14 Luglio 2015
27esimaora.corriere.it

Sei cuoche seguaci della dea Estìa

di Giovanna Pezzuoli

Sono sei cuoche per passione, o anche cuoche dalla nascita, come si definisce una di loro, certo cuoche non per caso. Eppure sono architette, docenti al Politecnico di Milano, formatrici, giornaliste, esperte di comunicazione… Che cosa ci fanno nella cucina del Circolo della rosa di Milano (in via Calvi 29) sei donne diverse, che non sono cuoche di professione? Loro, le sei signore dei fornelli, la chiamano cucina relazionale. E ora in un piccolo libro hanno riposto alcuni dei loro segreti e dei loro vissuti, tra racconti, pensieri, fatti e naturalmente… ricette.

«Fuochi. La cucina di Estìa» di cuoche varie, a cura di Liliana Rampello, viene presentato dalla Libreria delle donne  oggi alle ore 19,30, alla Cascina Triulza (dalle 19 biglietto Expo 5 euro; per raggiungere la Cascina, dietro al padiglione Corea, M1 Rho/Fiera o Passante Ferroviario Expo). Saranno presenti, con Sabina Ciuffini, Ida Farè, Stefania Giannotti e le altre autrici.

Perché Estìa? Dea greca del focolare e del nutrimento, Estìa è una dea zingara che ama vagabondare felice dell’accoglienza che ogni città le riserva, lasciando a Dioniso il suo posto alla mensa degli dei dell’Olimpo.

Estìa è anche il nome della piccola comunità delle cuoche che oltre a firmare questo libro, cucinano, a turno, o alcune volte insieme, per altre donne e uomini che frequentano la Libreria delle donne e amano una politica delle relazioni. In questo contesto, c’è più gusto a cucinare e, cucinando, a parlare di sé e del mondo. Come mettersi intorno al focolare che scalda e cuoce, in un cerchio che si allarga. Eccole dunque: Ida Farè, Stefania Giannotti, Annamaria Rigoni, Clelia Pallotta, Rossella Bertolazzi e Ottavia Colabella.

Ma, al tempo della libertà femminile, che cosa ci fa la dea del focolare (e dell’accoglienza) nel cuore della politica delle donne?

Risponde Ida: «Io credo che ci stia benissimo, poiché nel nuovo secolo gran parte dei nuovi lavori si orienta verso un’economia della cura, cura dei corpi, cura della terra, e verso un’economia dei servizi alla persona».

Così, nella cucina relazionale il cibo dalla cucina passa tra i tavoli a nutrire la buona conversazione, creando cultura condivisa.

Prosegue Ida:

«Di solito nelle cucine i ruoli sono ben definiti. Chi pela le patate e taglia le verdure e chi invece fa solo lo chef. Da noi non è così. Mi ricorda un po’ la mia esperienza quando lavoravo al “Manifesto”, un giorno scrivevi l’articolo di fondo, l’altro stavi in tipografia… Anche qui tutte fanno un po’ di tutto e quello che vogliono!»

Ma il risultato è sempre un cibo preparato ad arte, dribblando quello che scherzosamente Ida chiama «punto di catastrofe», ovvero l’incidente che in cucina può mandare tutto all’aria oppure risolversi con un gesto creativo.

Spiega Stefania, l’unica che ha provato l’avventura del mestiere: «Non c’è molta differenza nel cucinare per le amiche o per professione, la passione, la fissazione per il cibo sono le stesse. Del resto come sarebbe possibile resistere senza passione in piedi ai fornelli, per ore e ore, a quelle temperature infuocate? Un clima relazionale si crea anche in un ristorante che è un po’ come una grande famiglia. Nel mio caso la passione per la cucina si è incrociata con quella politica. E nutrire il pensiero oltre che i corpi è ancora più bello…»

Cucina di memoria, quella di Estìa, un sapere che inizia con una bambina che, magari in piedi su una panchetta, guarda sua madre o la nonna o un’altra donna, impegnata ai fornelli. Aggiunge Stefania:

«Questo non contraddice una forte attenzione verso tutto ciò che è innovativo. A volte i giovani si rivolgono solo all’innovazione, ma un grande chef come Massimo Bottura, il numero due al mondo, dice che sua madre lo ha aiutato a capire ogni cosa. La memoria non è un ostacolo alla creatività»

Così Ida ricorda le parole di sua zia su «i tempi, il crudo, il cotto, il taglio, il tritato, il bollito, il bruciato, il rimedio, il salvato e il gettato…». Perché la zia raccomandava di imparare soprattutto «le basi», ossia le tecniche e i tempi del cucinare che sono come un alfabeto e insegnano quando e come alzare o abbassare un fuoco, la differenza dei brodi di carne o di pesce, cosa sono il «punto di fumo» dell’olio per i fritti e il fondo di cottura dell’arrosto, come lavorare una pasta o una pastella…

Perché le donne che hanno sempre nutrito il mondo e «costruito una ferrea economia domestica sulla base del bricolage del possibile», possono ora attingere a questo sapere antico al tempo della libertà femminile, quando il privato domestico non è più una prigione, né l’unico destino possibile.

