24 Febbraio 2018

Al lavoro e alla lotta – Introduzione di Massimo Lizzi

Milano, Libreria delle donne – Circolo della rosa, 24 febbraio 2018 ore 18. C’era una volta un’Italia comunista che faceva paura agli americani. Oggi, si tratta solo di nostalgia oppure resta qualcosa da dire di quella grande esperienza di uomini e donne? A partire dal libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli Al lavoro e alla lotta. Le parole del Pci (Harpo 2017), ne discutono con le autrici Liliana Rampello e Massimo Lizzi.

 

Introduzione di Massimo Lizzi

 

Del glossario, la prima parte del libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli, ha parlato Liliana Rampello. Come lei ha anticipato, la seconda parte del libro consiste in dieci interviste di dieci domande a sei donne e quattro uomini protagonisti della storia del PCI. Una scelta che vuol far prevalere il punto di vista femminile e femminista su una storia prevalentemente maschile.

Le domande sono incentrate sulle ragioni dell’adesione al PCI; la formazione politica e culturale, individuale e collettiva; il rapporto tra i sessi e con il femminismo; le pratiche politiche e il giudizio sulla comunità del PCI, se migliore delle altre; la propria definizione politica oggi, poiché quasi tutte le persone intervistate non sono più iscritte ad alcun partito.

 

Le ragioni della scelta del PCI

Gianni Cuperlo, il più giovane degli intervistati, l’ultimo segretario della FGCI, dice che per la sua generazione — si iscrive alla FGCI nel 1976 — l’adesione al PCI non si caricò di una scelta epica e sacrificale, come per le generazioni precedenti. Aldo Tortorella ricorda della sua militanza di giovane partigiano a Genova, tre compagni: il primo fu colpito a morte in strada, il secondo fu impiccato, il terzo fu deportato in un lager. A lui poteva capitare la stessa sorte. Tentato più volte di lasciare il partito, non lo fece mai, perché l’avrebbe vissuta come una scelta vile nei confronti di chi aveva sacrificato la vita. Cuperlo definisce la sua una scelta quasi per inerzia: i giovani comunisti erano la comunità più prossima e più ospitale tra i moti collettivi della scuola.

La mia scelta fu ancora meno epica di quella di Gianni Cuperlo, che almeno visse la seconda metà degli anni ’70. La mia generazione è quella degli anni del riflusso e del disimpegno. C’era un grande turn-over di giovani, ma c’era anche un notevole nucleo di militanti costanti e quasi totalmente disponibili. Sapevamo di non essere epici, ma ci sentivamo gli eredi di un’epica. Non rischiavamo nulla e non avevamo paura che il tempo del rischio potesse tornare. Solo quando vidi un film sui desaparecidos argentini (La notte delle matite spezzate) mi resi conto del rischio potenziale che una scelta di militanza poteva sempre implicare. Ricordo che da bambino venivo mandato a comprare i giornali e mia nonna, che aveva una mentalità cospirativa, si arrabbiava se non tenevo l’Unità nascosta dentro La Stampa.

La scelta del PCI non era, per noi, solo una scelta tra partiti. Era una scelta di campo nel conflitto tra entità storiche. I comunisti si misuravano non solo e non tanto con gli altri partiti, quanto con realtà più grandi, importanti e potenti: la chiesa cattolica (con cui c’era un dialogo e una rivalità morale); la Fiat e il capitalismo (con cui c’era un rapporto di conflitto e negoziazione, per lo più attraverso il sindacato, sempre a partire da una visione di interessi contrapposti o differenti); gli Stati Uniti e l’imperialismo, lo stato che occupava il nostro paese con le basi militari, e che voleva ancora installare gli euromissili, ed era avversario, oltreché dell’Urss, dei vari movimenti di liberazione nei vari continenti.

La scelta del PCI era pensata dal quel nucleo militante forte come una scelta di vita. Sia nel senso che sarebbe durata fino alla morte. Sia nel senso che era la cosa più importante della nostra vita. Sempre disponibili (pure i turni di vigilanza notturni, in Federazione o alle Feste dell’Unità). Sempre attivi, anche in situazioni che apparentemente non c’entravano niente con la politica. Persino un corteggiamento poteva sfociare in un’azione di sensibilizzazione politica.

