7 Ottobre 2015
il manifesto

Nella casa di Chantal

di Eugenio Renzi

Chan­tal Aker­man si è tolta la vita ieri a Parigi. Con lei se ne va una delle più grandi arti­ste dei nostri tempi. Negli anni il suo lavoro si è arric­chito di scritti, di per­for­mance, di instal­la­zioni. Non senza emo­zione, rac­con­ta­vamo su que­ste pagine della sua lunga per­for­mance nella notte bianca pari­gina del 2013 durante la quale Aker­man ha letto per «tutta la notte», come a fare il verso al titolo di uno dei suoi film più belli, un romanzo dedi­cato alla madre. Aker­man non ha mai ces­sato di essere un’artista spe­ri­men­tale, nel senso più let­te­rale del ter­mine. Era nata a Bru­xel­les, nel 1950, da una fami­glia di ebrei polac­chi orto­dossi. Curio­sa­mente la tra­di­zione ha ispi­rato il fondo più for­male del suo cinema. A chi le diceva che i dia­lo­ghi dei suoi film sono ben scritti, rispon­deva che quello che le piace in un dia­logo non è mai il senso ma il rumore, il ritmo, il bla bla di fondo. A chi le doman­dava se il gusto per la ripe­ti­zione traesse ispi­ra­zione dalla poe­sia post­mo­derna, rispon­deva che l’origine era da cer­care nell’educazione biblica, nei pome­riggi pas­sati a stu­diare la Torah. Eppure, i suoi primi film sem­brano essere più vicini a Warhol e Godard che Abramo e Isacco. Le cose sono al tempo stesso più sem­plici e più complesse.

Pren­diamo il suo esor­dio. Aker­man si è annun­ciata al mondo con un corto, Saute ma ville (’68). Una gio­vane donna, Aker­man stessa, rien­tra a casa can­tic­chiando, comin­cia a dedi­carsi a delle atti­vità appa­ren­te­mente ordi­na­rie: farsi da man­giare, pulire la cucina. Le sue azioni diven­tano sem­pre più incoe­renti, fino a che non apre il gas e si fa esplo­dere insieme all’appartamento. Sarebbe facile vedere in que­sto suo primo film un annun­cio di quanto acca­duto ieri: una tra­ge­dia ina­spet­tata. Più sem­pli­ce­mente, è l’inizio di un ten­ta­tivo di dare forma ad un’idea. Ora quest’idea è l’opera stessa di Aker­man. Espri­merla in una frase o una for­mula sem­bra una bestem­mia per­ché se c’è una cosa che il cinema di Aker­man mostra è che l’arte può rivol­gersi alle cose, alla vita, all’esistenza, senza defi­nirle bru­tal­mente, senza iscri­verle in un oriz­zonte di senso predeterminato.

I primi film di Aker­man sono lun­ghi piani sequenza su una stanza (La cham­bre 1 e 2, ’72). Sto­rie ordi­na­rie, let­tere in forma di docu­men­ta­rio (News from Home, ’77). In tutta que­sta ordi­na­rietà c’è una ten­sione pro­fonda che esprime un pro­blema abis­sale: che cosa vuol dire essere a casa? C’è un posto per me nel mondo? E soprat­tutto: che diritto ho io di avere un posto nel mondo ?

È ovvio che que­ste domande si ispes­si­scono di signi­fi­cato se si tiene pre­sente che la madre di Aker­man è soprav­vis­suta ad Ausch­witz. Ora, Aker­man ci ha dato dei gran­dis­simi ritratti di donna e la sua opera è un costante ritorno verso la figura della madre. Ritorno para­dos­sale. Per­ché da un lato la madre è il modello di un’esistenza sra­di­cata. La madre è l’ebreo errante, il con­dan­nato, l’apolide. Sen­tirsi a casa vor­rebbe dire in un certo senso tra­dire que­sto modello di esi­stenza. Dall’altro lato la madre è anche una madre come tutte le madri, e dun­que un punto fermo, un approdo, un luogo dove si può effet­ti­va­mente essere a casa.

Que­sta dop­pia dimen­sione è molto chiara sin da Les rendez-vous d’Anna. In un’intervista ai Cahiers du cinéma Aker­man afferma: «Nes­suna delle situa­zioni del film è vis­suta, se non il fatto che viag­gio. C’è Los Ange­les, ma ci sono anche la Ger­ma­nia, Bru­xel­les e Parigi. Bru­xel­les è il cen­tro del film. È a Bru­xel­les che l’eroina del film ritorna per­ché a Bru­xel­les c’è la madre.»

