sare una civiltà che metta al cen­tro l’umano.
Per chiun­que desi­deri orien­tarsi nel sub­bu­glio odierno la sua opera può essere una guida e una bus­sola ma solo se ci si pre­di­spone all’apprendimento di una nuova lin­gua «capace di cogliere pen­sieri ine­spri­mi­bili» e all’addestramento a un’arte della poli­tica pro­dut­trice di cam­bia­menti non fit­tizi nel modo di abi­tare e con­di­vi­dere il mondo.
La fre­quen­ta­zione e l’interrogazione dei suoi scritti impon­gono un ripen­sa­mento radi­cale della con­di­zione umana e della que­stione sociale a par­tire da sé, e que­sto ripen­sa­mento nella vicenda di vita e di pen­siero di molte donne e uomini, com­presa la mia, inter­seca da più decenni la pra­tica poli­tica delle rela­zioni legata all’avvento della libertà fem­mi­nile. Non per caso richiamo dun­que il titolo del volume del 1987 della Libre­ria delle donne di Milano, Non cre­dere di avere dei diritti, che riprende un’annotazione di Weil del 1941: «Non cre­dere di avere dei diritti. Cioè, non offu­scare o defor­mare la giu­sti­zia, ma non cre­dere che ci si possa legit­ti­ma­mente aspet­tare che le cose avven­gano in maniera con­forme alla giu­sti­zia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giu­sti. (…) Biso­gna sem­pre aspet­tarsi che le cose avven­gano con­for­me­mente alla gra­vità, salvo inter­vento del sopran­na­tu­rale. Biso­gna essere rico­no­scenti se si viene trat­tati con giu­sti­zia. Inver­sa­mente, non biso­gna mai cer­care di fare al pros­simo altro bene che trat­tarlo con giu­sti­zia».
Que­ste parole ribal­tano il modo comune di pen­sare e di ope­rare fon­dato sulla asso­lu­tiz­za­zione della per­sona e dei diritti che sfo­cia ine­vi­ta­bil­mente nel con­ta­gio della ver­ti­gine indi­vi­duale e col­let­tiva – que­stione messa a fuoco nello scritto La per­sona e il sacro (1943); esse sot­trag­gono ter­reno alla pre­sun­zione di quanti si arro­gano il vanto di poter appa­gare l’anelito di giu­sti­zia di chic­ches­sia facendo appello a riven­di­ca­zioni che hanno il difetto di essere illi­mi­ta­bili. Anche se il mondo umano è gover­nato da quella stessa forza bruta indif­fe­rente al bene che governa l’ordine natu­rale, esso è l’unico stru­mento del bene a nostra dispo­si­zione (…).
Que­sta aspi­ra­zione è un atto d’amore per­ché com­porta la rinun­cia a occu­pare il cen­tro del mondo e a eser­ci­tare il potere di cui si dispone; è un atto libero al quale si ade­ri­sce con la facoltà del libero con­senso, ma è un atto che si com­pie solo in fedeltà alla pro­pria «voca­zione sopran­na­tu­rale» per­ché implica lo sma­sche­ra­mento di ogni illu­sione legata alla per­sona e al pre­sti­gio sociale e l’uscita dalla pri­gione dell’io (…).
Quanto alla cono­scenza del sociale, la società è per Weil un grosso ani­male potente, e i nostri gusti e avver­sioni riflet­tono ciò che alla bestia piace o non piace: giu­di­chiamo belle e giu­ste le cose neces­sa­rie per­ché non sap­piamo vedere né mostrare a noi stessi e agli altri la netta sepa­ra­zione tra essenza del neces­sa­rio e essenza del bene, dato che dipen­diamo dal pre­sti­gio sociale che è pura illu­sione. Sol­tanto l’esperienza della costri­zione bru­tale e quo­ti­diana, come quella da lei vis­suta in fab­brica, o l’esperienza della guerra, nel suo caso in Spa­gna, o l’esperienza dello sra­di­ca­mento estremo dovuto all’ingiustizia e alla degra­da­zione sociale ci induce a rico­no­scere che tutto ciò che si ha nell’anima – pen­sieri, sen­ti­menti, il senso della pro­pria dignità – è al pari di un’onda nel mare in balìa delle cir­co­stanze. D’altra parte, un ordine sociale, ben­ché «essen­zial­mente cat­tivo» in quanto domi­nio della forza, è neces­sa­rio; ebbene, in que­sto mondo l’imperio della forza non è illi­mi­tato, essa trova il suo limite invi­si­bile nella giu­sti­zia, che è «la pro­messa visi­bile e pal­pa­bile su que­sta terra, il fon­da­mento certo della spe­ranza», «la sovra­nità della sovra­nità» (La prima radice, 1943). Essa si invera ogni volta che «un forte e un debole ammet­tono con tutta l’anima che è meglio non coman­dare ovun­que se ne abbia il potere» (Forme dell’amore impli­cito di Dio).
La giu­sti­zia non è di que­sto mondo ma qui e ora a ogni essere umano è data la libertà di non ade­rire all’apparenza di giu­sti­zia, la giu­sti­zia men­zo­gnera, e di trat­tare l’essere diverso da sé con giu­sti­zia, vale a dire anzi­tutto non far­gli del male, bat­tersi per­ché si ponga cura e rime­dio a tutte le ferite, pri­va­zioni e offese suscet­ti­bili di distrug­gerne o muti­larne la vita ter­re­stre e si prov­veda al sod­di­sfa­ci­mento dei biso­gni ter­re­stri del suo corpo e della sua anima (Stu­dio per una dichia­ra­zione degli obbli­ghi verso l’essere umano, 1943). Inol­tre, e non secon­da­ria­mente, trat­tarlo con giu­sti­zia equi­vale a sapersi tenere alla giu­sta distanza, non assi­mi­larlo né addo­me­sti­carlo, rispet­tarne il libero con­senso – essen­ziale all’amore per­ché non si tra­sformi in stu­pro, e essen­ziale all’obbedienza per­ché non si tra­sformi in oppres­sione (Lot­tiamo per la giu­sti­zia?, 1943).
Que­sta auten­tica aper­tura alla dif­fe­renza per­mette di udire il grido muto emesso dalla parte imper­so­nale di ogni crea­tura ter­re­stre «Per­ché mi viene fatto del male?» cui abbiamo l’obbligo incon­di­zio­nato di rispon­dere con il calore, la com­pren­sione, l’accoglienza in un ambiente vitale, con una poli­tica fon­data sull’amore per la vita nella sua fra­gi­lità e nella sua vul­ne­ra­bi­lità. Essa è un’energia tra­scen­dente che si con­verte in azione e in un muta­mento reale che si irra­dia nel mondo. I suoi frutti, attesi ma non desi­de­rati, sono ana­lo­ghi ai doni che rice­viamo in uno sprazzo di com­pas­sione o di gra­ti­tu­dine, nella con­tem­pla­zione dell’aurora, in un lampo di genio, nella reci­ta­zione di una pre­ghiera o di una poe­sia amata, in ogni sosta dalla distra­zione e dalla dissipazione.

 

da il Manifesto 9.09.2014

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