La fine del PCI, per essere stata un’abiura giocata nella contingenza della politica spettacolo, in retrospettiva ha ridimensionato tutto questo e ha fatto spazio alla percezione di aver vissuto una storia sbagliata, di aver fallito, di essere stati smentiti nella diversità e nell’originalità dei comunisti italiani. E quindi, la percezione di avere avuto e di avere politicamente torto. La trasformazione socialista della società italiana non era avvenuta. Il programma, la strategia, l’organizzazione del PCI non erano state adeguate perché avvenisse e non era in vista nessun adeguamento futuro, perché quell’obiettivo storico veniva archiviato. Si poteva allora essere comunisti per ragioni sentimentali rivolti al passato o per motivi utopici rivolti al futuro, ma non lo si poteva più essere per motivi politici rivolti al presente.

Il libro, almeno nel ripensare la storia passata, lenisce questo sentimento depressivo, perché mette a fuoco e dà valore politico ad alcuni aspetti della storia comunista, che nel bilancio delle realizzazioni, tra critiche e autocritiche, sono lasciati sullo sfondo o del tutto ignorati.

 

La formazione politica e culturale

Un aspetto è la formazione politica e culturale. Luciana Castellina vede i suoi compagni di scuola comunisti essere di gran lunga i più colti e intelligenti, quelli che esercitavano più influenza su di lei. Graziella Falconi da ragazza definisce il PCI come il più intelligente d’Italia. Io stesso intendevo l’essere comunista come l’essere più preparato degli altri nella conoscenza dei fatti, nel modo di interpretarli e nell’abilità dialettica.

Alcune risposte sui libri della propria formazione individuale vanno oltre il senso della domanda ed espongono di fatto una vasta indicazione bibliografica. Le persone intervistate hanno letto molto, alcune di tutto: letteratura, poesia, filosofia, saggistica, storia, i classici soprattutto. Le donne più degli uomini. Agli uomini mancano del tutto le autrici.

A significare l’importanza dei libri c’è una battuta attribuita da Marisa Rodano a Palmiro Togliatti: «Non perdete troppo tempo con i giornali, piuttosto leggete romanzi». E c’è soprattutto un tragico episodio raccontato da Emanuele Macaluso: la sorte di Michele Calà, il bibliotecario della sua cellula di partigiani a Caltanissetta, che sotto i bombardamenti, invece di rifugiarsi, si preoccupa di salvare i libri e viene ferito mortalmente da una scheggia.

Il PCI si concepiva come intellettuale collettivo, per esercitare una egemonia culturale nella società. Incoraggiava la formazione individuale e organizzava quella collettiva, mediante giornali e riviste, in particolare l’Unità e Rinascita, e una rete di scuole di partito, la più importante alle Frattocchie, fuori Roma, dove si tenevano corsi e seminari, anche di molti mesi, per gli operai, le donne, i dirigenti e gli amministratori locali.

La stessa vita di partito in sezione e l’attività di base nei quartieri, a scuola e nelle fabbriche, oltre che per la sua valenza politica e propagandistica, era considerata un aspetto importante della propria formazione. La consuetudine con un operaio era quanto di meglio, per evitare di diventare un astratto intellettuale operaista (Achille Occhetto).

 

Il giudizio sulla comunità politica del PCI

L’appartenenza e la vita di partito avevano un importante aspetto comunitario. Lia Cigarini racconta del militante andato via con il manifesto, ma poi tornato alla sua sezione del PCI, perché bisogna pur avere degli amici nella vita. Secondo Aldo Tortorella, dovunque andavi potevi trovare un compagno disposto ad accoglierti come un fratello o così pareva. In parte, pareva anche a me, se penso al rapporto speciale con genitori e insegnanti comunisti o al modo in cui potevamo essere accolti da comunisti sconosciuti, durante la diffusione dell’Unità o un’attività porta a porta. A scuola, l’ultimo anno, sospettavamo della relazione tra un professore e una studentessa: entrambi comunisti, in pubblico si davano ostentatamente del lei. Oggi sono sposati con due figli.

La comunità del PCI teneva insieme cose diverse. Diverse generazioni, diverse anime politiche, in particolare quella riformista e quella movimentista negli anni ’80, di cui le due autrici sono espressione. E questo nel rispetto e nella valorizzazione reciproca, o almeno ci si curava che apparisse così. Diverse figure sociali operai, impiegati, commercianti, artigiani, piccoli e medi imprenditori. Lia Cigarini racconta come nella sua sezione nel centro di Milano fossero presenti l’ambulante e il primo violino della scala, la portinaia e l’intellettuale, l’artigiano e il bancario.

