19 Settembre 2015
la Repubblica

William Friedkin: «Mamma Rae è l’angelo che mi salva dai demoni»

di Leonetta Bentivoglio



Angeli materni e demoni da esorcizzare. Il nome (leggendario per gli amanti del cinema) del regista statunitense William Friedkin resta profondamente legato a L’Esorcista, ovvero al «film più terrificante di tutti i tempi», secondo la definizione che ne premiò l’uscita sugli schermi, nel ’73. Fu senza dubbio una delle occasioni in cui venne mostrata maggiormente al mondo l’esistenza del demonio, «che si aggira sempre fra noi, manifestandosi a sprazzi in ogni essere umano», sostiene Friedkin, celebrato fin dagli anni Sessanta come esponente della New Hollywood e autore anche di cult quali Il braccio violento della legge (che gli ha fatto vincere l’Oscar) e Vivere e morire a Los Angeles .
Rispettando la logica dei contrari, si può supporre che l’ottantenne cineasta abbia coltivato una familiarità col diavolo grazie alla frequentazione di un angelo, avendo trascorso la prima fetta della vita con una mamma «angelica per dolcezza incondizionata», afferma oggi. «Irradiava calore e benevolenza. Nel quartiere della mia infanzia, a Chicago, tutti ricorrevano a lei come a una consigliera generosa e saggia. Inoltre non ha mai dubitato del mio talento, e siccome per un figlio la fiducia materna è tutto, da adulto non ho temuto di confrontarmi con scelte impegnative. Quel che sono diventato glielo devo per intero».

Una mamma paradisiaca: la sta intensificando nella memoria?
«Non esagero. Il suo affetto è stato il germe dei miei risultati. Ha creduto in me senza esitazioni, interrogativi, perplessità».

Veniva dall’Ucraina, giusto? E si chiamava Rachel.
«Era un ebrea di Kiev, città che i miei nonni lasciarono per un pogrom nel 1903: era tale l’antisemitismo che si diceva che gli ebrei bevessero il sangue dei cristiani. I miei parenti fuggirono nascondendosi nelle navi da carico e mia madre giunse in America a cinque anni. Aveva dodici fratelli, mentre mio padre ne aveva undici. In seguito, per i membri della nostra immensa famiglia complessiva, Rachel, detta Rae, sarebbe stata una fertile matriarca. Straordinaria era la sua capacità di cogliere la natura umana. Per me ha rappresentato una fonte di spiritualità costante. Anche riguardo alla mia sensibilità per la lirica».

Rae amava l’opera?
«Ma no, era poco istruita. La sua indole era alimentata da una sorta d’innocenza. Per istinto viveva protesa verso gli altri. Questa sua vocazione ha costruito la mia parte spirituale, a cui appartiene tra l’altro il mio amore per la musica. Da qualche anno firmo spettacoli operistici e il 14 ottobre, diretto da Noseda, andrà in scena il mio allestimento dell’Aida verdiana al Regio di Torino».

Da giovane sua mamma lavorava?
«Fece l’infermiera con dedizione incredibile. Adorava il suo mestiere, a causa del quale perse un occhio: fu ferita in sala operatoria dall’esplosione di uno sterilizzatore di strumenti chirurgici. Portava con disinvoltura un occhio di vetro. Cessò di lavorare per dedicarsi a me: ero figlio unico. Mio padre Louis andava in giro acchiappando qualsiasi lavoretto per garantirci la sopravvivenza, senza raccogliere più di cinquanta dollari a settimana. Abitavamo dentro un’unica stanza, in North Sheridan Road. Eravamo poveri ma io non lo sapevo, perché i miei amici vivevano nello stesso modo. Giocavo con bambini italiani, ebrei, tedeschi e polacchi, immerso nel melting pot che mi ha formato. Nelle bollenti notti estive dormivamo con molte altre famiglie a Gunnison Park. Nessuno poteva permettersi un condizionatore».

Sua mamma era tenera o severa con lei?
«Era sorridente e mai punitiva. L’ho vista piangere solo una volta. Andavo a rubacchiare nei grandi magazzini di Chicago, e una volta fui beccato da un detective che minacciò di mandarmi in riformatorio. Quando mia madre ascoltò il suo resoconto scoppiò a piangere. Spettacolo straziante che non solo mi evitò il riformatorio, spezzando il cuore al detective, ma che mi fece passare la voglia di rubare. L’idea di far soffrire mia madre mi annientava».

Fu Rae a farle scoprire il cinema?
«Sì: avrò avuto cinque anni. Andammo al Pantheon Theater di Chicago, sontuoso e decadente, con logore poltrone. A un tratto scesero le tenebre e davanti a me un enorme rettangolo nero si accese di un bianco abbagliante, mentre risuonava con violenza una musica. Presi a urlare da matti, tanto che mamma mi condusse fuori. Ma nel giro di pochi anni i film smisero di spaventarmi, anzi: non vedevo l’ora di entrare nel buio protettivo di una sala e di perdermi in un’altra dimensione. Da ragazzo iniziai a lavorare come fattorino per una televisione di Chicago, dove poi passai alla produzione e alla regia di programmi dal vivo. Confesso che in principio ebbi tante sconfitte, ma mia madre non smise d’incoraggiarmi. Intanto papà era morto, abbandonato nel corridoio di un ospedale. Soltanto i ricchi meritavano un letto. Rimasta vedova, Rae riprese a fare l’infermiera».

Non poté assistere ai suoi successi?
«Purtroppo no. Vide solo i miei primi lavori, come Good Times, nel ’67, con Sonny e Cher, che le piacque moltissimo. Ma fu un flop totale. Quando mi trasferii in California la portai con me a Beverly Hills, dove stavamo in una casa di proprietà di Mickey Rooney. Lì continuò a fare l’infermiera al Cedars-Sinai Hospital, e a Los Angeles sarebbe rimasta fino alla morte, che avvenne per infarto: aveva poco più di sessant’anni. Oggi al Cedars-Sinai c’è una scuola per infermiere intitolata a lei, che ho finanziato per renderle omaggio. Sento sempre la mano di mia mamma sulla spalla. È il mio angelo custode».

Rae ha influenzato qualche personaggio dei suoi film?
«Il ruolo della madre nell’Esorcista è modellato su di lei. Ho cercato un’interprete che le somigliasse: piccola, soffice, tonda e con lo sguardo colmo di bontà. Una visione angelica tra gli orrori del demonio».

Il ricordo più forte che serba di Rae?
«C’è un sogno che faccio ogni tanto. In Sheridan Road, cavalcando il mio triciclo, passo velocemente davanti a un negozio di mobili e a una piccola drogheria, con la sciarpa avvolta attorno al naso e alla bocca. Il mondo è racchiuso nelle immagini di quella corsa e finisce sul bordo del Lago Michigan, dove da bambino osservavo i banchi di ghiaccio sull’acqua. Sapevo che tutto sarebbe andato bene. Presto sarei tornato nel caldo del nostro monolocale a bere la cioccolata preparata da mia madre».



(la Repubblica, 19 settembre 2015)

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