30 Marzo 2020
#VD3

Ricostruire lo spazio pubblico dopo l’eclissi della politica


di Giorgia Serughetti


Scrive Hannah Arendt che i «tempi bui» sono quelli in cui «lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata».

Nello stato di emergenza che stiamo vivendo, in cui la politica è interamente ridotta a decisione verticale, in cui ogni forma di partecipazione e deliberazione è sospesa, in cui ci troviamo costretti in casa, impauriti, impediti dal muoverci o dal riunirci, è forte l’impressione di assistere a un oscuramento della dimensione pubblica.

È altamente probabile che la pandemia di Covid-19 sia uno di quegli snodi del tempo storico a cui giustamente diamo il nome di crisi perché l’imprevisto comporta il vacillare di sistemi teorici, assetti istituzionali e forme di vita, aprendo a un cambiamento irreversibile. Crisi è da intendere nel duplice senso del greco krisis, che rimanda all’idea di scelta, decisione, prefigurando un rischio, un pericolo, ma anche una (seppure drammatica) opportunità.

Cosa ci attende oltre la crisi? Il completo oscuramento della politica? O la sua rigenerazione in forme oggi difficili da intravedere? Sarà l’oscurità che avanza, il compimento finale di quell’opera di depoliticizzazione prodotta dal neoliberalismo, favorita da un evento tanto inaspettato quanto esiziale? O sarà piuttosto un’eclissi dello spazio pubblico, finita la quale una qualche luce tornerà a illuminare la nostra capacità di azione politica.

Molto dipende, naturalmente, da cosa sapremo fare di questo tempo sospeso, ed io azzarderò qui un certo ottimismo. Dalla narrazione della vita al tempo del Covid-19 provengono segnali contrastanti: manifestazioni di estremo individualismo da free-rider ma anche, e forse in maggior numero, espressioni – o accenni, o frammenti – di una diversa consapevolezza. Mai, in anni recenti, avevamo udito pronunciare con tanta frequenza parole come cura, relazione, responsabilità. Forse stiamo imparando – a nostre spese, ma meglio tardi che mai – che persino davanti a un virus che ha l’effetto di separarci, che ci costringe a mantenere le distanze (come ha detto Benasayag, un virus davvero neoliberale!), abbiamo la responsabilità di pensare al di là della nostra persona, possiamo prenderci cura di altri e altre, che pure sono lontani, proprio perché ci sappiamo vulnerabili, in relazione con gli altri, in un rapporto di reciproca dipendenza.

«Una circostanza straordinaria», ha scritto Caterina Botti, «ci permette forse di recuperare quello sfondo così ordinario da risultare spesso invisibile, non visto, non detto, lo sfondo su cui si staglia la nostra singola esistenza, e cioè l’insieme delle relazioni che la rendono possibile. Diventa acutamente visibile, e dicibile, il fatto che dipendiamo gli/le uni/e dagli/dalle altri/e, che nessuno vive o si salva da solo. Il che vuol dire anche – per girare in positivo ciò che di nuovo può essere letto a prima vista in modo negativo – che è in nostro potere, nel potere di ciascuno di noi, fare qualcosa per gli altri».

Possiamo fare dunque di questa crisi un’occasione di conoscenza? E più ancora, possiamo trasformare questa conoscenza in capacità di azione politica?

A me pare che la consapevolezza della vulnerabilità, della relazionalità, della dipendenza, unita all’esperienza reale, fisica della malattia, del lutto, della quarantena, del governo totale delle nostre vite, abbia buone possibilità di generare nuovo senso comune su molte questioni politicamente cruciali.

Alcuni scostamenti importanti sono già stati segnalati dai sondaggi d’opinione: l’emergenza Coronavirus ha fatto riscoprire il significato e il valore del pubblico, dopo decenni di cessione di quote ai privati in ambiti vitali, come quello della sanità. Ha anche indotto un netto ripensamento dei cittadini sul progetto dissennato dell’“autonomia differenziata” che fino a pochi mesi fa pareva di prossima realizzazione e che decreterebbe la fine del welfare universale (si può leggere in proposito Ida Dominijanni)

