1 Maggio 2015
il manifesto

Un dono sovversivo

di Alessandra Pigliaru

 

Intervista. Un incontro con Genevieve Vaughan, filosofa e femminista americana che studia le società del libero scambio, individuando in quella gratuità, che ha radici materne, il principio anticapitalista per eccellenza

 

Tra antro­po­lo­gia, filo­so­fia, semio­tica e lin­gui­stica, secondo Gene­vieve Vau­ghan l’economia del dono è effi­cace per­ché le si rico­no­scono le radici nel dono materno uni­la­te­rale. La scelta radi­cale di par­lare di dono attra­verso una cri­tica fem­mi­ni­sta è stata una pra­tica e una sco­perta, metodo teorico-pratico di let­tura della realtà. Negli anni, alcune inter­se­zioni – come per esem­pio i moderni studi matriar­cali fon­dati da Heide Göttner-Abendroth – hanno lam­bito le ori­gi­nali ana­lisi di Vau­ghan sull’urgenza dell’economia del dono. Pas­sando dal ripen­sa­mento delle cate­go­rie mar­xiane fino alle pra­ti­che messe in atto da società pre-capitalistiche e spesso matri­cen­tri­che ancora esi­stenti, i suoi inter­venti sono inte­gral­mente con­sul­ta­bili al sito inter­net: www​.gift​-eco​nomy​.com.
Tra i suoi libri più signi­fi­ca­tivi vi è cer­ta­mente quello che rias­sume la que­stione dell’economia del dono, For-giving. A femi­nist cri­ti­cism of Exchange (1997) tra­dotto in Per-donare. Una cri­tica fem­mi­ni­sta dello scam­bio (Mel­temi, 2005). Più recenti sono invece The Gift in the Heart of Lan­guage: the mater­nal source of mea­ning (Mime­sis Inter­na­tio­nal, 2015) e Homo Donans, scritto qual­che anno fa in inglese e ora in ita­liano in e-book (edi­zioni VandA, 2015). Negli Stati Uniti ha creato una fon­da­zione com­po­sta da donne che si è occu­pata di anti­nu­cleare, pace, anti­raz­zi­smo e varie altre que­stioni. Si chia­mava Foun­da­tion for a Com­pas­sio­nate Society. «Mi hanno detto che la parola com­pas­sione non suona bene in ita­liano – rac­conta Vau­ghan – in realtà inten­devo solo dire che la società, invece di cru­dele, doveva essere com­pas­sio­ne­vole. È stato un ten­ta­tivo di cam­biare i valori attra­verso la pratica».

 

Quando ha comin­ciato a riflet­tere sul dono?
Ho ini­ziato negli anni Ses­santa, mi ci è voluto però molto tempo per arri­vare a un pen­siero com­piuto. Sono una slow phi­lo­so­pher, ho pra­ti­cato slow thin­king. Allora c’erano pochi autori che ne par­la­vano. C’era stato Mar­cel Mauss, ma i tre punti del «dare, rice­vere, ricam­biare» – che secondo lui carat­te­riz­zano il dono – non mi sod­di­sfa­ce­vano; poi Lewis Hyde negli Stati Uniti, con il suo libro del ’78 The Gift e il gruppo della rivi­sta Mauss fon­data all’inizio degli anni Ottanta in Fran­cia sono stati fra i primi. Nei miei libri spiego come ho ini­ziato allora a cer­care di defi­nire il dono. Trovo che sia una base del lin­guag­gio. Sono diven­tata fem­mi­ni­sta qui in Ita­lia, ma poi sono tor­nata a vivere negli Stati Uniti nel 1983 e ho por­tato a casa sia il fem­mi­ni­smo ita­liano che le mie idee sull’economia del dono. Sic­come nes­suno del mio ambiente aveva mai sen­tito niente del genere, ho pen­sato che dovessi pra­ti­carlo. L’ho fatto in Texas con la Foun­da­tion for a Com­pas­sio­nate Society, che è stata un espe­ri­mento fondamentale.