C’è un paese dove forse si ha il diritto di stare. Dove, forse, non è fuori luogo dire che: qui sono a casa. È il paese dove la madre «ci ha messi al mondo». In quest’idea di «matria», che sem­bra così arcaica e moderna al tempo stesso, Aker­man fa con­vi­vere e soste­nersi a vicenda la tra­di­zione ebraica, la sto­ria del ’900 e il pen­siero femminista.
Il fram­mento come forma, l’esistenza sra­di­cata come con­te­nuto, sono la figura e il colore con i quali Aker­man dipinge il ritratto di Bru­xel­les all’inizio degli anni ’80 di Toute une nuit (’82) Si tratta di una serie di brevi scene, quasi sem­pre silen­ziose, scon­nesse l’una dall’altra che fer­mano per un attimo il corso e il fluire dell’esistenza. Un uomo e una donna seduti l’uno accanto all’altra in un bar, si scam­biano qual­che occhiata. Una cop­pia di mezza età, risve­gliata dal rumore di una tele­vi­sione decide di fare due passi… Nella notte di Toute une nuit, girata in un magni­fico 16 mil­li­me­tri e illu­mi­nata dalla foto­gra­fia di Caro­line Cham­pe­tier, l’erranza diventa danza. Aker­man vi fa con­ver­gere diverse pra­ti­che arti­sti­che come la can­zone e il ballo (l’ispirazione sono le coreo­gra­fie di Pina Bau­sch). Toute une nuit ha la par­ti­co­la­rità di essere un film leg­gero, pieno di iro­nia a tratti eufo­rico. È una com­me­dia musi­cale che in un certo senso dice addio al cinema asce­tico degli anni ’70.

Lo abbiamo già accen­nato, c’è sem­pre qual­cosa di ripe­ti­tivo nel cinema di Chan­tal Aker­man: la scena del con­sumo nevro­tico di zuc­chero in In Je tu il elle (’74), il rito osses­sivo di Jeanne Diel­man (’75), il suc­ce­dersi dei discorsi maschili in Les Rendez-vous d’Anna.  Il punto estremo di que­sto spo­sta­mento verso il tempo e la fin­zione è Nuit et jour (’91), film dove è il cinema stesso a tor­nare con i suoi ritor­nelli pre­fe­riti: quello di Godard (la cop­pia) e quello di Truf­faut (il trian­golo amo­roso). Nel ’93, Aker­man firma uno straor­di­na­rio docu­men­ta­rio: D’Est. Il titolo inter­na­zio­nale, From the East, rima con News From Home, del 1975. L’est è certo una delle case pos­si­bili di Aker­man. Sarebbe meglio dire la più impos­si­bile. Ora, è signi­fi­ca­tivo che Aker­man abbia scelto di intra­pren­dere il suo viag­gio ad est solo dopo la caduta del Muro. Non per­ché la fine del socia­li­smo renda que­sto luogo emble­ma­tico, l’oriente, il paese del socia­li­smo, più facile d’accesso, ma al con­tra­rio, il viag­gio si impone per­ché la neb­bia che cir­conda la cor­tina di ferro, invece di dis­sol­versi si infit­ti­sce. La prima parte del film cerca dei pae­saggi: un albero, un incro­cio deserto. La seconda cerca dei volti, Levi­nas direbbe «l’altro»: in gruppi al mat­tino o nella notte, in attesa del bus o di un treno. Dei visi ci guar­dano, e nel fondo del loro sguardo leg­giamo una domanda: siamo a casa ?

In La Folie Almayer (2011) Aker­man (che ha sem­pre disprez­zato Cop­pola) ha voluto fare un anti-Apocalypse Now: un film in cui il viag­gia­tore non rag­giunge una meta, dove il mistero non viene tolto ma viene solo vis­suto, e di certo dove non viene spie­gato né «ora» né mai. Si può tro­vare l’impresa assurda, ma in un certo senso è l’impresa di una vita, il punto più alto, più radi­cale dell’esperienza arti­stica e umana di Aker­man. Pen­sare l’etica dell’essere un ente errante fino alla sua estrema con­se­guenza: l’impossibilità di muo­versi, il fatto di essere di casa nel non tro­varsi mai a casa propria.


(il manifesto, 7/10/2015)

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