15 Maggio 2015
27esimaora.corriere.it

Luisa Muraro. In amore si combatte per essere sconfitti. Se vien meno la tensione non c’è libertà

di Giovanna Pezzuoli

 

L’amore è una cosa esagerata. È una lotta in cui non bisogna arrendersi, ma combattere fino all’esaurimento delle forze: solo allora i valorosi combattenti meritano il premio, che è di essere sconfitti! Così vince l’amore vero, reale, non l’inganno, non l’egoismo, non l’ideale. Rintraccia una pista di mille anni fa la filosofa Luisa Muraro che risuscita una misteriosa allegoria (la lotta di Giacobbe con l’angelo-Dio interpretata dalla mistica fiamminga Hadewijch) come chiave per sottrarsi all’amore fondato sul dominio e sulla sottomissione. Amare vuole dire stare nella realtà senza soggiacere al desiderio altrui, significa tenere sempre viva la tensione fra sé e l’altro, superando la complementarietà e la polarizzazione. Il discorso è filosofico, difficile, vola da Dante allo psicoanalista Donald Winnicott, dalla teologa Margherita Porete alla scrittrice brasiliana Clarice Lispector, dalle “streghe” milanesi Sibilla Zanni e Perina Bugatis al film d’animazione Galline in fuga, ma alla Libreria delle donne, dove si è svolta la lezione di Luisa Muraro, l’attenzione è alle stelle.

 

E sembra che quasi tutte le donne presenti stiano ripercorrendo i propri amori, per gli uomini perlopiù, ma forse anche per amiche, genitori, magari per Dio. Come si intuisce dal dibattito che segue dove, tra le altre, Laura Giordano, giovane animatrice del sito della Libreria, racconta le sue difficoltà nelle relazioni, ricevendo un’illuminate battuta da Luisa: «Se non riesci a tenere testa agli uomini, non li ami!».

Dalla filosofia alla realtà delle intricate relazioni che tutte/i viviamo nel presente e di cui si discuterà più diffusamente martedì 19 (a Milano, alla Libreria di via Pietro Calvi 29, ore 18), sempre per il ciclo di incontri Cibo dell’anima cibo del corpo, ideato da Estia (alias Ida Faré, Rossella Bertolazzi e Sandra Bonfiglioli, artefici di uno squisito buffet).

 

Per affrontare il tema dell’amore, per lei un po’ insolito («io non ne so molto, in fondo!») Luisa Muraro, tra le madri del femminismo italiano, parte dagli ultimi versi del Paradiso dantesco: «All’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,/ sì come rota ch’igualmente è mossa,/ l’amor che move il sole e l’altre stelle».

 

«Per Dante – osserva – l’amore che faceva ruotare il sole e le stelle muoveva anche la sua volontà: nell’ordine simbolico del poeta c’è un’assolta rispondenza tra l’intimo (il sé) e l’esteriore, il dentro e il fuori. Ma noi non possiamo accettare quell’amore divino dove non c’è scissione: come scrive la psicoanalista Jessica Benjamin in “Legami d’amore” abbiamo capito che le radici del dominio, che può nascere dal cuore stesso dell’amore, affondano nel venire meno della tensione fra sé e l’altro. La tensione tiene svegli, attiva la soggettività nella relazione e impedisce che i due generi sessuali vengano polarizzati, uno buono, l’altro cattivo, come accadeva a Dante con Beatrice. Questa pacificazione nell’ideale di Dante dove tutto è armonioso non assicura né la libertà (femminile), né l’amore».

La teologa beghina Margherita Porete, che aveva capito la fragilità della visione d’amore dantesca, viene bruciata sul rogo a Parigi nel 1310, mentre Dante è ancora in vita, condannata per il suo libro «Lo specchio delle anime semplici». Comincia così in Europa la caccia alle streghe che continuerà per tre secoli, streghe che non causalmente incontriamo in Shakespeare, ma non in Dante, cioè non tanto nel Medioevo, quanto nel cammino verso la modernità. Un’idea che forse ci ripugna. E Luisa Muraro, ripercorrendo la persecuzione che ha colpito più donne che uomini, ricorda Sibilla Zanni e Pierina Bugatis, condannate al rogo a Milano, in piazza Sant’Eustorgio, nel 1390. Quel processo segna uno spartiacque perché da allora si diffonde l’idea dell’influenza nefasta del Maligno che durerà fino all’Illuminismo. Ma, secondo la filosofa, che si definisce un po’ scherzosamente «anti-modernista come Leopardi», anche nella visione moderna la politica non si è emancipata dal «fare capo all’Uno». Che ora non è più Dio ma è lo Stato. Così anche l’amore diventa un rapporto di complementarietà che si trasforma nell’Uno. E chi ci perde nella sbandierata «unità» della famiglia è il più debole, cioè la donna.