 

Per­ché l’idea di pro­porre un con­ve­gno sulle radici materne dell’economia del dono?
Gli studi matriar­cali e indi­geni ci aiu­tano a con­net­tere il materno e l’economia del dono per­ché mostrano come possa fun­zio­nare l’economia del dono nella realtà. Gli stu­diosi e atti­vi­sti indi­geni non hanno la stessa visione del dono che aveva Mauss e abbiamo ora la pos­si­bi­lità diretta di ascol­tarli e col­la­bo­rare. Nelle loro società, in molti casi, si vede il dono ancora fun­zio­nante mal­grado gli attac­chi della società patriar­cale e capi­ta­li­sta euro­pea. Tutte le diversi voci che riflet­tono sul dono uni­scono mol­tis­simi movi­menti eco­no­mici, fem­mi­ni­sti, indi­geni, eco­lo­gi­sti, paci­fi­sti che ope­rano per sod­di­sfare il biso­gno di cam­bia­mento di para­digma, per rea­liz­zare una società radi­cal­mente diversa.

 

Dal 2001 a oggi si è sem­pre occu­pata dell’International Femi­nists for a Gift Eco­nomy. Nel suo ragio­na­mento c’è un legame pri­ma­rio tra il dono e la cura materna; il para­digma è lo spo­sta­mento dal do ut des nella infi­nita catena di dono e contro-dono al piano del biso­gno. È il rico­no­sci­mento di sapersi dipen­denti?
La logica del dono uni­la­te­rale ade­ri­sce alla logica pri­ma­ria della vita, ed è molto dif­fusa; non c’è niente di straor­di­na­rio né l’ho mai intesa come una con­qui­sta di carat­tere morale, piut­to­sto come una pra­tica di cura che, fin dall’infanzia, crea rap­porti di mutua­lità e fidu­cia. Dal momento della nascita si riceve tutto in dono, dalla madre o da chi si prende cura di chi è pic­colo che, in alcuni posti del mondo, sono addi­rit­tura vil­laggi interi. Nel caso dei bam­bini e delle bam­bine è una que­stione di vita o di morte, nel senso che chi non viene curato non soprav­vive. La logica del dare e rice­vere è tran­si­tiva, ovvero ciò che viene pro­dotto passa dall’uno all’altro per sod­di­sfare un biso­gno. Il dono gra­tuito costi­tui­sce quello che in eco­no­mia si chiama modo di distri­bu­zione e la matrice, la moda­lità in cui si dispiega, dà uno spa­zio allo svi­luppo infan­tile di una sog­get­ti­vità imper­niata intorno a quella espe­rienza tra­smis­siva, non alla espe­rienza dello scam­bio, che i bam­bini capi­scono molto più tardi.
È inte­res­sante notare come l’esperienza della dipen­denza posi­tiva si scon­tri con l’indipendenza pro­po­sta dal mer­cato: para­dos­sal­mente, quest’ultima è pro­por­zio­nale al gua­da­gno di una effi­ciente dipen­denza. In una comu­nità basata invece sull’economia del dono, tutti si rico­no­scono dipen­denti e tale dipen­denza – di altra qua­lità rispetto a quella offerta dal mer­cato – fa arre­trare la pre­sta­zione coer­ci­tiva e selettiva.

 

