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17 Aprile 2013
Corriere della sera

Tutto si vende. Anche l’onore

di Massimo Gaggi

Michael Sandel contesta la dilagante mercificazione dei costumi e dei
valori. «Posti in fila, celle singole, uteri: il mercato della nuova società
di mercato»

«Pensavo che la crisi finanziaria nella quale il mondo è precipitato a
partire dal 2008 avrebbe segnato anche l¹inizio di una riflessione critica
sulla fede cieca nei mercati che si è diffusa in quasi tutti i Paesi dopo la
fine della Guerra fredda. Invece l¹attenzione si è concentrata sull¹avidità
umana e i suoi eccessi. Senza peraltro riuscire a frenare più di tanto la
finanza senza scrupoli. Il grande tema del nostro tempo, il fenomeno più
corrosivo per i sistemi democratici, non riguarda, però, quello che succede
a Wall Street, ma lo straripamento della cultura della transazione, che ha
progressivamente invaso aree e valori che in passato non erano mai stati
considerati negoziabili in una logica di mercato. Oggi tutto, o quasi, è in
vendita: dall¹affitto di un utero materno alla cella singola con qualche
comfort in più che le carceri di alcuni Stati americani offrono, a
pagamento, ai condannati più facoltosi». Un ciclo di conferenze digitali
sulla giustizia, le lezioni online seguite da decine di migliaia di studenti
nel mondo e un saggio sui limiti etici del mercato hanno trasformato Michael
Sandel, filosofo morale di Harvard, in un guru planetario. Il «Financial
Times» l¹ha definito la «rockstar dell¹etica» e lui, che in questi giorni è
in Europa per il lancio del suo libro Quello che i soldi non possono
comprare, trova il tempo per un¹intervista telefonica con «la Lettura».
Lei critica il mercatismo che si è diffuso nell¹era di Reagan e della
Thatcher, ma sembra deluso anche dal comportamento dei partiti progressisti.
Eppure, per restare negli Usa, Barack Obama ha cercato di ridare centralità
ad alcuni valori sociali come la tutela della salute, oggi gravemente
compressi da un sistema sanitario privato che ha costi molto elevati.
«Io non osteggio l¹economia di mercato: è uno strumento primario per la
costruzione del bene comune, il modo migliore per creare ricchezza e
distribuire le risorse. Ma da anni assistiamo al progressivo slittamento
dall¹economia di mercato alla società di mercato nella quale tutto diventa
negoziabile. È una deriva molto pericolosa, che le forze democratiche
avrebbero dovuto arginare. Non è successo e leader progressisti come Bill
Clinton e Tony Blair, che si sono limitati a limare le punte più estreme del
mercatismo anziché mettere in discussione la sua logica, si sono assunti una
responsabilità enorme. Hanno legittimato questa progressiva estensione della
cultura della transazione a sfere che fin qui erano state riservate a norme
non mercantili: famiglia, comunità, scuola, salute. Così le nostre società
hanno finito per smarrire la bussola morale. Con Obama le cose non sono
cambiate in modo sostanziale. Pensavo che dopo la crisi del 2008 tutto
sarebbe stato ripensato. E invece abbiamo visto solo qualche riforma, per di
più alquanto timida, deimercati finanziari. Anche Obama, come altri prima di
lui, ha cercato di moderare gli eccessi, ma ha comunque abbracciato la fede
nel mercato. È anche per questo che negli Usa il dibattito sui suoi limiti
etici non decolla».

Altrove va meglio?
«In Europa, in Brasile, in India e in altre parti dell’Asia è diffusa la
sensazione che un limite etico al mercato esista, anche se il perimetro di
ciò che si può comprare e vendere si è allargato di parecchio anche qui.
Negli Stati Uniti e in Cina, invece, sono in molti a sostenere che quello
del mercato è un valore assoluto, al quale non va posto alcun limite».

Nel libro lei analizza le implicazioni di un’infinità di casi. Da quelli più
banali ‹ saltare la fila, a pagamento, negli aeroporti o a Disneyland ‹
all¹uomo che si offre come cavia all’industria farmaceutica. Qual è il
mutamento più pericoloso per la democrazia?
«La privatizzazione della guerra. I privati, che prima fornivano solo
servizi logistici, sono entrati anche nelle attività militari. Negli anni
dei combattimenti, in Iraq e Afghanistan c¹erano più contractor privati
americani che soldati mandati dal Pentagono. L’outsourcing della guerra
altera i meccanismi di decisione democratica, fa entrare in gioco interessi
economici, corrompe il civismo e il principio di responsabilità politica.
Dare le guerre in appalto è un fatto enorme. Ma c’è mai stata una
discussione pubblica su questo argomento? Abbiamo votato? No, è
semplicemente successo».

