6 Giugno 2013

Sì alla Convenzione anti femminicidio. No alla genericità del “genere”

di Clara Jourdan

Sul Fatto Quotidiano del 30 maggio scorso è apparso un interessante articolo di Sandra Amurri sul voto alla Camera della Convenzione di Istanbul contro il femminicidio. In particolare, dà la bella notizia dello «scampato pericolo che venisse incluso l’articolo 3 della Convenzione secondo cui “la violenza nei confronti delle donne” comprende “tutti gli atti di violenza fondati sul genere” allargando il fronte anche alle coppie gay come auspicato da alcuni esponenti del Pd e da Sel». È però inesatto dire che l’autorizzazione della Camera dei deputati alla ratifica della Convenzione di Istanbul non include l’art. 3. Lo include, ma con la nota verbale che contestualmente alla firma della Convenzione il Governo italiano ha depositato presso il Consiglio d’Europa, con la quale ha dichiarato che «applicherà la Convenzione nel rispetto dei princìpi e delle previsioni costituzionali». Tale dichiarazione interpretativa – apposta anche a seguito di quanto chiesto al Governo con le mozioni approvate al Senato il 20 settembre 2012 – è motivata dal fatto che la definizione di “genere” contenuta nella Convenzione è ritenuta troppo ampia e incerta. L’art. 3, lettera c) della Convenzione infatti recita: «Con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini» (vedi Camera dei deputati Dossier ES0036).

Chiarito questo, trovo molto importante che il parlamento italiano non abbia accettato l’idea del “genere”, che tende a neutralizzare la differenza sessuale e nello specifico nascondere il fatto che il problema sociale della violenza contro le donne fa parte della “questione maschile”. Sono uomini che uccidono e donne che vengono uccise, e per motivi legati alla sessualità maschile che non accetta la libertà femminile. Parlare di “genere” sposta invece lo sguardo alla superficie culturale della realtà, che diventa simbolicamente indifferente e perde il suo senso. E come si vede dagli interventi citati nell’articolo il “genere” si presta a tipiche operazioni maschili: stare con le donne quando fa comodo. Il linguaggio dunque è un campo di battaglia cruciale e non va mai sottovalutato.

(Clara Jourdan, www.libreriadelledonne.it, 6 giugno 2013)

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