25 Ottobre 2013

Una domanda intorno alla storia vivente

di Liliana Rampello

 

Ho letto con molto interesse il numero della rivista DWF (n.3, 2012) dedicato alla pratica della storia vivente a cura della Comunità di Storia Vivente di Milano, formata da donne che conosco personalmente e il cui valore mi è quindi ben presente. E’ in ragione di questa relazione che vorrei fare qualche considerazione e soprattutto qualche domanda (non retorica).

La cosa che funziona bene in questa pratica è intanto che si sconfigge da subito l’idea che rispetto alla storia tradizionale ci sia da rivendicare, o aggiungere, o completare qualcosa che lì non è dato (le donne). E’ vero, non è dato, ma la mossa da fare è appunto, come qui suggerito, cambiare il proprio sguardo e tagliare in modo diverso la faglia della storia, delle storie che ci hanno raccontato e raccontiamo.

Di fatto, così, ci teniamo tutta la storia. Il che significa però che ho bisogno di tutta la storia, anche quella che segue “paradigmi” tradizionali, intanto perché sono molteplici, spesso baruffanti tra loro, soggetti a mutamenti di statuto e dunque sfuggono anch’essi, spesso, alla loro stessa imbalsamazione, ma poi perché anche la storia vivente va messa da qualche parte che sta nel comune, di donne e di uomini.

Mi viene in mente una vecchia distinzione consueta nei corsi universitari di un tempo: la disciplina correva su due binari, il corso istituzionale e il corso monografico. Bè, il primo era noioso, scontato, “nozionistico”, il secondo di solito legato alla ricerca in corso del docente, magari a una sua mania, e trasmetteva più liberamente la passione dello studio, ma erano entrambi necessari. Lo so adesso con più chiarezza che le grandi partizioni, le date, la sequela dei re, delle guerre, tutte quelle nozioni costruite sui “fatti”, sui “documenti” (e non apro qui la questione degli archivi e della conservazione) pur essendo sempre interpretati, pur essendo storia dei vincitori e non dei vinti (e men che meno delle donne), pur nella loro lampante parzialità costituiscono dei quadri di intelleggibilità, senza i quali tutto fluttua in una sorta di intemporalità inspiegabile. Sono quadri da cui fuoriuscire, i cui limiti vanno problematizzati, spezzati, tagliati appunto da un altro sguardo perché il non detto arrivi a presentarsi, a occupare la scena alla luce dell’impensato. Per una storiografia non lineare ma in chiave geologica direi, tale da comprendere la stratificazione genealogica. Ma quadri utili: l’ho capito quando, a riforma del triennio universitario avvenuta, eliminati tutti gli istituzionali, mi sono trovata a dover giudicare studenti che mettevano Shakespeare indifferentemente nel dodicesimo o nel sedicesimo secolo, il che mi faceva supporre che non avevano capito granché, perché l’assenza di partizione temporale mandava a farsi benedire molto altro.

Qui la mia domanda alla Comunità: ferme restando le importanti novità sul valore della presa di parola della storica, il suo giocarsi in prima persona, il valore epistemologico del sentire e dell’emozione, ho l’impressione che queste scoperte politiche trovino un potenziale limite se la storia vivente viene presentata soprattutto come possibilità di interpretare un sintomo di disagio o sofferenza personali. In che modo questa storia non rimane personale? Come medio tra ciò che mi capita e ciò che capita (ed è già capitato?). Non credo che la risposta sia nella comunità stessa, nelle sue relazioni interne. Ho trovato questa mediazione spesso risolta dall’arte, e per mia esperienza soprattutto nella letteratura, ma nella storia di cui qui si parla il nesso mi sembra ancora problematico. E’ una pratica inaugurale, certo, ma la domanda va posta, mi pare.

 

 

Mi sembra che il punto del sintomo, legato in modo a volte troppo meccanico con il sentire (prevalentemente sentirsi bene o male) sia richiamato in forma più o meno esplicita in tutti i contributi (anche in quelli più “teorici”, di Milagros Rivera e Marirì Martinengo) e che porti in sé il pericolo che il partire da sé diventi un parlare di sé, che cura la singola, le permette la parola pubblica, la riconcilia con la madre, in un percorso che si richiude su di sé, nel cuore delle sue relazioni, dal presente non al presente, ma sul presente. Intendo dire con questo che radicate nel presente non dobbiamo richiuderci “su” di esso, in un percorso consolatorio, ma portare l’esperienza del passato “al” nostro presente come rottura, come discontinuità. L’orientamento della libertà femminile non ha contenuti, men che meno prescrittivi, quale altro passo si può immaginare allora a partire da qui? Passo che affondi nel tempo della persona e però anche di una comunità più vasta, di chi ascolta e comincia poi altrove? D’accordo niente paradigmi, ma anche il metodo si ossifica in paradigma (aperto fin che si vuole) se non troviamo la mediazione fra storia vivente (del suo soggetto parlante, della parola della sua esperienza) e storia delle altre e degli altri, prima e dopo di noi, vicino e lontano.

In questo senso i contributi ribadiscono spesso cose simili, seppure con alcuni spunti molto aperti che mi piace richiamare perché aiutano a evitare di ripetere una stessa invenzione, mi riferisco al testo di Laura Minguzzi, che interroga, nel cerchio fra sé e sua madre, la storia del fratello e la storia dell’evoluzione di un intero paese, lasciando aperta la domanda sulla realtà di una trasformazione e delle sue contraddizioni, e all’intervento sulla scrittura delle biografie di Graziella Bernabò, che bene mostra il difficile gioco fra empatia e distanza e quanto sia necessario l’uso responsabile e consapevole della lingua.

Insomma il lavoro politico di questa Comunità fa venir voglia di interrogarsi sulla storia, di cercare di capire come si accede al sapere, a un sapere, fa venir voglia di leggere la storia per confrontare, capire e guardare tutto in modo nuovo, cercando le “fonti” dentro e fuori di sé. Un nuovo spazio di interrogazione per tutte.

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