17 Aprile 2015

Violenza dicibile e indicibile

Resoconto dell’intervento di Massimo Lizzi fatto durante l’incontro svoltosi presso il Circolo della Rosa della Libreria delle donne di Milano l’11 Aprile 2015, intitolato: La politica è la politica delle donne. E gli uomini?

 

di Massimo Lizzi

 


Dichiarare di voler riconoscere e valorizzare la parola di una donna che parla della violenza psicologica del suo compagno e poi avvertire di non poter affermare con certezza che quel suo compagno abbia davvero commesso violenza, è in apparenza ragionevole. Di fatto è contraddittorio. Scegliere di evidenziare l’incertezza relativizza la parola della donna, espone lei alla rivittimizzazione, ed evoca la necessità del conforto di una verità oggettiva, secondo la logica procedurale dei tribunali.

Una logica condizionante le discussioni sulla violenza che ci riguarda da vicino, quando invece meriterebbe di essere condizionata, perché mal funzionante negli stessi tribunali. La norma giudiziaria non dà giustizia. Poche sono le denunce, due terzi sono archiviate, meno della metà dei processi si conclude con una condanna (Istat 2006), nonostante la violenza maschile sulle donne sia endemica. A volte, gli stessi dispositivi di condanna sono preceduti da una narrazione e spiegazione dei fatti consistenti in una sostanziale assoluzione civile.

Succede perché la donna è considerata poco credibile, corresponsabile, vendicativa, per aver reso pubblico quel che doveva rimanere privato. I fatti anche se accertati valgono per il significato loro attribuito. Tante volte quel significato è conflitto di coppia, caso privato, devianza psicologica. Significati che sembrano avere la loro causa nella impossibilità di accertare la verità, ma che permettono di non dover prendere posizione. Di fronte ad un conflitto privato pensiamo di poter girare la faccia dall’altra parte, anzi di doverlo fare.

Affrontare la violenza maschile nelle relazioni affettive è penoso. Molti anni fa nella cintura di Torino, un segretario di sezione del PCI, un insegnante, fu arrestato per pedofilia. Militavo in quel partito, conoscevo la persona e ne fui scioccato. Consultai i compagni della sezione e mi resi conto che quasi tutti sapevano. Gli era già successo, era stato prosciolto per insufficienza di prove. Nonostante ciò fu candidato alle elezioni, nominato nel direttivo e persino alla segreteria. In fondo non si poteva sapere davvero cosa era accaduto e anche stavolta, secondo gli amici, pare si trattasse “solo” di foto fatte a casa sua ad alcune alunne. Nel parlarne era evidente il disagio, la ritrosia, il modo evitante.

Il partito in quella zona era sfortunato. Anni prima, in una sezione vicina il segretario fu arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. Quel fatto era normale argomento di conversazione. Esistono misfatti dicibili e altri indicibili. E il discrimine spesso ha a che fare con la sessualità, quella maschile. Per quelli indicibili la pratica del giudizio può addirittura essere rassicurante e funzionare per allontanare da sé la violenza quando il violento è uno sconosciuto. In quel caso diventa un potenziale capro espiatorio, soprattutto se straniero. Le cose cambiano se il violento è il parente, l’amico o il compagno di partito, perché ne va di sé, della propria identità, della propria mascolinità. Ad essere rifiutato non è solo il giudizio statico sanzionatorio, tipo la condanna, ma anche il giudizio dinamico descrittivo, quello che nomina in modo chiaro e corretto la violenza e permette davvero di aprire uno spazio di riflessione su di sé, sul proprio ambiente, la propria cultura.

 


(www.libreriadelledonne.it, 17 aprile 2015)

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