9 Ottobre 2015
il manifesto

Svetlana Aleksievic, collezionista di voci offese

Il Nobel alla giornalista di lingua russa che ha tessuto trame sonore per raccontare la seconda guerra mondiale nell’ottica delle donne, e ha ascoltato le conseguenze dell’invasione dell’Afghanistan: quella inchiesta le valse l’accusa di avere infangato l’onore dell’Armata Rossa

di Valentina Parisi

Nella cele­bre instal­la­zione di Il’ja Kaba­kov La cucina comu­ni­ta­ria, espo­sta per la prima volta nel 1991, fra­gili pez­zet­tini di carta sospesi al sof­fitto insieme a oggetti di uso quo­ti­diano oscil­la­vano insieme al river­bero delle voci regi­strate di per­so­naggi assenti – gli abi­tanti invi­si­bili di un vec­chio appar­ta­mento sovie­tico in con­di­vi­sione, inca­paci di abban­do­nare quello spa­zio a un tempo sot­til­mente poe­tico e clau­stro­fo­bico di cui erano pri­gio­nieri. Una sen­sa­zione ana­loga è quella che si prova immer­gen­dosi nella trama squi­si­ta­mente sonora e rare­fatta delle opere di Sve­tlana Alek­sie­vic, la gior­na­li­sta di lin­gua russa nata nel 1948 a Sta­ni­slav (ora Ivano-Frankovsk, Ucraina), ma cre­sciuta in Bie­lo­rus­sia, cui è andato il Nobel per la let­te­ra­tura, gra­zie alla «sua scrit­tura poli­fo­nica, un monu­mento ele­vato alla sof­fe­renza e al corag­gio nel nostro tempo». Un Nobel indub­bia­mente ispi­rato da con­si­de­ra­zioni poli­ti­che, che pre­mia la capa­cità di arti­co­lare e ren­dere intel­li­gi­bile all’udito del pub­blico occi­den­tale le voci dis­so­nanti di migliaia di ano­nimi ex inqui­lini di quel gigan­te­sco «appar­ta­mento comu­ni­ta­rio» che era l’Unione Sovietica.

Nella sua con­sueta asciut­tezza, la moti­va­zione for­mu­lata dall’Accademia di Sve­zia coglie alcuni aspetti essen­ziali della scrit­tura di Alek­sie­vic: in primo luogo il suo afflato plu­rale e la sua atten­zione pres­so­ché esclu­siva per le sto­rie degli «umi­liati e offesi» tra­volti dal crollo della civiltà sovie­tica che, nel bene e nel male, era diven­tata con il tempo la loro casa. Una poli­fo­nia, quella orche­strata da Alek­sie­vic, che va intesa in senso let­te­rale, pro­prio a causa della pro­fonda fedeltà dimo­strata (per­lo­mento nelle opere tra­dotte in ita­liano da Ser­gio Rapetti prima per e/o e ora per Bom­piani) a un metodo appa­ren­te­mente ben col­lau­dato: ridurre al minimo la pro­pria pre­senza «espli­cita» nel testo, lasciando quasi esclu­si­va­mente spa­zio ai mono­lo­ghi o ai soli­lo­qui delle per­sone da lei ori­gliate die­tro le quinte, più che intervistate.

Il risul­tato è un ori­gi­nale col­lage di voci nar­ranti in prima per­sona che affonda le pro­prie radici nel dibat­tito mai risolto all’interno dell’intelligencija pro­gres­si­sta russa su come vei­co­lare in forma scritta la cosid­detta vox populi. In par­ti­co­lare – e non è sor­pren­dente, data la sua pro­ve­nienza geo­gra­fica – Alek­sie­vic si rial­lac­cia in maniera dichia­rata all’esperienza tanto inno­va­tiva quanto rimossa di Sof’ja Fedor­cenko, una infer­miera di Kiev che nel 1917, di ritorno dal fronte gali­ziano, pub­blicò Il popolo in guerra, ori­gi­na­lis­simo mon­tag­gio di voci di sol­dati senza nome, perse nel fra­gore della Grande guerra. Adot­tando dopo lun­ghe ricer­che sti­li­sti­che quello che defi­ni­sce «il genere let­te­ra­rio delle voci umane», e citando espli­ci­ta­mente il libro di Fedor­cenko tra le fonti da cui ha tratto ispi­ra­zione, Sve­tlana Alek­sie­vic sem­bra chiu­dere ideal­mente il discorso sulla vox populi aperto dalla infer­miera ucraina. A distanza di quasi un secolo l’occultamento con­sa­pe­vole dell’io auto­rale (guarda caso, in entrambi i casi, fem­mi­nile), che arre­tra a un tempo colmo di pudore e sgo­mento di fronte alle testi­mo­nianze rac­colte in prima per­sona, con­ti­nua a essere per­ce­pito come garan­zia di fedeltà al vero.
Que­sto ten­ta­tivo defi­nito da più parti «uma­ni­sta» (ma che forse sarebbe più cor­retto ribat­tez­zare «illu­mi­ni­sta») di riflet­tere una imma­gine ogget­tiva dei cam­bia­menti in corso all’interno della società al di là di ste­reo­tipi e sche­ma­ti­smi ideo­lo­gici, accom­pa­gna l’autrice fin dagli esordi, vale a dire dal primo libro Ja uechal iz dere­vni (Ho lasciato il vil­lag­gio, una rac­colta di mono­lo­ghi dedi­cata al tema dell’inurbamento) che negli anni Ottanta valse alla redat­trice della Sel’skaja gazeta di Minsk (Gior­nale agra­rio) la repri­menda del Par­tito comu­ni­sta bie­lo­russo, cui peral­tro Alek­sie­vic non era iscritta.

