31 Dicembre 2013
Corriere della Sera

Propositi per un 2014 davvero femminista

di Janice Turner

A marzo, in uno studio di Los Angeles, ho visto una ventenne esuberante e piuttosto infantile che dimenava il fondoschiena. Dato che Miley Cyrus stava a piedi nudi, con indosso una stupida tutina e che il pubblico era costituito da sua madre Tish e dalla squadra, per lo più al femminile, della rivista Elle, che stava facendo un servizio fotografico, la danza sembrava più l’esibizione di un’adolescente stramba e iperattiva che uno spettacolo ad alta carica erotica.

Se solo avessi capito allora che stavo assistendo a quello che poi è diventato un momento simbolo per la cultura pop di quest’anno… Quante pagine sono state occupate da discussioni scatenate su quel sederino magro che si muoveva su e giù. Miley Cyrus è una marionetta dell’industria musicale maschilista, che vende il suo talento femminile come ballerina di lapdance, o è piuttosto una bambola famosa e impertinente che esprime la propria sessualità? Via al dibattito.

Di certo, a marzo avrei optato per la seconda risposta. La canzone che aveva messo era «My Neck, My Back» (Il mio collo, la mia schiena) della rapper di colore Khia: il suo testo esplicito invita, una volta tanto, gli uomini ad impegnarsi per dar piacere alle donne. E più tardi, quando ho intervistato Cyrus a casa sua, non mi sembrava un’ex bambina prodigio incasinata e bisognosa d’affetto, ma una ragazzina punk posata e dall’aria professionale in felpa e anfibi Dr. Martens, che affermava di essere «sicuramente» femminista, che si infuriava quando la gente dava per scontato che il suo assistente fosse gay solo perché lavora per una donna e che pensava che «la maggior parte della musica è discriminatoria». Le canzoni scritte da lei, invece, parlano «di quando esci a divertirti con gli amici», e se lei agita il didietro lo fa solo per se stessa.

Eppure in agosto, dopo che si era esibita nel «twerking» con Robin Thicke agli MTV Video Awards con il controverso brano «Blurred Lines», con un testo  — «So che ti piace» — accusato di «invitare allo stupro», Cyrus si è ritrovata al centro di una tempesta culturale. Là sopra c’era l’interprete della pura Hannah Montana che dimostrava, dal vivo e su un palco, quanto si sia diffusa la cultura del porno e quanto sia stata interiorizzata dalle giovani donne.

Ora sto osservando un altro didietro: quello di Kate Moss che, a quattro zampe e vestita da coniglietta, fa pubblicità al suo primo servizio su Playboy. La top model più importante della sua generazione, ricca, potente e ammirata, che supplica in quella ridicola divisa da geisha anni ‘50, impregnata dello squallore da geriatria di un Hugh Hefner strafatto di Viagra. Sul serio, Kate, non sei abbastanza ricca? Ma, soprattutto, quanto mi sembra «vecchia», stranamente inattuale. Cinque anni fa avrebbe potuto farlo per il gusto di un fascino retrò o con un’ironia postmoderna. Ma non adesso. Non dopo un anno straordinario per il femminismo. Nel 2013 il femminismo è diventato mainstream.

Questo mese, nella sede di un’agenzia pubblicitaria a Shoreditch, ho partecipato a un dibattito organizzato dalla rivista Elle dal titolo «Il femminismo ha bisogno di cambiare immagine?». La sala era piena: le donne erano tutte ventenni strafighe all’inizio della loro carriera, molto lontane dal modello delle femministe con i peli sulle gambe. Online il dibattito ha ricevuto 83 milioni di visite. La sensazione era che il femminismo non ha bisogno di un nuovo marchio: ha già cambiato da solo la sua immagine. Come mi ha spiegato Rachel, una modella di 28 anni, «è stato il libro di Caitlin Moran, “How to Be a Woman” (Come essere donna), a cambiare le regole». Un’opera sul femminismo, uscita due anni fa, che finalmente non era solo per accademici e non era colta in modo imbarazzante, ma che era amichevole, inclusiva, aperta anche agli uomini. Ha venduto circa un milione di copie in tutto il mondo. Ed è stato perfetto per le ragazze delle superiori, che hanno poi avviato associazioni femministe nelle scuole o campagne contro le discriminazioni sul web, come per esempio «Everyday Sexism».

Un effetto boomerang che ha fatto sentire migliaia di donne un po’ più coraggiose. Fino a cinque anni fa, il commento osceno di un collega maschio, l’allusione a chiudere un incontro di lavoro in un locale di lapdance, poteva essere tollerato: siamo tutti uguali ormai, gente, quindi perché scaldarsi tanto? Ma quando David Cameron ha detto ad Angela Eagle «Datti una calmata, mia cara», o quando George Galloway ha detto che non si può violentare qualcuno con cui si è già andati a letto quella stessa notte, perché «è già iniziato il gioco del sesso», le donne hanno trovato una parola per definire tutto questo. Una parola della vecchia scuola, una parola che perfino io mi sono vergognata di usare in questo secolo: maschilista.