 

Ma ecco arrivare il cambiamento. Sostiene Luisa Muraro: «A un certo punto ci siamo ribellate. Con un gesto polemico, come nel film Galline in fuga, le donne dei gruppi, dei partiti, della sinistra hanno scelto la separazione. Ora non dico che si debba rifarlo ma sicuramente questa decisione ha sprigionata molta libertà femminile».

 

Tra le sue scoperte, che si ricollegano al pensiero sull’amore di Margherita Porete, Luisa cita due voci, quella dello psicoanalista inglese Donald Winnicott e quella della scrittrice brasiliana Clarice Lispector. E proprio sull’idea dell’«uso di un oggetto» di Winnicott fa leva Jessica Benjamin per impedire che il legame d’amore generi un rapporto di sottomissione. Entrambi vogliono disfare la concezione altruistica e idealistica dell’amore, partendo dal sé bisognoso e voglioso, insicuro e prepotente (il bimbo piccolo). Solo il combattimento (che non è mai violenza) rende possibile l’amore vero, impedendo che tutto finisca nell’Uno, anche se quell’Uno è Dio, come appare nell’itinerario mistico-laico della «Passione secondo G.H.» di Clarice Lispector.

 

Secondo Winnicott per usare l’oggetto (materno) il soggetto deve prima tentare di distruggerlo, lo fa esistere proprio perché distrugge le sue fantasie sull’oggetto. E se c’è amore reale questo combattimento continua nell’inconscio, legato al desiderio di trionfo e di onnipotenza. È la stessa lotta per il riconoscimento di sé da parte dell’altro che ritroviamo nella dialettica hegeliana servo/padrone. Lotta che Carla Lonzi in «Sputiamo su Hegel» rifiutò di identificare con la rivolta femminile, altrimenti tutto finirebbe ancora una volta nella complementarietà.

Dice Luisa Muraro: «Io ho sempre sostenuto che fra due che si amano c’è una parziale complementarietà, un andare e venire verso l’altro, ma mai un destino, una polarizzazione – lui nero, lei bianca, lui difende la casa, lei la tiene pulita – foriera di grossi guai e costrizioni. E spesso dell’auto-annientamento femminile».

Se l’amore è un combattimento in cui non cessa mai una punta di ostilità verso l’altro, è vero che nel cercare di far fuori l’altro viene distrutta l’illusoria onnipotenza del sé.

 

Nella non facile comprensione di questi temi ci soccorre la definizione di amore della scrittrice dublinese Iris Murdoch. Per lei amare significa capire che qualcosa di altro da sé è reale. Amore è scoperta della realtà, l’amore non è fatto per la felicità ma per la realtà. Se l’io è fisso, rigido, escludente, la realtà viene rimpicciolita. E la filosofa critica le lamentele della società femminile per il mancato riconoscimento, ovvero quelle che si arrendono per non vedersi sconfitte, mentre la chiave è non arretrare davanti alla paura dello scacco.

 

«Nella lotta fra sé e l’altro accade qualcosa che è decisivo per l’amore reale – prosegue Luisa Muraro –. Ne parla la mistica fiamminga Hadewijch che è vissuta prima di Dante e non segue la schiera di chi riduce tutto all’Uno. Racconta l’episodio di Giacobbe aggredito da uno strano uomo che sembra un angelo ed è Dio. Alla fine della lotta che dura fino all’alba, Giacobbe azzoppato chiede: dammi la tua benedizione e un nome nuovo. Giacobbe si è guadagnato di essere sconfitto. L’amore sperimenta la sua impotenza ma con la benedizione ottiene il riconoscimento. Amare è rendersi conto di non essere all’altezza ma starci lo stesso».

 

(27esimaora.corriere.it,15 maggio 2015)

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