10 Giugno 2016

Nilde Iotti e i comunisti me li ricordo bene

di Massimo Lizzi

Un libro piccolo e breve, dedicato a Nilde Iotti, poco meno di cento pagine. L’ho letto tutto d’un fiato sul treno, mentre da Torino andavo alla Libreria delle donne di Milano, dove è stato presentato sabato 4 giugno da Luisa Cavaliere, autrice del libro (per la collana Italiane, Maria Pacini Fazzi ed. 2016), insieme con Lia Cigarini, esponente storica del movimento delle donne, iniziatrice del primo gruppo femminista italiano (DEMAU) e Luciana Castellina, dirigente del PCI e giornalista fondatrice del Manifesto.

Nilde Iotti, eletta all’età di 26 anni nelle liste del PCI deputata dell’Assemblea costituente, fu la prima donna a ricoprire una delle più alte cariche dello stato, la presidenza della camera, che mantenne per ben tre legislature (1979-1992); rivendicò il suo essere donna nel primo discorso d’insediamento, nonostante la cultura delle donne in politica, all’epoca (e in buona parte ancora oggi) fosse quella emancipazionista, che induce ad occultare la differenza, per essere uguali agli uomini o persino meglio degli uomini, sempre secondo un parametro maschile.

Luisa Cavaliere, attraverso Nilde Iotti, racconta il suo rapporto con il partito comunista, partito nel quale ha militato fino allo scioglimento. Leggendola, si avverte – lei stessa la dichiara – la sua antipatia per Nilde Iotti (e per Palmiro Togliatti). Eppure, anche attraverso il suo punto di vista, non muta il mio sentimento di affetto e ammirazione per queste grandi figure.

L’unico momento in cui io personalmente le vedo in negativo è nel confronto con Rita Montagnana, la moglie di Togliatti, la sua prima compagna, fondatrice e dirigente del partito comunista, antifascista e partigiana, parlamentare dal dopoguerra fino al 1958. Lei ha subito una vera ingiustizia, non tanto negli affetti, dove non c’è colpa e rimedio, anche se si può stigmatizzare l’uomo che, giunto alla mezza età, decide di lasciare la compagna della sua vita, per unirsi ad una donna molto più giovane di lui, quanto nella sorte politica: fu emarginata invece di essere onorata.

Nilde Iotti la vedo meglio nel confronto con Teresa Mattei, per limitarmi al racconto del libro, perché se pure Teresa Mattei è presentata come figura più coerente, battagliera, dissidente, e di certo è una figura di valore, finisce presto esclusa dal partito, nel 1955. Questo dice del livello democratico del PCI, ma anche della migliore efficacia politica di Nilde Iotti.

Il PCI fu un partito stimato da elettori, simpatizzanti, militanti (come io sono stato), sia per il fatto di rappresentare l’ideale di una società di liberi ed eguali e gli interessi della classe operaia, sia per il fatto di essere il partito che sapeva fare politica, meglio dei suoi concorrenti a sinistra, meglio dei partiti comunisti degli altri paesi occidentali. Le sue posizioni potevano non essere le più radicali e rivoluzionarie, ma rispondevano sempre ad un criterio di intelligenza politica. È il caso del voto sull’articolo 7 della Costituzione, che recepiva i patti lateranensi, un voto, peraltro non determinante, aborrito dal laicismo, che permetteva di schivare una rischiosa guerra di religione, di superare uno sterile anticlericalismo e di collocare i comunisti in un rapporto di dialogo con i cattolici, nel paese del Vaticano.

Lo spessore politico dei comunisti italiani si misura anche nel rapporto con l’Urss. Il libro racconta del viaggio di Nilde Iotti e di Palmiro Togliatti in Urss, per il capodanno 1950-51. Ospiti nella dacia di Stalin, Nilde Iotti è l’unica donna tra ottanta dirigenti comunisti sovietici. Lei al ritorno descrisse il padrone di casa, Stalin, come un uomo gentile, colto e raffinato. Di tutt’altro tenore il resoconto di un viaggio in Unione sovietica, negli anni ’50, redatto per l’Unità dalla scrittrice Anna Maria Ortese, censurato da Rossana Rossanda, che la rimproverò di non aver visto tutte le conquiste di quel paese (la scuola, la casa, il lavoro).

Oggi, conosciamo la storia, sappiamo come si è conclusa, e vediamo con occhi molto critici il legame di ferro con l’Urss dei comunisti italiani tra gli anni ’40 e ’50, ma a quel tempo l’Urss aveva un grande prestigio, per il fatto di essere la potenza che, con sacrifici enormi, aveva sconfitto il nazifascismo sul campo (tre quarti delle forze armate tedesche erano state impegnate sul fronte orientale). I dirigenti comunisti italiani, pur conoscendo i crimini dello stalinismo, scommisero sull’evoluzione dell’Unione sovietica, prospettiva a cui in fondo credevano molti liberali. Inoltre, l’Urss costituiva un mito aggregante e mobilitante per il movimento operaio italiano, per il suo essere la dimostrazione concreta che l’utopia, l’alternativa al capitalismo, poteva divenire realtà. La sua sola esistenza ha indotto l’Occidente a competere sul piano dei diritti e della sicurezza sociale e a dotarsi di un sistema di Welfare. Così, la preservazione dell’immagine dell’Urss e di Stalin, poteva essere sbagliata secondo il criterio della verità giornalistica o storiografica, ma aveva un senso importante secondo un criterio politico.

Il PCI ebbe valore anche per il suo rapporto con le donne, per il voler fare delle donne un soggetto politico. Promosse l’Unione donne italiane (UDI), di cui Nilde Iotti era la segretaria di Reggio Emilia, prima di diventare deputata costituente, un’associazione femminile di massa, nella quale fu possibile una relazione autonoma tra donne, che facevano valere anche la propria soggettività. Fu nell’UDI che si concepì la riforma del codice di famiglia a tutela delle donne, dopo il divorzio, poiché la conquista del divorzio da sola, avrebbe potuto lasciare in miseria la donna divorziata. A suo modo, nella relazione politica con le donne, il PCI fu anche una scuola e un tramite per gli uomini. Quasi tutti gli uomini che oggi simpatizzano o si impegnano nel femminismo – io stesso – provengono dalla storia del partito comunista.

(www.libreriadelledonne.it, 10 giugno 2016)

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