2 Gennaio 2014
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Segretaria sì e ministra no?

di Sara Gandini

Nell’ospedale in cui lavoro sono apparentemente tutti maschi.

Primario, direttore, medico, oncologo, chirurgo, ricercatore, dermatologo, biologo, coordinatore, tecnico. Le uniche figure femminili sono le segretarie. Anche se l’unico segretario maschio ci tiene ad essere chiamato al maschile. Poi nel linguaggio parlato compaiono le infermiere e più raramente le biologhe o le ricercatrici. Mai la direttora, la primaria o la medica.
Eppure, persino un’istituzione antica come l’Accademia della Crusca comincia a riflettere sulla “questione femminile” (o forse dovremmo cominciare a chiamarla “questione maschile”?) e invita a pensare al linguaggio che usiamo perché i mutamenti sociali sono oramai evidenti a tutti: le donne ci sono, e sono brave!, in tutte le professioni e a tutti i livelli professionali.
La Crusca invita a chiederci perché usiamo “infermiera”, “operaia” e “sarta”, ma sembra essere un problema significare con il linguaggio che le donne sono anche “ingegnere” o “primarie”. Che dipenda dal prestigio sociale che diamo alle professioni?
E pensare che già nel 1987 l’anglista Alma Sabatini produsse un lavoro fondamentale, intitolato Il sessismo nella lingua italiana, che denunciava il “principio androcentrico” della lingua italiana, secondo cui ”l’uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico”.
Qualche mese fa la presidente della camera Boldrini si è dovuta arrabbiare all’ennesima richiesta di essere chiamata al femminile, dichiarando: «Se una giudice chiede di essere chiamata la giudice, se una ministra chiede di essere chiamata la ministra, se una presidente della Camera chiede che sulla carta intestata sia scritto “la presidente”, lo fa per affermare che non c’è più un’esclusiva maschile per certi lavori, non c’è più una normalità maschile della quale tutte noi saremmo provvisorie eccezioni». E ha legato questo ragionamento a quello della violenza sulle donne spiegando che «si farà un passo avanti decisivo quando smetterà di essere solo l’impegno di un genere».
Questa cosa evidentemente rappresenta un problema perché qualcuno si è anche inventato il “maschile neutro” e sostiene che usare parole come “architetta” o “avvocata” è errato. Si tratta di trucchi per includere un femminile che eccede il mondo maschile. È interessante infatti osservare le contorsioni linguistiche di cui alcuni giornalisti sono capaci, pur di non usare il femminile. Fino ad arrivare all’errore grammaticale, per esempio declinando al femminile un sostantivo maschile in frasi come «La ministro Kyenge è arrivata a Rinascita».
Alcuni mi guardano sorridendo quando parlo di come il linguaggio plasmi le nostre vite e il senso del nostro muoverci nel mondo. Ribattono che sono solo parole e che sono le donne stesse a voler essere chiamate al maschile. In effetti è vero: solo due generazioni fa le artiste, le scrittrici, le poetesse dovevano usare pseudonimi maschili per farsi pubblicare.
Forse è ora che cominciamo a chiederci che cosa accadrà al mondo, quando le donne non avranno più bisogno di mimetizzarsi al maschile. Paola Di Nicola, nel suo interessante libro “La giudice. Una donna in magistratura” (Ghena Editore 2012), racconta: «Sono una donna, faccio il lavoro di giudice, sono quindi un giudice donna, per cui va utilizzato l’articolo femminile. È solo un articolo, due lettere, che comunque fanno pensare e, forse un giorno, senza pretesa per nessuno, cambieranno il mondo».
Speriamo che anche a Rinascita articoli e desinenze aiutino a pensare.
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