Quest’anno la nave già in risalita del femminismo ha fatto un pieno di carburante che l’ha trasformata in missile: la rabbia. Nella prima metà del 2013, sui giornali campeggiavano gli occhi spalancati di Jimmy Savile, le storie clamorose degli abusi e degli stupri di ragazze negli orfanotrofi, negli ospedali e persino nelle case di cura. Durante la primavera sono emerse altre vicende. Gli omicidi di due bambine: April Jones, uccisa da Mark Bridger, e Tia Sharp, ammazzata da Stuart Hazell. Tutti e due gli uomini avevano passato ore online guardando prima materiale pornografico molto spinto e poi materiale pedopornografico. A Cleveland, in Ohio, tre giovani donne hanno strisciato fuori dal seminterrato di Ariel Castro dopo anni di stupri e botte.

A Nottingham, Mick Philpott è stato incarcerato per aver causato la morte dei suoi sei figli in un incendio doloso: un piano sciagurato, architettato per incastrare l’ex fidanzata che aveva osato fuggire al suo dominio. Dalla parrucchiera, al telefono con la mamma, con gli amici e su ogni profilo di Twitter le donne non facevano che disapprovare terrorizzate. Questa insolita compresenza di notizie da prima pagina ha messo in relazione l’immagine delle donne – viste come sventole imbronciate, passive, sempre disponibili – con la mentalità dei maschi che le avevano violentate e uccise. Il diritto a parlare ha assunto un senso nuovo: è diventato il diritto di chiedere dei cambiamenti. Le campagne per finirla con i topless sulla terza pagina del Sun, per affrontare il problema del porno online, hanno conquistato nuovi seguaci. Si è capito che il sistema culturale iniziava a incrinarsi: Rupert Murdoch diceva tra i denti che le foto a seno scoperto sul suo giornale erano «troppo obsolete»; il governo e Google rivedevano la loro politica sui filtri anti porno; Facebook doveva ribaltare la sua linea che permetteva immagini di violenza sessuale; le associazioni studentesche mettevano al bando la canzone «Blurred Lines». Dopo un decennio passato in trincea, il femminismo si faceva avanti.

Due cose hanno accelerato la sua avanzata. Prima di tutto, protestare, scrivere slogan e indossare spillette è diventato di moda. E il successo crescente dei social media implica che ogni offesa misogina può essere scoperta, raccontata, finire al centro di una campagna, richiedere le scuse ufficiali. Gli appelli delle femministe su Twitter, inoltre, travalicano le frontiere nazionali. Il trattamento riservato a Julia Gillard, primo premier donna dell’Australia, l’orribile caso di stupro e omicidio su un autobus in India, la reazione delle saudite al divieto di guidare, l’ostruzionismo durato una notte intera portato avanti dalla senatrice texana Wendy Davis per difendere il diritto all’aborto: tutto questo ha fatto crescere il senso di una causa comune.

Ma la nuova faccia tosta del femminismo non è piaciuta a tutti, e in estate c’è stato il primo colpo di coda. Quando Elizabeth Fry è stata tolta dalle banconote da 5 sterline, ultima donna (tranne la Regina, d’accordo) rimasta a rappresentare la valuta britannica, Caroline Criado-Perez ha lanciato una campagna semplice, di basso profilo, per sostituirla con l’immagine di un’altra donna. Alla fine il governo ha accettato di mettere Jane Austen sulle banconote da 10 sterline. Eppure, questa vittoria modesta ha scatenato la rabbia di alcuni uomini. La Criado-Perez è stata minacciata di stupro via Twitter, e poi altre donne che parlavano troppo hanno ricevuto messaggi come questo: «ABBIAMO MESSO UNA BOMBA FUORI DA CASA TUA. ESPLODERÀ ALLE 10:47».

Tuttavia sembra spesso che il più grande nemico del femminismo siano le donne stesse. Quando Sheryl Sandberg ha pubblicato «Facciamoci avanti», sfidando le donne più dinamiche ad occupare i posti di lavoro migliori, è stata subito smontata e additata come quella fortunata che se ne fregava delle più povere. Quando Lena Dunham ha scritto «Girls», il suo ritratto della classe media di Brooklyn che non alza un dito, è diventata una razzista che non dava risalto alle donne di colore. È come se ogni opera artistica, ogni dichiarazione politica pronunciata da una donna, dovesse portare in qualche modo il peso impossibile di rappresentare l’intero genere femminile. Ora è buona norma in ogni intervista a una donna famosa — che sia Beyoncé o Mary Berry — domandare: «Sei femminista?». E se dice di no o, addirittura, «Dipende da cosa si intende», viene tagliata fuori dal pantheon delle donne da ammirare.

Questo metadiscorso è così chiuso su se stesso e, a tratti, così crudele, che c’è da chiedersi se, proprio quando le ragazze si stanno convincendo, non stiano per essere di nuovo allontanate dalle lotte intestine. Non è tempo di far risorgere un altro principio femminista dimenticato degli anni Settanta, la solidarietà femminile? Nel 2014 forse potremmo dimostrarci l’un l’altra un po’ più di gentilezza, riconoscere che per cambiare qualcosa c’è bisogno di una comunità più vasta. E che se vogliamo apportare un qualsiasi dannato cambiamento, il femminismo deve abbracciare sia le donne che lavorano che le ragazze che scuotono il sedere.

(L’autrice è un’editorialista del Times. Traduzione di Sara Bicchierini.)

Corriere della Sera, 31 Dicembre 2013

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