In un momento dram­ma­tico come quello che stiamo vivendo, con il neo­li­be­ri­smo che inneg­gia all’agonismo, vi è una pesante diva­ri­ca­zione tutta reto­rica che pre­vede la gra­tuità per “meri­tare di esi­stere” e il sacri­fi­cio. Come fa il dono a non essere divo­rato o pie­gato agli inte­ressi per­versi dello sfrut­ta­mento con­tem­po­ra­neo?
Il mer­cato è un mec­ca­ni­smo di appro­pria­zione dei doni. Il plus-lavoro, inteso come lavoro non pagato, è un dono for­zato così come lo sono le risorse natu­rali, l’acqua per esem­pio o i semi che un tempo erano gra­tuiti e ora sono stati acqui­siti, pri­va­tiz­zati e tra­sfor­mati in merci dalle mul­ti­na­zio­nali.
Il lavoro delle casa­lin­ghe, anche se non è for­zato nella stessa maniera, costi­tui­sce un dono all’economia stessa (aumen­tando il Pil di un’alta per­cen­tuale di cui l’entità esatta è ancora dibat­tuta da ricer­ca­tori come Waring e Iron­mon­ger) poi­ché i datori di lavoro non devono pagare e quindi il “dono” delle casa­lin­ghe con­tri­bui­sce al loro profitto.

Il mer­cato si erge come modello di com­por­ta­mento, creando un homo eco­no­mi­cus che non è mosso dal biso­gno altrui. Si pone come unica misura di benes­sere, pec­cato che il dare per rice­vere qual­cosa in cam­bio nasconda come unica mira il “dono di pro­fitto” creando l’illusione di essere prin­ci­pio di valore auto­suf­fi­ciente. C’è un modello di con­vi­venza sot­teso a tale dina­mica, un motto equi­va­lente al mors tua vita mea, un dispo­si­tivo ven­di­ca­tivo dell’occhio per occhio ma anche esempi più insi­diosi per­ché appa­ren­te­mente posi­tivi, la giu­sti­zia come inden­nizzo del cri­mine o il senso di colpa come pre­pa­ra­zione al risar­ci­mento. In que­ste strut­ture inclu­de­rei anche il meri­tare di esi­stere o attra­verso lo scam­bio o attra­verso il dono. Se sul piano macro-economico il mer­cato divora il dono e lo piega ai pro­pri inte­ressi, su quello della pra­tica quo­ti­diana penso sia impor­tante una presa di coscienza dell’esistenza di que­sta eco­no­mia materna nasco­sta, per potersi sot­trarre al can­ni­ba­li­smo del mer­cato che vor­rebbe pie­gare uni­ver­sal­mente volontà e desideri.

 

Che cosa esat­ta­mente pro­duce que­sto mer­cato rovi­noso che cerca di ser­virsi dell’economia del dono?
Pro­prio negli ultimi giorni abbiamo tri­ste­mente assi­stito alla rap­pre­sen­ta­zione dei valori bio-patici di cui que­sto mer­cato è intriso; que­sti valori sono faci­li­tati dalla nega­zione o rimo­zione della memo­ria sto­rica e di con­te­sti mate­riali più ampi. La mia amica Cha­rito Basa (pre­si­dente del Fili­pino Women’s Coun­cil, ndr) ha detto che i migranti «vanno dove sono andati i loro soldi»; ven­gono in Europa per­ché prima c’è stato lo sfrut­ta­mento dei doni e delle risorse dei loro paesi da parte dell’Europa (e degli Stati Uniti). Que­sta accu­mu­la­zione dei doni nel Nord del mondo ci fa appa­rire come se aves­simo una grande e ric­chis­sima eco­no­mia indi­pen­dente, anche se fac­ciamo finta di igno­rare la pro­ve­nienza di quella ricchezza.

Non vogliamo che gli immi­grati si impa­dro­ni­scano del nostro bot­tino che abbiamo preso da loro. Così quello che viene pro­dotto – che deriva dallo sta­tuto dell’homo eco­no­mi­cus – è una cecità stu­pe­fa­cente dinanzi ai deboli, agli ultimi, alle vit­time di una povertà inau­dita e cau­sata dalle guerre armate anche dall’occidente. Gli uomini e le donne, le bam­bine e i bam­bini, che spesso tro­vano la morte nel nostro Medi­ter­ra­neo si spin­gono fin qui per poter dare da man­giare ai pro­pri figli e alle pro­prie figlie, per poter pra­ti­care il dono neces­sa­rio alla loro vita.

(il manifesto 24/4/2015)

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