26 Agosto 2015
il manifesto

Le relazioni, questione centrale

di Bia Sarasini

Quali erano i pen­sieri, le idee, i sogni di Paola, brac­ciante morta di fatica – cioè di lavoro secondo la lin­gua del sud – tra le vigne di Trani? E cosa pen­sano, desi­de­rano, sognano i dipen­denti Ikea che fanno scio­peri ine­diti in tutta Ita­lia, con la soli­da­rietà dei clienti? Cosa c’è nella loro mente? C’è l’idea di un mondo dove ci sia più giu­sti­zia? Col­ti­vano con­crete spe­ranze di poter cam­biare le loro con­di­zioni di vita? Su chi fanno affi­da­mento? Natu­ral­mente oltre i sindacati?
Rischio volu­ta­mente la reto­rica, nell’accostare l’arcaico capo­ra­lato e la moderna pre­ca­rietà mul­ti­forme, espe­rienze con­tem­po­ra­nee di cui gli esempi si potreb­bero mol­ti­pli­care, tutti accu­mu­nati da un sala­rio ora­rio inde­cente, o sem­pre più basso. La reto­rica spa­ri­sce se rove­scio la domanda: la sini­stra ha in mente Angela, i suoi com­pa­gni di lavoro, o i dipen­denti dell’Ikea? Pensa, la sini­stra, imma­gina, pro­getta come affron­tare, risol­vere i pro­blemi della vita di que­ste per­sone? Il modo per pro­teg­gerle dalla fero­cia del capi­ta­li­smo neo-liberista? Strade per­cor­ri­bili, anche audaci, con­flit­tuali, peri­gliose, e per­ché no, rivol­tose, ma che per­met­tano di intra­ve­dere modi diversi di vivere?
La rispo­sta è bru­tale: no, da molto tempo que­sto non avviene. E que­sto è il nodo cru­ciale del dibat­tito aperto da Norma Ran­geri e dal mani­fe­sto: l’incontro man­cato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in con­di­zioni di vita sem­pre più dura, — chi non rie­sce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è pre­ca­rio, pre­cari della cono­scenza che man­ten­gono con il loro lavoro semi­gra­tuito uni­ver­sità, cen­tri di ricerca e sistemi di infor­ma­zione – se ci sono, desi­deri e spe­ranze, dif­fi­cil­mente si chia­mano “sini­stra”. E dall’altra parte i pro­getti di chi dovrebbe aprire lo spa­zio di ela­bo­ra­zione e di pra­ti­che poli­ti­che che a quelle menti pos­sano par­lare, dare respiro e speranza.
Non inte­ressa, qui, fare l’analisi delle respon­sa­bi­lità. Fer­marsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi cri­mi­nale. Non c’è vita, nella recri­mi­na­zione e nel ran­core. E lo dico da fem­mi­ni­sta quale sono, sem­pre più sgo­menta nel con­sta­tare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini– di rico­no­scere il peso, l’influenza, l’acutezza della cri­tica fem­mi­ni­sta alla loro poli­tica, e che inca­paci come sono di acco­glierla espli­ci­ta­mente pro­ce­dono come se nulla fosse suc­cesso. Certa che que­sto muro di silen­zio sia parte del pro­blema, della dif­fi­coltà di met­tere a fuoco visioni ampie, inclu­sive, e nello stesso tempo con­vinta che anche il fem­mi­ni­smo sia impli­cato, nel vuoto che ci affligge.
Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fis­sate troppo sull’obiettivo pari­ta­rio, così facil­mente fatto pro­prio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occi­dente, alla libertà fem­mi­nile, avesse spinto a chiu­dere gli occhi su quanto avviene. Come se per esem­pio il feroce aumento della dise­gua­glianza eco­no­mica non riguar­dasse le donne. Che ne sono le prime vit­time, sotto mol­te­plici aspetti, dallo sfrut­ta­mento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo fem­mi­nile, della ripro­du­zione. Anche da parte di altre donne.
Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione effi­cace, aiuta a pren­dere coscienza della pesan­tezza delle con­di­zioni di vita, o a recu­pe­rare forme di auto-organizzazione come il mutua­li­smo, rico­struen­done il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica con­tem­po­ra­nea del “Quarto Stato” di Pelizza da Vol­pedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in brac­cio, die­tro e di lato a un uomo, a uomini che com­bat­tono in prima fila. Dove sareb­bero le donne? E gli stessi uomini? E i bam­bini? E que­sti, di chi sareb­bero figli?
Non sono det­ta­gli fuor­vianti. Come non capire che que­sto qua­dro mutato e mutante è parte essen­ziale di ciò che va pen­sato, anche nel met­tere a fuoco nuovo forme orga­niz­za­tive? Che il nodo delle rela­zioni non è una que­stione paral­lela, ma cen­trale? Sia nella valo­riz­za­zione di poteri alter­na­tivi sia nel creare coe­sione, per reg­gere lo scon­tro vio­lento. Per­ché sono l’oggetto dei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione in corso ad opera di un capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta che nella vita entra senza rite­gno, e la rimo­della a pro­prio piacimento.
Esat­ta­mente come agi­sce per la ride­fi­ni­zione– distru­zione di demo­cra­zia. Nel qua­dro delle isti­tu­zioni, euro­pee e non solo. Fanno parte di un unico dise­gno di comando che va combattuto.
Di que­sto si dovrebbe par­lare, se si parla di vita a sini­stra. Se si vuole entrare nella brec­cia che Ale­xis Tsi­pras con grande luci­dità poli­tica con­ti­nua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calen­da­rio di impe­gni tra movi­menti e orga­niz­za­zioni fino a novem­bre, che il gesto del dirsi “siamo qui, par­tiamo”, sia rapido, veloce, quasi non­cu­rante. Come chi sa che non c’è nulla da esal­tare, in effetti. Che orga­niz­zarsi non è occu­parsi di sé. L’urgenza è met­tersi in grado di aprire spazi e pen­sieri, libe­rare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.

 

(il manifesto, 26 agosto 2015)

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