Forse è successo anche per la grande forza delle lobby. Che Obama aveva
promesso di ridimensionare. Non è successo. Magari anche perché ormai le
campagne elettorali americane si risolvono soprattutto in una gigantesca
raccolta di fondi. E qui Obama ci ha messo del suo, quando, 5 anni fa,
avendo alle spalle molti donatori, preferì il sistema privato di
finanziamento della battaglia per la Casa Bianca, mentre paradossalmente il
suo avversario, John McCain, conservatore e antistatalista, era per il
sistema pubblico.
«Esatto. Il sistema di finanziamento delle campagne elettorali è
tremendamente degenerato, è indifendibile. Ed è un altro caso lampante di
vita democratica e rapporti civici trasformati in commodity».

Ma se la politica, almeno negli Stati Uniti, è ormai profondamente
condizionata da questi meccanismi, da dove si può ripartire? Dal dibattito
accademico che lei sta riuscendo a trasformare in un fenomeno di massa?
«Sono esperimenti dai risultati incoraggianti. In India, grazie all’aiuto
del governo, la mia conferenza davanti a cento studenti di New Delhi è stata
seguita da altre 500 università del Paese collegate via video-link. E
nell¹autunno scorso ad Harvard abbiamo sperimentato con successo una nuova
tecnologia basata su iPod e iPad per creare un collegamento globale con
studenti cinesi, giapponesi, dell’India e del Brasile. Così i giovani di
cinque Paesi potevano vedersi su grandi schermi e sono intervenuti in
diretta per esprimere le diverse sensibilità e i loro punti di vista su
giustizia, etica e mercato. È anche questo un tentativo di creare una
piattaforma sulla quale far crescere un dibattito pubblico. Oltre che unmodo
per mettere le lezioni delle accademie più prestigiose alla portata anche di
chi non può permettersi di pagare un¹iscrizione da 50 mila dollari l’anno.
Ma questo è un altro discorso».

Chiara sulla distorsione di certi meccanismi democratici, la sua analisi
pare a volte un po’ radicale quando si dedica ai casi della vita di tutti i
giorni, dei rapporti famigliari. Pagare per saltare una coda non è poi così
grave: anche il risparmio di tempo ha un valore economico. Lei, poi, cita
alcune scuole, in aree molto disagiate degli Stati Uniti, che sono arrivate
a dare piccoli premi in denaro agli alunni per spingerli a leggere, a
impegnarsi nello studio. Soluzioni estreme, è vero. Ma è davvero illegittimo
in casi particolarmente difficili? In fondo da sempre i genitori
incoraggiano con qualche dono i figli che ottengono buoni risultati a
scuola.
«Siamo passati da un sistema basato su valori sociali nei quali
individualmente potevi dare qualche premio o incentivo, a considerare
normale che il mercato regoli anche sfere che fino a 30 anni fa erano
considerate beni sociali non commerciabili: sicurezza nazionale, giustizia,
scuola, salute, protezione ambientale, la stessa procreazione. Perché
preoccuparsi di questa mercatizzazione? Per due motivi. Il primo, più
evidente, riguarda il principio di uguaglianza. In una società nella quale
tutto è in vendita, la vita diventa ancora più difficile per chi ha meno. La
mancanza di denaro non porta solo a vivere in condizioni più modeste, ma
diventa una condanna. Il secondo, forse meno evidente, più difficile da
descrivere, riguarda il potere corrosivo dei mercati. Dare un valore
monetario a un bene civico lo corrompe, svaluta o altera la sua immagine.
Abbiamo visto che nelle scuole che multavano i genitori che venivano a
prendere i figli in ritardo, i ritardi sono aumentati. Perché il valore
della puntualità è svanito e la multa è stata percepita come una tariffa: il
prezzo di un sistema di recupero all¹uscita più flessibile. Allo stesso modo
pagare gli studenti per studiare riduce, nella loro mente, il valore etico
dello studio. Le cito ancora un caso che mi viene rinfacciato spesso. Perché
opporsi all¹invasione della pubblicità anche negli spazi pubblici? Che male
c¹è a dare il nome di un marchio commerciale a uno stadio, un auditorium o
un museo? Certo, qui non c’è un danno diretto, ma il fenomeno corrosivo si
manifesta a un altro livello. Giovani che, avvicinandosi con entusiasmo allo
sport, si imbattono in una giungla di brand. Così finiscono per percepire
anche le Olimpiadi come un’estensione della civiltà dei consumi. È questa
trasformazione silenziosa del cittadino in consumatore che corrode le nostre
sensibilità democratiche».

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