Il tempo speso in cucina, scrive ancora Ida, «è un esercizio della mente, una lotta con le scadenze, gli appuntamenti e il saper fare delle mani, un insegnamento per il controllo delle emozioni, mette alla prova nelle relazioni, è una efficace medicina contro la depressione… Ma c’è un ultimo fattore, raccomandato dalla dea, che forse è il più importante, ed è la misura. La misura è una lotta tra il troppo e il troppo poco, che in cucina si esprime con il misterioso q.b. (quanto basta)».

La relazione è dunque il filo d’oro che unisce le nostre cuoche in un vincolo tanto importante e riuscito quanto più è leggero: «la cucina diventa un danzare tra intimi pensieri, fuochi, cipolle, patate e coltelli» scrive Annamaria Rigoni. «Il gesto di cucinare anche se affrontato in solitudine ha già come compagni i consumatori: a loro pensi, che ti stanno muti e invisibili a fianco per tutto il tempo. Se piacerà, se possono mangiare tutto, chi detesta l’aglio e chi odia la cipolla…», scrive Stefania Giannotti e aggiunge: «Il cibo è percorso facile e abbreviato, per favorire la comunicazione. È un piacere da donare e condividere, per di più un piacere del corpo, quindi forte, ma anche praticabile e spendibile con leggerezza. Non ci sono molti altri modi per scambiare il piacere del corpo oltre al sesso, assai più problematico…».

Cucina come attività manuale e di pensiero che diventa arte, passione, fissazione, «fare autorevole e servizievole insieme senza riprodurre il rapporto servo-padrone», osserva Clelia Pallotta. E a questo proposito Stefania cita la grande filosofa Simone Weil: «la civiltà più completamente umana dovrebbe essere quella che ha per centro il lavoro manuale, quella in cui il lavoro manuale costituisce il valore supremo».

E come piccolo dono, ecco due ricette:

Pasta alla poverella (di Ida)

Ingredienti: cipolle, acqua, rosmarino, olio e sale. spaghetti, maccheroni o quello che c’è.

Le cipolle abbondanti e tagliate fini vanno cotte e stracotte con olio, sale e acqua fino a formare una crema alla quale infine si aggiunge un trito di rosmarino. La pasta può essere lunga o corta, meglio ancora se si trova a forma di losanghe. Quando questa ricetta poverissima è entrata nell’Olimpo della cucina mediterranea al posto dell’acqua si è cominciato a usare il vino bianco, ma io preferisco la versione originale alla quale non faccio mancare pepe e pecorino.

Zuppa di scarola ceci e scaglie di pecorino (di Stefania)

Si incomincia dalla sera prima mettendo a bagno in acqua con una punta di bicarbonato (serve ad ammorbidire) circa 80 gr. di ceci a persona. La mattina li metto subito a cuocere con una carota tagliata a tocchetti, e un bel gambo di sedano o meglio l’interno di una piantina. Insomma sedano. Uno spicchio di aglio anche intero tanto si disfa e tre o quattro foglie di lauro che poi toglierò. A parte cuocio in un tegame con uno spicchio di aglio imbiondito in olio extravergine di oliva una o due piante di scarola pulita, lavata e tagliata a striscioline. Aggiungo un peperoncino fresco sminuzzato e salo. Dovrebbe essere sufficiente l’acqua sua, ma se la vedete asciutta aggiungetene un bicchiere. Passano diverse ore ma non so dirvi quante, certe volte due certe volte tre… prima che i ceci siano cotti. Ora li scolo ma non troppo e gli unisco la scarola. Controllo la densità (non deve essere troppo liquida), il sapore (non deve essere troppo saporita perché aspetta il pecorino), e se è piccantina abbastanza o necessita di una grossolana macinata di pepe nero. La servo già spiattata nelle fondine con una bella manciata di pecorino romano che preferisco a piccolissime scaglie, ma va bene anche grattugiato.

 

(27esimaora.corriere.it, 14/7/2015)

Print Friendly, PDF & Email