17 Agosto 2017
il manifesto

«Non credere di avere dei diritti», da Milano a Bordeaux

FEMMINISMO. A trent’anni di distanza, uno dei testi classici del pensiero della differenza sessuale italiano viene tradotto in Francia. Un’intervista con il collettivo di donne che ci hanno lavorato e hanno fondato le edizioni La Tempête di Bordeaux

di Francesca Maffioli

Non credere di avere dei diritti è il titolo di un libro della Libreria delle donne di Milano, pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 1987 e ristampato nel 2016 dalla stessa casa editrice. A trent’anni di distanza esce in Francia Ne crois pas avoir de droits, la prima traduzione del volume ad opera di un collettivo di giovani traduttrici e fondatrici delle edizioni La Tempête di Bordeaux (pp. 266, euro 14).

L’ottimo lavoro di traduzione agevola la scoperta dei fatti, delle idee che ruotano attorno alla Libreria delle donne di Milano dal 1966 al 1986 insieme alla scoperta di un luogo, di un movimento e di un’autorialità plurale.
Nella prefazione al volume il collettivo sottolinea che la rilevanza di questo testo risiede nella messa in discussione della «positività del diritto» e nel ripensamento della nozione di libertà femminile attraverso il recupero e l’esaltazione delle «referenze simboliche femminili».

 

Da dove è nato il desiderio di leggere «Non credere di avere dei diritti» e di tradurlo in francese? A chi è rivolto il vostro progetto?

Partendo dalla nostra partecipazione a diversi movimenti sociali e di lotta in Francia, ci siamo tutte interessate alla storia dell’autonomia e, in particolare, a quella che attraversa l’epoca del libro. La nostra curiosità a proposito dei numerosi cambiamenti che aveva sollevato all’interno dello stesso movimento ci ha dato un primo slancio per intraprendere la traduzione: questo libro ci trasmetteva forza nei confronti delle nostre esperienze e circa le questioni che attraversano i diversi collettivi. Il progetto si rivolge a tutte e tutti coloro che, come noi, lottano in una prospettiva d’autonomia rispetto ai poteri (istituzioni, ambito medico, giustizia e altri campi), ma forse anche a chiunque sappia trovare qui delle parole sulle esperienze personali, troppo spesso condannate al silenzio o al margine.

 

Nel libro la «pratica della differenza» rappresenta un antidoto alla natura identitaria della democrazia. In che modo tale pratica può ancora risultare efficace per «fare esplodere» dinamiche che tentino di integrare le esperienze di soggetti plurali?

Oggi ci fanno credere che la differenza sia la benvenuta a condizione che si integri. Il liberismo pretende di essere in grado di rispondere a tutti i desideri e la democrazia di integrare tutte le opinioni. Tutti coloro che non trovano la loro felicità vengono «rinviati» alle loro debolezze personali, al fatto che certamente c’è «qualcosa» di sbagliato in loro.
La scommessa del libro consiste nel dare fiducia a quel «qualcosa» che resiste, che non vuole integrarsi, che non trova il suo posto – per rendere ciò che è estraneo l’espressione di una differenza e un contenuto di lotta politica. Oggi tutte e tutti coloro che non sono integrati, ma anche tutto ciò che ognuno sente di estraneo in se stesso è costantemente umiliato dai potenti. La politica della differenza ci ha dato la sensazione di essere in grado di affrontare questa umiliazione, rendendoci fiere delle nostre differenze e in grado di difenderle.

 

Perché la pratica dell’«affidamento», che voi traducete con «confiance», costituisce ancora una leva per preservare un rapporto di comunicazione tra donne? 
Negli anni Settanta le femministe della Libreria delle donne hanno constatato che, dietro la quasi assenza delle donne nella sfera pubblica, esprimersi pubblicamente non significava altro che comunicare e interagire con parole che non erano loro. In altri termini che non avevano una sfera simbolica per esprimersi. L’«affidamento» era una forma di risposta a tutto ciò: i legami, le relazioni di fiducia e gli scambi si rendevano visibili, fornendo loro un contenuto politico.
Se abbiamo sentito molto meno la difficoltà di affermarci pubblicamente, resta il fatto che abbiamo dovuto molto spesso sposare i modi di fare degli uomini attorno a noi, convinte che non ce ne fossero altri. «Sposare» le vie degli uomini vuole dire entrare in concorrenza con le donne accanto a noi che fanno la stessa cosa, cioè avanzare in parallelo senza mai incontrarsi. La pratica dell’affidamento permette a queste traiettorie parallele di incrociarsi e di sperimentare politicamente insieme.

(il Manifesto, 18/08/17)

Cronaca di Laura Minguzzi del tour di presentazioni con Silvia Baratella, in marzo 2017, a Parigi e a Rennes con il collettivo delle traduttrici della casa editrice La Tempete.

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