Mag­giore for­tuna si gua­da­gnò il «romanzo di voci» U vojny ne zhen­skoe lico (La guerra non ha un volto fem­mi­nile, tut­tora ine­dito in ita­liano) che, dopo essere rima­sto a lungo «con­ge­lato» in casa edi­trice, uscì prima su rivi­sta e poi in volume, gra­zie al «disgelo» cul­tu­rale pro­mosso da Michail Gor­ba­chev. Affiora qui per la prima volta un tema cui Alek­sie­vic tor­nerà di fre­quente nel corso degli anni, vale a dire la guerra osser­vata da una pro­spet­tiva stra­niata, o quan­to­meno assai lon­tana da quella della reto­rica patriot­tarda. Nel caso in que­stione – di nuovo, in sin­go­lare filia­zione con Fedor­cenko – si tratta del con­tri­buto fem­mi­nile al secondo con­flitto mon­diale (o Grande Guerra Patriot­tica, secondo la dizione russa) e del para­dos­sale destino di migliaia di donne sovie­ti­che, car­ri­ste, avia­trici o sna­j­perki (tira­trici scelte), le quali nell’immediato dopo­guerra fini­rono per scon­trarsi dolo­ro­sa­mente con le aspet­ta­tive della società patriar­cale, che dopo aver sfrut­tato il loro sacri­fi­cio, pre­ten­deva che tor­nas­sero ex abrupto a ruoli più tra­di­zio­nal­mente «fem­mi­nili»: «Non ci sape­vamo vestire, truc­care, né muo­vere, la nostra gio­vi­nezza era tra­scorsa al fronte, e le altre ci davano delle pro­sti­tute, per­ché ave­vamo com­bat­tuto fianco a fianco con gli uomini».

Lodato da scrittori-reduci come Bulat Oku­d­z­hava, La guerra non ha un volto fem­mi­nile aprì una nuova pagina nella per­ce­zione del secondo con­flitto mon­diale in Unione Sovie­tica ed ebbe una straor­di­na­ria riso­nanza anche nelle sue ridu­zioni teatral-cinematografiche – il tea­tro Na Taganke, ad esem­pio, cele­bre per il suo orien­ta­mento pro­gres­si­sta, decise di cele­brare il qua­ran­ten­nale della fine della Seconda Guerra Mon­diale pro­prio con una messa in scena dell’omonima pièce. Meno for­tu­nato fu Ragazzi di zinco (1989), pub­bli­cato da e/o nel 2003 e cen­trato sulla «guerra sporca» in Afgha­ni­stan. Per scri­verlo Alek­sie­vic si recò al fronte e viag­giò per cin­que anni per l’Unione Sovie­tica, rac­co­gliendo le voci di madri e sorelle di caduti (non­ché dei reduci stessi), e ripor­tando alla luce sto­rie agghiac­cianti di alie­na­zione ed esclu­sione sociale, che sto­na­vano deci­sa­mente con la vul­gata cor­rente. Al punto che la gior­na­li­sta fu accu­sata di aver infan­gato l’onore dell’Armata Rossa e venne pro­ces­sata a Minsk nel 1992.

L’anno suc­ces­sivo uscì Incan­tati dalla morte (e/o, 2005), prima opera post-sovietica, dedi­cata all’ondata di sui­cidi che accom­pa­gna­rono la caduta dell’Unione Sovie­tica. Un tema che riaf­fiora anche nella parte cen­trale di Tempo di seconda mano (tra­du­zione di Nadia Cico­gnini e Ser­gio Rapetti, Bom­piani, 2014), testo lie­ve­mente più sfi­lac­ciato dei pre­ce­denti, in cui l’autrice rinun­cia in parte alla sua invi­si­bi­lità, e rende più espli­cito il desi­de­rio – messo in luce anche dagli acca­de­mici di Sve­zia – di eri­gere una sorta di «monu­mento a una civiltà per­duta» (que­sto il titolo di un’altra instal­la­zione di Kaba­kov). Civiltà, quella sovie­tica, che aveva ini­ziato ad andare in pezzi la notte del 26 aprile 1986 con l’esplosione del reat­tore della cen­trale elet­tro­nu­cleare di Cernobyl’.

In Pre­ghiera per Cer­no­byl (1997, il testo che le per­mise di affac­ciarsi per la prima volta in Ita­lia, allor­ché e/o lo pub­blicò nel 2002) Alek­sie­vic docu­menta gli effetti spa­ven­tosi che la più grande cata­strofe tec­no­lo­gica del XX secolo ha avuto nel lungo periodo sulla popo­la­zione locale, tra il silen­zio col­pe­vole delle auto­rità, la rimo­zione siste­ma­tica del disa­stro e il col­lasso, da lì a breve, di qual­siasi forma di tutela sani­ta­ria o sociale.

Baste­rebbe pas­sare in ras­se­gna i temi affron­tati da Sve­tlana Alek­sie­vic nei suoi libri per capire che il Nobel a lei attri­buito è un sasso lan­ciato con per­fi­dia nella sta­gno della poli­tica cul­tu­rale di Putin. A giu­di­care da una fugace incur­sione nel web russo, non è affatto da esclu­dersi una stru­men­tale quanto para­dos­sale appro­pria­zione in chiave nazional-popolare della sua figura: molto tempo è pas­sato da quando, con meriti tutti diversi, l’ultimo autore di lin­gua russa, Iosif Brod­skij, rice­veva il pre­mio, nell’ormai lon­ta­nis­simo (e sovie­tico) 1987.

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