Quasi tutte le persone intervistate ritengono che la comunità politica del PCI fosse migliore delle altre. Un giudizio che richiama la diversità dei comunisti italiani. Lia Cigarini dice che tutti i funzionari che conosceva avevano fatto due scelte serissime: la resistenza e la povertà. Luciana Castellina osserva che quando i comunisti hanno rinunciato alla loro diversità, non si sono avvicinati di più alla gente, se ne sono invece allontanati.

 

Il rapporto tra i sessi e con il femminismo

Questo è l’aspetto più problematico visto oggi da questa sede, ma già da molto tempo. Lia racconta di avere rotto con il PCI, le sue pratiche politiche, negli anni ’60, dando vita con altre al primo collettivo del femminismo della differenza (DEMAU).

Una signora libraia, giovedì sera, sapendo che sarei qui intervenuto oggi pomeriggio, mi ha chiesto qual era l’argomento in discussione. Le ho detto che presentavamo un libro sulla storia del PCI. Mi ha risposto che il PCI non l’ha mai appassionata tanto, perché lo vedeva come parte del mondo maschile. Nel motivare questo ha citato, non tanto il ruolo degli uomini, il rapporto tra compagni e compagne, quanto il modo in cui i compagni trattavano le loro mogli e fidanzate: le mettevano in secondo piano rispetto all’impegno prioritario della militanza. Da segretario di sezione, quando convocavo i compagni per telefono, spesso dovevo fare una trattativa con la moglie, se rispondeva prima del marito. La questione fu discussa in un comitato centrale del 1953, perché il PCI accusava la DC di non essere coerente con il suo modello di unità familiare, poiché con gli effetti del suo governo, la povertà, la disoccupazione, l’emigrazione, disgregava le famiglie. Tuttavia, al lavoro, il PCI aggiungeva la militanza totalizzante e questo sottraeva ulteriore tempo alla famiglia. Sorse così la preoccupazione tra i comunisti che le mogli trascurate potessero essere preda di vicini, amici benintenzionati o dei parroci ed essere convinte a votare per la DC. L’Unità pubblicò un editoriale titolato: «Per chi voterà tua moglie?». L’indicazione del CC del Partito fu, non quella di dedicare più tempo alla famiglia sottraendolo al partito, ma intensificare la propaganda politica in famiglia.

Il maschilismo del PCI era comunque il più amico delle donne. Aveva una cultura emancipazionista. Un’organizzazione di donne di massa, che se non teorizzava la relazione tra donne, a suo modo la praticava e quell’associazionismo femminile creò le condizioni e determinò la riforma del diritto di famiglia e la tutela delle donne divorziate. Il PCI fu l’unico partito a tentare di aprirsi al femminismo della differenza e oggi molti uomini femministi (pur sempre pochi) sono uomini che provengono dal PCI o dai suoi paraggi.

All’epoca, mi interessava il femminismo come uno dei movimenti di liberazione — nel glossario è definito come un elemento di comunismo insieme all’ambientalismo. Leggevo le femministe che scrivevano sugli organi di partito, perché ritenevo facessero parte della formazione del buon militante, le leggevo anche se capivo poco. Compravo persino Reti, la rivista diretta da Maria Luisa Boccia. Ma non avevo coscienza del dibattito femminista o non me ne ricordo bene. Sapevo però che nel partito c’era questo orientamento del femminismo della differenza, che si stava affermando con la Carta delle donne. Ricordo una mia compagna (di partito e di scuola) farmi questo discorso: «Sai noi donne siamo differenti da voi uomini. Voi vi riunite la sera, a noi piace riunirci di pomeriggio. Mentre discutiamo, vogliamo prendere il té, magari ci capita anche di emozionarci e piangere». Io rimasi allibito e le dissi che non le credevo, che lei si stava solo adeguando a una linea di partito, anzi delle donne del partito in quel momento guidate da Livia Turco.

La Carta è vista dalle persone intervistate come un tentativo di sintesi o di incontro tra la cultura del PCI e il femminismo, come un tentativo di andare oltre l’emancipazionismo. Si risolse, forse, soprattutto nelle quote rosa, non si tradusse in una pratica politica e il suo percorso fu interrotto dalla fine del PCI. Lia Cigarini chiede perché non riprese nel PDS, un partito meno strutturato del PCI, dove le condizioni per una pratica di relazione tra donne poteva essere meno difficile.

 

(www.libreriadelledonne.it, 24 febbraio 2018)

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