28 Febbraio 2013
il manifesto

Leggendo Hessel

di Luciana Castellina

Il testo è tratto dal libro di Luciana Castellina, «Indignazione e altri sentimenti civili», Aliberti editore, 2011

È straordinario: il messaggio chiuso nella bottiglia di una piccolissima casa editrice della provincia francese ha prodotto una reazione a catena che nessun altro discorso politico aveva suscitato.

Oltralpe, delle trenta paginette di Indignez vous ne è stato venduto quasi un milione di copie mentre in altri paesi di quell’appello è giunta una grande eco che poi, forse senza un rapporto diretto, si è estesa al di là del Mediterraneo: perché è coincisa con la catena di ribellioni che ha scosso l’intero mondo arabo. Quasi che il vecchio partigiano Stéphane Hessel, coautore della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, avesse capito che il momento era maturo perché la gente tornasse finalmente a indignarsi per lo stato del mondo.

Così ha dato una scossa a tutte e tutti e ci ha costretto a tornare a riflettere. Perché non è vero che l’indignazione esclude la ragione, ma è vero il contrario: se non ci si indigna prevale il sonno della ragione (e si producono mostri). Qualcuno ha storto il naso: «Indignarsi è un’espressione solo morale». Scusate se è poco: se non ci fosse anche una rivolta etica non si sarebbero fatte le grandi rivoluzioni.

Leggendo Hessel ho ripensato anche io alle mie indignazioni per vedere cosa avevano prodotto nella corso della mia vita e cosa dovrebbero ancora produrre. La prima volta che mi sono indignata – ricordo – dovevo avere 5 o 6 anni: mi avevano detto che no, non avrei potuto fare il facchino, il mestiere che sceglievo quando, come a tutti i bambini, mi veniva chiesto cosa avrei voluto fare da grande. Portare i bagagli – allora le valigie con le rotelle non c’erano – mi avrebbe consentito di restare sempre nell’atmosfera che più mi emozionava: quella eccitante della stazione, con i treni in partenza, il miraggio dell’avventura, la prospettiva fantastica del viaggio. No, non avrei potuto realizzare il mio sogno – mi dissero – perché ero femmina. Debole.

Ho reagito nel modo peggiore perché all’indignazione suscitata dalla scoperta della discriminazione di genere non ho fatto seguire la ribellione. Per molti anni ho patito cercando di somigliare il più possibile a un uomo e relegando il mio essere femmina alla clandestinità. Solo tardi, grazie al femminismo, ho scoperto che, anche se non mi consentiva di fare il facchino, il mio genere non era una menomazione, un disvalore, bensì una differenza.

Così ho smesso di dissimulare e di rassegnarmi al misero obiettivo della cosiddetta parità fra maschi e femmine – fondato sulla mistificazione secondo cui esisterebbero esseri neutri (in realtà disegnati sul modello maschile) – e ho cominciato a battermi per dar valore all’essere donna. Ecco. L’indignazione è sempre la premessa, ma occorre un seguito: la ribellione.

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