19 Giugno 2015
Il Manifesto

Quelle quattro ragazze sono come i supereroi

Cinema. Incontro con Céline Sciamma. Il suo nuovo film «Diamante nero», in sala da giovedì 18 giugno, è uno scanzonato romanzo di formazione al femminile nella banlieue parigina oggi

 

di Cristina Piccino 

 

La prima volta è stata Nais­sance des pieu­vres, sen­sua­lità, ribel­lione e sco­perta del corpo di un’adolescenza lesbica in cui si rive­lava il talento di una nuova cinea­sta. Qual­che anno dopo Céline Sciamma torna con Tom­boy, una ragaz­zina che vuole essere un maschio. È un suc­cesso mon­diale, pre­miato ovun­que, parla di gen­der, di fem­mi­nile e di maschile ma lo fa spo­stando il punto di vista delle con­trap­po­si­zioni al desi­de­rio. Bande des fil­les, il suo nuovo film, titolo d’apertura della Quin­zaine des Rea­li­sa­teurs 2014, in Fran­cia subito un caso cri­tico, applau­di­tis­simo e ama­tis­simo, arriva infine in sala anche da noi (domani, gio­vedì 18) gra­zie a Teo­dora film a cui si deve per l’Italia la sco­perta di que­sta splen­dida regi­sta (ave­vano distri­buito anche Tom­boy).
Ancora una sto­ria al fem­mi­nile, una «banda di ragazze» sca­te­nate che con irri­ve­renza e molta ener­gia sfida i codici della ban­lieue dove vive, quelli fisici e prima ancora quelli di un imma­gi­na­rio che ha impri­gio­nato le cité in un genere rigi­da­mente codi­fi­cato tra machi­smo, inte­gra­li­smo, velo, cri­mi­na­lità e repres­sione poli­zie­sca. Ma, appunto, le eti­chette di genere non appar­ten­gono a Sciamma, difatti le rompe anche sta­volta alle­gra­mente e con dol­cezza, dan­zando insieme alle sue magni­fi­che pro­ta­go­ni­ste sulle note di Dia­monds di Rihanna — da cui il titolo ita­liano, Dia­mante nero.

La incon­tro a Roma, un’afosa mat­tina di que­sto ini­zio estate, nel salone con vista sulla città di Villa Medici. Minuta, occhi azzurri, idee chiare, il cinema per lei è uno stru­mento con cui dare corpo e emo­zioni agli indi­vi­dui e alla loro sin­go­la­rità. Ogni film è un mac­china per cam­biare iden­tità, dice. «Il fem­mi­nile è sov­ver­sivo, è una forma di contro-cultura, è un contro-potere per que­sto viene per­ce­pito come una minaccia».

Le ragazze della «Bande des fil­les» vivono tutte nella ban­lieue pari­gina. Ma il tuo film che qui esce col titolo di «Dia­mante nero» come canta Rihanna il loro mito somi­glia più a un romanzo di formazione.

All’inizio avevo in mente due cose: un’eroina ragazza alle prese con dei cam­bia­menti impor­tanti e una sto­ria eterna ma calata nel con­tem­po­ra­neo. Sono i due ele­menti clas­sici del romanzo di for­ma­zione che qui si con­te­stua­lizza in un ambiente, la peri­fe­ria. Marieme, la pro­ta­go­ni­sta, ha qua­lità tipica dell’eroismo solo che nel romanzo di for­ma­zione il per­so­nag­gio col­tiva anche delle amb­zioni dei pro­getti, è legato a una classe. Nel mio film invece l’eroina afferma sé stessa su un rifiuto, sul desi­de­rio di rifiu­tare tutte le iden­tità che la società le pro­pone, che le chiede di essere, e che nel corso della sto­ria attra­versa una dopo l’altra. Il suo movi­mento nar­ra­tivo e esi­sten­ziale è dire no. Credo che que­sta sia una carat­te­ri­stica forte del nostro tempo, la pro­te­sta oggi prende forma soprat­tutto nel rifiuto di qual­cosa. Anche quando si vota se ci pensi si vota sem­pre «con­tro» qual­cosa o qual­cuno, rara­mente «per». Se non si sa cosa dire si sce­glie il rifiuto, resi­stere è diven­tato dire no: non voglio que­sta società, non voglio i modelli che mi impone la poli­tica, è il pen­siero della con­te­sta­zione più dif­fuso. E la peri­fe­ria è il luogo dove que­sto rifiuto si afferma con mag­giore forza.

Sce­gliere il pae­sag­gio della peri­fe­ria pari­gina può essere però arti­sti­ca­mente molto rischioso. Il cinema della ban­lieue, a parte pochi casi, risponde in Fran­cia a carat­te­ri­sti­che molto nette.

