12 Agosto 2017
il manifesto

Mai Masri, la resistenza al femminile

Interviste. La regista palestinese racconta il suo primo film di finzione «3000 Nights»
di Giovanna Branca
Nel cuore della notte, a Nablus, la polizia irrompe a casa di Layal (Maisa Abd Elhadi) e la arresta: l’accusa è di aver nascosto nella sua macchina un ragazzo sospettato di un attentato terroristico. Siamo a Nablus nei primi anni Ottanta, e per scampare alla prigione Layal – una maestra sposatasi da poco – deve mentire in tribunale e dire che ha accolto il ragazzo nella sua macchina perché minacciata. La protagonista di 3000 Nights (che ha debuttato a Toronto nel 2015 ma è arrivato in Italia solo di recente) della regista palestinese Mai Masri non è coinvolta nella lotta politica, ma davanti ai giudici israeliani risponde all’appello della sua coscienza invece che alla paura, e si rifiuta di mentire. Le «3000 notti» del titolo sono, quindi, quelle che passerà in un carcere israeliano – «abbiamo girato in una vera prigione, che conferisce un maggiore realismo alle immagini», dice Mai Masri – dove scopre anche di essere incinta, e contro i consigli della sua famiglia tiene il bambino che cresce dietro le sbarre insieme a lei e alle sue compagne di cella, tutte prigioniere politiche.
Sono gli anni del massacro di Sabra e Shatila, la cui notizia irrompe nel carcere portando rabbia e disperazione, e completando tragicamente la presa di coscienza di Layal che, nelle sue compagne, aveva cominciato a scoprire la dedizione alla lotta politica per la causa palestinese. La sua è infatti una storia di prigionia ma soprattutto di formazione, sia individuale che politica. Entrata in prigione da timida maestra, Layal scopre proprio in quelle celle la sua forza e determinazione, che incute rispetto perfino nelle guardie e le detenute israeliane – interpretate anche loro da attrici palestinesi. «Alcune sono state in prigione – spiega la regista – e quindi hanno potuto contribuire con la loro esperienza diretta. La maggior parte ha comunque parenti e amici in carcere, o che ci sono stati in passato, e prima di girare hanno incontrato alcune delle ex carcerate che avevo intervistato durante la ricerca per il film. Volevo restare il più possibile fedele alla memoria e alla Storia».
«3000 Nights» è ambientato in un momento preciso della storia palestinese…È così?
Il film è basato sulla vera storia di una donna che ho conosciuto durante la prima intifada, che ha avuto un figlio in una prigione israeliana. Ci sono molti eventi risalenti a quel periodo che pensavo fosse importante raccontare. Il movimento dei prigionieri per esempio, che con i suoi scioperi della fame ha ottenuto delle grandi conquiste, come un importante scambio di prigionieri: 5000 detenuti palestinesi e libanesi in cambio di sei soldati israeliani. Pur facendo un lavoro di finzione volevo essere il più possibile fedele ai fatti, quindi era importante che il film venisse collocato nella giusta epoca storica. Penso che
3000 Nights parli in qualche modo anche di oggi, ma ci sono molti elementi specifici di quei tempi. Come il fatto che i prigionieri politici palestinesi fossero tenuti nelle stesse carceri riservate ai criminali «comuni» israeliani. Un altro motivo per cui ho voluto ambientare il film durante gli anni ’80 è che rappresenta la cronaca di una storia non scritta – come gran parte della Storia palestinese – e in questo modo custodisce la memoria di un passato di cui non esiste una narrazione ufficiale.
Come ha lavorato alla ricerca per il film?
La storia della donna che aveva partorito in prigione mi ha molto colpita, così ho iniziato a intervistare altre ex detenute, tra le quali c’erano anche altre donne che avevano avuto dei figli in carcere. E anche i personaggi israeliani sono basati su persone reali. La mia formazione come documentarista ha poi definito il modo in cui mi sono rapportata alla storia: sentivo di dover essere fedele alla realtà, non volevo incorrere in degli stereotipi o rappresentazioni manichee. Ho anche vissuto personalmente alcuni degli eventi che racconto, come quello relativo a Sabra e Shatila: parte del materiale d’archivio che si vede nel film l’ho girato personalmente negli anni ’80. Sono eventi di cui ho esperienza diretta, e inoltre la prigione è una metafora della vita di qualunque palestinese, che sia stato in carcere o meno.
La storia è raccontata interamente da una prospettiva femminile.
Pensavo che fosse importante concentrarsi sulle prigioniere, che sono poco rappresentate rispetto agli uomini. Facendo ricerca ho scoperto che per le ex detenute la prigione, oltre alla sofferenza, ha rappresentato anche una grande esperienza di solidarietà. Nel film, il figlio di Layal ha molte madri: tutte le sue compagne di cella.

