23 Marzo 2017
#VD3

manifestare: che cosa, perché, come?

Il movimento femminista, in Italia ma non soltanto, riesce ad essere uno e tanti. Vediamo infatti che cambia restando fedele a qualcosa che c’era fin dagli inizi. Che cosa sia non è scritto su tavole di pietra, e nessuna, singola o gruppo, ne ha l’esclusiva. Pensiamo alla pratica della separazione, che segnò la rottura decisiva: per molte, oggi, comprende anche una considerazione positiva della differenza maschile, agli inizi non ci si pensava e alcune non ci pensano neanche adesso.

Però ne parliamo, ogni volta che occorre. Siamo d’accordo, infatti, che di mezzo c’è sempre quello che siamo e facciamo in pratica.

Adesso occorre che parliamo della pratica delle manifestazioni pubbliche e VD 3 ci invita a farlo con l’aiuto di Alessandra Pigliaru.

Agli inizi del femminismo la pratica delle manifestazioni pubbliche di strada fu ignorata, o criticata e respinta da molte, adottata da altrettante, come mostrano volentieri i documentari… Naturalmente, non ci siamo contate e forse, finora, sul significato delle manifestazioni per noi, non abbiamo ragionato abbastanza. Per esempio, un’assemblea come quelle di Paestum o, recentemente, di Bologna, sono manifestazioni pubbliche? Da una manifestazione pubblica di strada si può sensatamente escludere gli uomini? Le risposte non sono pacifiche perché c’è di mezzo la lotta contro la dicotomia tra pubblico e privato e per altro ancora, tra cui la significanza di corpi femminili sulla strada, in piazza. Ieri, oggi.

Ecco un argomento per la storia delle donne, da indagare: la storia delle manifestazioni femministe dai tempi di quella rivolta nella rivolta che segnò gli inizi del nostro movimento, fra gli anni Sessanta e Settanta, fino alla manifestazione di Non una di meno. E oltre.

 

Alessandra Pigliaru

 

Sono nata negli anni Settanta e, seppure mi riconosca figlia della forza sorgiva del movimento delle donne che in quegli anni solcava le piazze, non posso restituire l’intero di una esperienza che mi è stata raccontata attraverso le narrazioni di chi era lì. Quello di cui posso disporre allora, oggi, accogliendo l’invito di Luisa Muraro e della redazione ristretta di Via Dogana 3 sul tema delle manifestazioni è ciò che mi è successo il 26 di novembre 2016, quando la rete italiana di Non Una Di Meno ha organizzato la grande manifestazione che, come è noto, ha portato centinaia di migliaia di donne (e non solo) a Roma.

Per ciò che è stata la mia esperienza, il 26 non vi è stata rivendicazione ma un mostrare il sapere di sé che per più di 40 anni le donne hanno agito e agiscono, nei centri antiviolenza (che sono luoghi di libertà e di relazione, così sono stati giustamente nominati), nei luoghi pubblici e privati (tutti e senza distinzioni), nei movimenti (anche misti) che ha reso quella giornata memorabile. Di forza e gratitudine, la stessa che riconosco a chi ha fatto il percorso lungo che ha interpellato anche me per esserci. È stato un percorso di pratiche diverse che hanno trovato un punto di contatto su cui desidero continuare a intrattenermi perché mi ha insegnato cose importanti.

La potenza di ciò che è accaduto ha elementi di novità e di invenzione (anche nel maneggiare una forma “satura” come lo sciopero e riappropriarsene da un altro verso): deriva  (come ha ricordato Marisa Guarneri) da una novità rispetto all’apparizione del lavoro lungo (e centrato sul femminismo) dei centri antiviolenza, insieme al fatto che gli otto tavoli tematici successivi (prima a Roma il 27 novembre e poi a Bologna il 4 e 5 febbraio 2017), la costante contrattazione tra le pratiche politiche può trovare un giusto precedente in quanto accaduto negli ultimi due incontri di Paestum. Questo legame, tutto ancora da scrivere, segna una particolarità che allontana da altro genere di raduni, manifestazioni e rivolte. È infatti un modo di intrattenersi intorno al desiderio di politica tra donne.

C’è però qualcosa di più. Nella prossimità dei corpi e nella rappresentazione di una differenza femminile che ha attraversato la piazza del 26, è accaduto qualcosa di inedito e inaggirabile. Basta leggere il comunicato stampa di Non Una Di Meno (in preparazione allo sciopero dell’8 marzo) dove viene segnalata l’espressione lonziana di una nuova irruzione del “soggetto imprevisto della storia”, d’altro canto Ida Dominijanni l’ha ribadito nel suo articolo uscito per Internazionale (Il colpo d’ala dell’8 marzo) indicando quell’attimo di “modificazione totale della vita” che già il 26, nel mio essere lì, ho sentito palpabile. È infatti proprio grazie all’aver tenuto tra le mani un “sapere della vita” che l’esperienza di Non Una Di Meno si è liberata dal fantasma dell’azzeramento per quanto fino a lì guadagnato in questi 40 anni e che, alla discussione sulle pratiche politiche più o meno efficaci, ha preferito la forza. Quei corpi raccontavano proprio come si possa stare sulla propria forza.

