20 Giugno 2013
il manifesto

Testimone e risarcita per un giusto processo. Proviamoci anche con i soldi.

di Antonio Bevere

 

Nel preambolo della Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza sulle donne è riconosciuta la natura strutturale di questo fenomeno, che lo rende, da un lato, manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi; dall’altro, meccanismo cruciale, per la conservazione della subordinazione femminile alla supremazia degli uomini. Di qui la premessa che «l’uguaglianza di genere de iure e de facto è un elemento chiave» per la prevenzione della violenza maschile.
A questo va congiunta la constatazione che questa violenza sta aumentando – in un nuovo spessore di antagonismo e di resistenza – in stretta correlazione al crescente successo dell’emancipazione femminile, all’interno della coppia, della famiglia, dell’ambiente di lavoro, della vita politica.
La donna ha infranto la pace sociale fondata sulla sua globale sottomissione e la reazione dell’uomo si arma di nuova violenza, in tutte le occasioni di confronto, per un’impossibile restaurazione dei vecchi rapporti di forza.
Gli Stati che hanno aderito alla Convenzione sono ben consapevoli della svolta storica e drammatica che i rispettivi cittadine e cittadini stanno vivendo in un conflitto sociale, che ha la negativa caratteristica della prevalente invisibilità, della difficile percezione collettiva, che sono superate solo in occasione di clamorosi fatti di sangue. Di qui il paziente, certosino, difficile impegno degli Stati di dare il buon esempio, contraendo l’obbligo di astenersi «da qualsiasi atto che costituisca una violenza nei confronti delle donne» e di garantire che «le autorità, i funzionari, i rappresentanti statali, le istituzioni e ogni altro soggetto pubblico che agisca in nome dello Stato si comportino in conformità con tale obbligo». Di qui l’impegno di adottare «le misure legislative e di altro tipo, necessarie per esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali…»
Questi impegni, in considerazione del mio lavoro, mi vedono in gran parte coinvolto, portandomi a tornare sul tema della donna come protagonista e come utente della funzione giudiziaria. Sotto quest’ultimo profilo, la donna che ha subito angherie, lesioni fisiche e morali si presenta sempre più spesso non solo nella tradizionale veste di dolente vittima, ma anche di titolare della pretese risarcitorie, la cui soddisfazione sollecita e precisa costituisce un indubbio motivo dissuasivo della ripetizione di esibizioni aggressività maschile. Un dato confortante è costituito dal superamento del vecchio principio Unus testis nullus testis, nel senso che la parte lesa, anche se unica teste di accusa, non presenta una affidabilità ridotta, bisognevole di conferme dei cosiddetti riscontri. La testimonianza della vittima, al pari di tutte le testimonianze, una volta che sia stata sottoposta al generale controllo sulle sue capacità percettive e mnemoniche, può costituire, da sola, la base su cui fondare l’affermazione di responsabilità della persona accusata, quando risulti la corrispondenza al vero della sua rievocazione dei fatti, non smentita da elementi di pari o prevalente spessore di credibilità.
Il giudice, accertato il fatto lesivo, secondo la comune giurisprudenza, ha il dovere di liquidare non solo la somma di denaro che sia reintegratrice della diminuzione patrimoniale, ma anche la somma che sia di ristoro pecuniario per gli accertati comportamenti, che inequivocabilmente sono da ritenere – secondo la comune esperienza e secondo consolidati criteri della civile convivenza – fonte di sofferenza per chi ne sia stato investito.
Questa impostazione venale della questione donna è utile per mettere in evidenza un ostacolo all’operatività concreta delle disposizioni della Convenzione, dirette a efficacemente «proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza». All’art. 18 è previsto, per tale finalità, l’impegno degli Stati contraenti di adottare «misure legislative o di altro tipo necessarie, conformate al loro diritto interno, per garantire la cooperazione tra tutti gli organismi statali, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri…».
Questa cooperazione, secondo la mia esperienza di tribunale, è elusa da gran parte dei giudici penali che, una volta accertata e sanzionata la responsabilità per i più diffusi reati anti-donna (maltrattamenti, stalking, molestie, lesioni, violenza privata), invece di immediatamente scandire gli specifici elementi valutativi da considerare fonte di sofferenza, invece di quantificare la entità del danno e la correlata dimensione del ristoro pecuniario, girano la questione al giudice civile. Non si tien conto che lo stesso giudice penale – già investito della cognizione di quel reato – è in grado, con il corredo degli atti di causa acquisiti specialmente in primo grado, di meglio apprezzare la responsabilità, anche agli effetti civili e del risarcimento dei danni.
A giustificazione di questa omissione, non rileva che nel corso del dibattimento la difesa della parte civile abbia omesso eventualmente di formulare le domande, di chiedere accertamenti risolutivi, sui danni morali e materiali, causati dalla condotta dell’imputato: la legge riconosce al giudice i necessari poteri integrativi e di supplenza. Pertanto ingiustificatamente il processo penale, nella grande maggioranza dei casi, si autolimita, sul piano degli interessi civili della vittima, a premessa silente dell’accertamento che più concretamente interessa la vittima. Questa è così costretta, una volta esauriti i tre gradi di giudizio penale, a ripercorrere una nuova scalinatella longa longa, per arrivare alla definitiva conquista del ristoro dei danni.
I giudici del tribunale civile di Roma si son mostrati ben lieti e disponibili a illustrarci, dati alla mano, quali siano la sofferenza e i danni causati da un tipo di parolaccia, dalla lesione di un braccio, dalla angoscia di una persecuzione.
Ci vuole ben poco, quindi, perché i giudici penali (con l’ausilio del pm – interessato all’intero accertamento del fatto e delle sue conseguenze – e con la dovuta iniziativa dei difensori della parte civile) raggiungano il necessario ampliamento conoscitivo e la dovuta competenza tecnica per far ottenere alla giustizia italiana il riconoscimento di «esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali…» (art. 5 comma secondo della Convenzione).

 

(il manifesto, 20/06/13)

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