È una scelta simbolica, e anche molto intima e potente. C’è tanto da esplorare in quell’universo femminile, compresi i torti che le donne hanno subito non solo a causa dell’occupazione ma anche dalla società. Le palestinesi sono molto coinvolte nella lotta politica così come sono attive nel tessuto sociale, che tengono coeso nonostante i danni fatti dall’occupazione: rappresentano un’àncora del senso di identità e di appartenenza.
Per Layal l’esperienza del carcere rappresenta anche una presa di coscienza.
Ho scelto di concentrarmi su una donna che non era direttamente coinvolta nella lotta perché pensavo che così sarebbe stato più interessante essere testimoni della sua esperienza anche oltre la politica: delle sue scelte in quanto essere umano. Che è il motivo per cui viene condannata alla prigione: per una presa di posizione umana, l’idea di aiutare qualcuno che ha bisogno. Volevo che chiunque potesse identificarsi con lei, tutti noi potremmo dover affrontare una scelta del genere.
In un altro film palestinese uscito di recente e che racconta la vita nelle prigioni israeliane, «Ghost Hunting» di Raed Andoni, si trova un tema molto forte anche in «3000 Nights»: l’immaginazione, la vita interiore, come unico strumento di sopravvivenza.
Ho sempre pensato che l’importanza dell’immaginazione fosse uno dei temi portanti del film. È qualcosa che ho cercato di rappresentare senza dipendere esclusivamente dal dialogo, affidandomi alle immagini per mostrare come il mondo interiore sia uno spazio di libertà all’interno della bruttezza di un luogo come la prigione.
In carcere , nasce anche una solidarietà fra le detenute palestinesi e una prigioniera israeliana.
Credo che il mio sia il primo film ad affrontare questo argomento, che non è stato documentato ma che ho riscontrato nel corso della mia ricerca. Non è un fenomeno diffuso ma c’è stato più di un episodio di solidarietà tra palestinesi e israeliane in prigione. Alle volte persino le guardie sono toccate dalle carcerate, dalla loro causa: le rispettano.
Il film è ambientato in un’epoca molto buia, ma ha un forte messaggio di speranza. Valido oggi come allora?
La situazione ora è peggio che mai. Non c’è legge internazionale che venga applicata contro l’occupazione, per proteggere i palestinesi. Ma il movimento civile di resistenza deve continuare, e l’arte e la cultura sono delle componenti determinanti perché rappresentano un modo di raccontare la nostra storia, di raggiungere più persone possibile e aumentare la consapevolezza di ciò che accade, sottolineando l’importanza di un dialogo che porti al cambiamento. La resistenza è l’unica via possibile per ogni palestinese. Non posso fare a meno di conservare la speranza, e penso che le donne possano avere un ruolo sempre più importante. È questo in fondo il messaggio del film, la disperazione e la rassegnazione sono il nemico principale: Layal non si arrende e non viene sconfitta.
(il Manifesto 12/08/17)
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