Alle sottoscrizioni di appelli rivolti alle donne – fino a qualche anno fa – affinché si assumessero il carico etico di “sistemare” le cose, rispondendo a schieramenti partitici, per mettere in mora un governo o per domandare ascolto, quello che ho avvertito il 26 – ma che è circolato anche l’8 marzo – è stata la potenza di una “soggettività politica”, senza bandiere di partito, senza parole d’ordine che fossero riconducibili a uno scontro per conto di terzi, bensì una lotta, libera e gioiosa.

I corpi presenti non erano lì per caso, nonostante fossero privi di “missioni”, non stavano in attesa di qualcosa o qualcuno che li avrebbe sussunti ad altre “cause”. La radicalità della collocazione femminista è stata, e resta, centrale in questa esperienza – tra l’altro presente in più di 50 stati nell’occasione dello sciopero delle donne dell’8 marzo (una festa del “non farsi trovare” nei luoghi preposti). E non si tratta di radicalità per l’insistenza dei mesi di lavoro comune, nei singoli territori, nelle 60 assemblee cittadine e regionali (l’unico esperimento rimane in tal senso quello sardo) che si sono formate per pensare insieme. La collocazione femminista è stata, e resta, centrale – oltreché decisiva – perché chi ha attraversato quella piazza, le donne in particolare che erano presenti, lo ha fatto come ha sempre attraversato il mondo. A incedere è stata una enunciazione di sé e delle proprie pratiche, più che una rivendicazione o richiesta di autorizzazione. Le femministe non si sono proposte di fare da “guida”, bensì hanno accolto il contributo di una serie di altre istanze. Da una parte allora vi è il taglio della differenza e dall’altra il contributo – per certi versi notevole – di altri soggetti politici.

La ritrosia e il giudizio con cui spesso tutto questo complesso processo è stato letto e considerato ha prodotto molte frizioni che hanno preceduto l’incontro in piazza (entrambi a dire il vero, quello del 26 novembre e quello dell’8 marzo). Lascerei da parte chi ha creduto possibile ignorarlo definitivamente, mi soffermerei invece – per esempio – su questioni più interne: quella del separatismo e l’altra dell’aver interpellato i sindacati. In tutti e due i casi, al netto delle polemiche, ha resistito l’esorbitanza di ciò che stava accadendo e che non poteva essere fermato in nessun modo. Ci sono state esperienze diverse, così come diverse forme di manifestazione (penso ancora a ciò che è accaduto in Sardegna e che ha portato a due momenti, uno a Cagliari e l’altro – dichiaratamente separatista a Nuoro. Non si sapeva come sarebbero andate a finire entrambe le manifestazioni eppure hanno colloquiato tutto il tempo e anche adesso i diversi gruppi si incontreranno di nuovo).

Quello che mi risulta è allora che esiste un linguaggio dei corpi, nella loro vicinanza e insieme, che in qualche modo precede quello discorsivo. Con la successiva lettura del libro di Judith Butler (L’alleanza dei corpi) ho capito meglio: andava dunque definita quell’ostinazione dell’essere insieme attraverso i corpi.

Ciò che sta andando in scena – a livello mondiale – è uno spazio di relazione (Butler lo spiega bene) riconoscibile “tra” i corpi e nel momento in cui accade. Del performativo Butler tiene il “movimento” del fare e disfare. Si configura quindi una relazione che, spiegata in questo modo, ci è familiare, ci è prossima e può essere raccontata come un punto di esperienza poiché abbandona sovrastrutture teoriche e  linguaggi inconsistenti per cercare punti di verità; per toccare qualcosa fino a quel momento sconosciuto; per rappresentare una grammatica precisa che ci dia la possibilità (come ha detto Laura Colombo) di leggere il presente. Questa grammatica non va tradotta per essere portata a una ortodossia unica del femminismo, la differenza sessuale non ne ha bisogno perché rimane un significante, è la precondizione – per me – perché tutto questo accada; è dunque una grammatica che va conosciuta, ascoltata, nel fermo desiderio che da essa si possa apprendere nel momento in cui si sta creando. Anche nelle imprecisioni di tiro, nelle vulnerabilità che indicano la molteplicità di quei corpi sessuati.

Se ci spostiamo nell’orizzonte fecondo di una perdita di indispensabilità (intesa come “solo ciò che passa per me e per le mie pratiche va bene”) e ci poniamo invece in una posizione di ascolto, possiamo comprendere come dall’esperienza di Non Una Di Meno ci sia molto da imparare. Succede spesso, quando ci si ostina nella forza femminile.

 

(Via Dogana 3, 23 marzo 2017)

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