Ma c’è anche altro, nell’esperienza che stiamo vivendo, che ha la potenzialità di trasformare il senso comune e riorientare la politica. Innanzitutto, la brusca interruzione dei ritmi vorticosi di produzione e consumo che sono tipici delle nostre società tardo-capitaliste, se naturalmente provoca una diffusa ansietà per le conseguenze economiche, non è da escludere che possa indurre maggiore cognizione dell’assoluta follia di un sistema che condanna persone a rischiare la vita per lavorare, non solo perché chiamate “in prima linea”, non solo per rispondere alle necessità della produzione, ma anche (spesso allo stesso tempo) perché completamente prive di tutela in caso di assenza dal lavoro. Un sistema che induce a sacrificare per il lavoro aspetti essenziali della propria vita, come le relazioni e la cura. Un sistema, infine, fondato su diseguaglianze – di età, genere, classe, status migratorio… – che la crisi del Coronavirus ha fatto emergere con un’evidenza difficilmente riproducibile in condizioni “ordinarie”. Saprà questa crisi generare anticorpi diffusi contro il dominio incontrastato del modello neoliberale, che fa dell’homo oeconomicus la misura dell’umano, e del singolo il responsabile ultimo della propria sopravvivenza?

In secondo luogo, le misure messe in atto per “sconfiggere” il virus, tanto dure da riconfigurare interamente i nostri stili di vita, ci hanno indotto a sperimentare concretamente – seppure per un periodo di tempo che si auspica breve e comunque a scadenza – il peso di politiche che comprimono la sfera dei diritti e delle libertà individuali. In un tempo storico percorso dalla fascinazione per i modelli di esercizio autoritario del potere, non c’è forse migliore occasione di immunizzarsi rispetto alla tentazione antidemocratica.

Infine, il Covid-19 ha fatto strame della retorica sovranista. A nulla – se non ad avvelenare i pozzi – sono serviti i proclami razzisti e le grida alla chiusura dei confini. Il virus non conosce confini, e ci consegna l’immagine di un pianeta interdipendente con una forza che nessun discorso politico o teorico era fino ad oggi riuscito a conseguire. Non solo, ma proprio nel momento in cui l’egoismo del benessere sembrava destinato a conquistare definitivamente la scena politica, il virus ci ha fatto sperimentare il rovesciamento: siamo diventati i corpi da bloccare alla frontiera; da isolare su una nave, o su un aereo, con divieto di sbarco. Non importa quanta bianchezza, cultura o ricchezza portiamo con noi.

Sarebbe auspicabile che tutto questo ci insegnasse qualcosa. Che ci insegnasse, per esempio, l’empatia verso chi fugge, verso le sue paure. Anche noi ci siamo trovati in pochi giorni a prendere dei treni in preda al panico. Anche noi abbiamo sentito quanto gli altri possono diventare ostili verso di noi quando ci percepiscono come pericolo.

Se il rischio di contagio e l’imperativo della cura altrui ha saputo agire sulle nostre coscienze inducendoci a pensare oltre noi stessi/e, saremo in grado di trasformare questa esperienza in energia politica, per esempio di fronte a grandi sfide comuni come quella ambientale o alla lotta alle diseguaglianze sociali? Saremo in grado di allargare la cognizione della relazionalità e interdipendenza degli esseri umani, per includere tra le vite che “contano” anche quelle che stanno premendo ai confini dell’Europa e che l’Europa ha deciso di abbandonare a se stesse?

Quando tutto questo finirà (perché finirà, vero?) dovremo pensare ai nostri morti e ai nostri vivi, a ricostruire un sistema sanitario pubblico all’altezza delle sfide poste dall’invecchiamento della popolazione, a riparare un mondo del lavoro distrutto dalla mancanza di tutele, a ridare nelle nostre vite spazio ad altro che al profitto o alla pura sopravvivenza, e a fare spazio ad altre e altri, che chiedono protezione.

Se l’esperienza terribile che stiamo vivendo saprà farsi nutrimento per un nuovo senso comune e un approccio etico e politico ispirato a valori quali cura, responsabilità, solidarietà, l’eclissi che oggi sembra oscurare il pubblico potrebbe finire. Potrebbe farsi strada un certo chiarore. Potrebbe persino, per molte e molti di noi, per la mia generazione – ecco il mio azzardo! – essere l’esperienza di più grande politicizzazione che ci è toccato in sorte di vivere come collettività.

(https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/03/17/ricostruire-lo-spazio-pubblico-dopo-leclissi-della-politica/)


(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 30 marzo 2020)

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