Ma il sen­ti­mento del rifiuto che guida le mia pro­ta­go­ni­ste riguarda anche le mie scelte da regi­sta. Nel film non c’è poli­zia, non si parla di reli­gione, non c’è l’hip hop non ho cer­cato un effetto da rea­li­smo sociale per dire: ’ecco, que­sto è un film poli­tico’. Poli­tico per me signi­fica qualcos’altro, è chi guarda e cosa si guarda, per­ciò non la mac­china da presa a spalla o il gri­gio con cui di solito si impa­sta l’immagine delle peri­fe­rie. I per­so­naggi che rac­conto nascono da un lavoro di scrit­tura e appar­ten­gono a una dimen­sione roman­ze­sca anche se nel lavoro di pre­pa­ra­zione ho incon­trato tre­cento ragazze, mi sono docu­men­tata, ho cono­sciuto un gene­ra­zione e cer­cato delle cor­ri­spon­denze. Con le ragazze natu­ral­mente c’è stata una col­la­bo­ra­zione, a me però inte­res­sava soprat­tutto dare vita a dei per­so­naggi capaci di espri­mere una loro ener­gia e una lin­gua pro­pria. Non avevo in mente, e que­sto sin dall’inizio di fare il ritratto di una ragazza della cité.

In che senso?
Le ragazze del film par­lano molte lin­gue, pos­sono essere bam­bine che sal­tano su un letto o donne mature. Ho cer­cato di rac­con­tarle nelle diverse sfu­ma­ture pos­si­bili tra la libertà e gli arche­tipi. In que­sta oscil­la­zione appare anche la vio­lenza, come viene creata dalla società, da dove arriva, cosa signi­fica appar­te­nere a un gruppo pure nell’illegalità…Ho pro­vato a inter­ro­gare i cli­ché e a inve­stirli emo­ti­va­mente. Insieme al musi­ci­sta (Para One, nome d’arte di Jean-Baptiste de Lau­bier, ndr)abbiamo cer­cato i suoni urbani del pre­sente, quale musica si sente nelle peri­fe­rie senza la dit­ta­tura del folklore.

La nar­ra­zione è scan­dita in capi­toli. Per­ché?
È una scelta che risponde alla stessa esi­genza di uscire fuori dalle con­ven­zioni. Ogni capi­tolo indaga un’ipotesi di vita, un po’ come se fos­simo in un film di supe­re­roi: che potere mi dà un certo costume? In che modo lo uti­liz­zano le ragazze? E i cam­bia­menti di iden­tità diven­tano anche un modo per inda­gare l’impasse del patriar­cato. Quando si parla di «cinema d’autore impe­gnato» si pensa subito a certi film o regi­sti. A me piace l’idea di com­bi­nare Ken Loach e Tim Bur­ton, rifiuto la fron­tiera che divide nel senso comune «impe­gno» e «fan­ta­sia». Vvo­glio invece pen­sare a un film come a un’esperienza sen­suale in cui tutti pos­sono rico­no­scersi, e emo­zio­narsi. L’impegno non esclude i sen­ti­menti e viceversa.

Per que­sto la scelta del luogo in cui girare era fon­da­men­tale. Come ci sei arri­vata?
Durante i sopral­luo­ghi abbiamo visto mol­tis­simi quar­tieri, avevo in mente un posto dove ci fosse un’isola pedo­nale e un oriz­zonte in cui la Torre Eif­fel non appa­risse troppo lon­tana. Le ban­lieue pre­sen­tano un segno gra­fico molto forte per­ché spesso sono nate dalla grandi uto­pie archi­tet­to­ni­che degli anni Ses­santa o Set­tanta. Fil­mare in una ban­lieue signi­fica seguire delle linee di fuga, delle moda­lità di muo­versi, come ci si ritrova, come si sta da soli. Il modo in cui la cité pro­voca delle espe­rienze sen­so­riali con le grida, i gruppi di ragazzi che si fer­mano in certi posti in cui taci­ta­mente cade il silen­zio quando ci si avvi­cina. Lavo­rare lì è dav­vero un’esperienza di fron­tiera. I pro­blemi sono gli stessi che ovun­que con la dif­fe­renza che non sono sot­ter­ra­nei. Si mani­fe­stano a cielo aperto, e per que­sto la ban­lieue è diven­tato un luogo della fin­zione: non siamo in una dimen­sione eso­tica, al con­tra­rio la realtà vi appare con mag­giore evi­denza. Machi­smo, rap­porto tra spa­zio pub­blico e pri­vato, con­trollo reci­proco si ritro­vano infatti in tutta la nostra società. Solo che in una ban­lieue sono «uffi­ciali», e in que­sto senso la ban­lieue è lo spec­chio del nostro mondo.

 

(Il Manifesto 17 giugno 2015)

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