2 Aprile 2011

Il Dio delle donne non è morto. Grandi donne nel mondo religioso. Incontro con Luisa Muraro

“Non credo di aver nulla da dire che qui non ci siano donne che potrebbero dirla ugualmente bene o meglio.
Venendo qui ho avuto un ricordo: Pat Bon, cioè Patrizia Bonini (che è rimasta mia amica, qui non la vediamo più..) tanti anni fa voleva aprire una chiesa abbandonata a Parma, la sua città, e diceva: “Luisa, la mettiamo a posto, poi tu vai lì e predichi”, aveva questa visione di me e credo che forse a quell’età la cosa mi sarebbe anche piaciuta e avrei saputo farla. Adesso invece no, non ho tutto quello slancio di predicare. Allora non farò una predica, dirò una serie di cose che, se volete interloquire, potrebbero essere di aiuto, a me in primo luogo, anche per quello che ci sta più a cuore, che è la libertà femminile, che sta a cuore a donne e anche a uomini che vengono qui perché sanno che una società che non ha a cuore la libertà delle donne non va bene.

La prima cosa che vorrei dirvi è perché io parlo di questi argomenti, dato che sono in una posizione molto incomoda. Ivana Ceresa nel libro L’utopia e la conserva, citata dalla teologa veronese Cristina Simonelli, del Coordinamento teologhe italiane, dice proprio: “L’incontro con Luisa Muraro è stata la sfida più alta che ho trovato per me come credente”, perché su quel terreno c’era in effetti un confronto quasi impossibile. Io sono in una posizione cioè molto scomoda. Perciò voglio precisare subito cautamente perché tiro fuori Dio.
Uno è per la storia della filosofia: non si può frequentare la filosofia con un minimo di profondità senza dover fare il nome di Dio. Per tradizione filosofica e per il significato che questo nome veicola. Non è possibile. Questo bisogna capirlo. Il positivismo, cioè quella filosofia che restringeva l’essere al dato, a quello che risulta, è fallito. La filosofia positivista è stata la grande sfida filosofica della rivoluzione borghese, e si è prolungata ancora tra le due guerre, con la scuola di Chicago, il neopositivismo, ma non è approdata a trovare quello che cercava, che era un fondamento. Un fondamento lo cercava naturalmente di natura empirica, nel dato d’esperienza, e scientificamente interpretato. Il positivismo è fallito, quindi non si può stare al dato, bisogna per forza che l’orizzonte si ampli e che non si pretenda, gli esseri umani, di capire tutto. Capire ha un significato letterale che è quello che troviamo anche nella parola “capienza”. Vero è che l’essere umano, secondo un filosofo-teologo medievale, Dietrich von Freiberg, ha la capacità di Dio che l’ha definito: homo capax Dei, scrive. Ci sarebbe dunque una capacità-capienza infinita e proprio questa capienza infinita è lo scacco per una filosofia che sta a quello che risulta, al dato, perché il dato è finito. Questo dal punto di vista filosofico: è difficile evacuare la tematica teologica a priori.
Chi ha letto qualcosa che ho scritto a partire dallo Zibaldone di Leopardi, sa che Leopardi pensava così. Leopardi non era certamente un uomo pio nel senso che il suo tempo imponeva e prevedeva, non lo era affatto, però lui ha questa idea che la condizione umana è così terribile che per reggerla c’è necessità di illusioni, “illusioni” in senso forte di giochi che ci catturano, e le grandi fonti di illusioni secondo lui sono l’arte e la religione. Leopardi ha tentato di scrivere degli inni sacri, forse motivato dalla pubblicazione degli Inni sacri manzoniani. Un abbozzo di inno, bellissimo, dedicato alla Madonna, che sembra scritto da un bambino, dice: guardaci, forse non riesci a vederci, siamo così piccoli, come formiche, ma tu, tu che sei così grande, guardaci che stiamo messi male, tu cerca di vederci… È una poesia religiosa struggente, che ha sapore d’infanzia. A Leopardi, nelle riflessioni dello Zibaldone, la religione sembrava specialmente necessaria per vincere l’egoismo. Critica il culto della dea ragione che veniva proposto dagli illuministi e dice che senza la religione diventeremmo tutti degli orribili egoisti, e in effetti lo siamo diventati, possiamo vederlo. Possiamo farci le prediche – “Accogliamo i profughi, accogliamo gli immigrati!” – ma se interroghiamo il nostro cuore diciamo che sarebbe meglio che restassero dove sono. Perché è chiaro che cosa vuol dire tutta questa immigrazione massiccia: vogliono spartire con noi la nostra condizione, punto e stop. E non finiranno mai di arrivare. E questa cosa ci fa aggricciare, diciamo: come facciamo a spartire, dovremmo rinunciare a tante cose…
In pratica, Dio è morto. In teoria sopravvive ma in pratica è morto – parliamo del nostro Dio – e già nell’Ottocento hanno cominciato a costatarlo. L’idea della morte di Dio compare alla fine del Settecento, poi avanza; prima viene presentata come un’eventualità orribile, e poi la cosa orribile diventa quella che dice Nietzsche nella Gaia scienza: Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso. E questo perchè la civiltà occidentale si è evoluta in una certa maniera che ha significato la morte di Dio. Più praticamente che teoricamente, ripeto, ammesso che si possa (con la cultura accademica si può fingere che si possa) separare la pratica dalla teoria.

L’annuncio dell’incontro di oggi dice però che è morto il Dio non direi degli uomini: il Dio dell’Occidente. Che non è il Dio di tutti neanche in Occidente, perché ci sono anche le donne. Il Dio delle donne non è morto. Questa è l’idea che porto qui.
Ma che cosa vuol dire il Dio delle donne? Gabriella Caramore, quando ho pubblicato il libro Il Dio delle donne, mi dice: “Il Dio delle donne non esiste, c’è Dio e basta”. E pensare che lei fa una trasmissione Uomini e profeti, quindi sa bene che c’è il Dio degli uomini, non può ignorarlo. Probabilmente intenderà che quando dice “uomini” vuol dire anche donne, ma questa è una prepotenza, tante donne quando sentono dire “uomini” non intendono che si sta parlando di loro, io non intendo che si parla di me. Dio, del resto, è una collezione di soprannomi: perché non questo che gli viene offerto dall’umanità femminile? Oggi, una m’ha chiesto se ci sono “profete”. Sì. Quando Gesù arriva a questo mondo, c’è anche una profetessa che lo accoglie. Quando lo presentano al Tempio, dopo il vecchio Simeone, lo riconosce come salvatore la profetessa Anna che vive nel Tempio (Luca 2, 36-38).
Allora, in che senso Dio? Qui metto in chiaro una cosa che è forse quella che più di ogni altra ho da dire: discutere se Dio esiste mi sembra una questione superflua. Nel senso che Dio non ha bisogno che si dimostri niente al riguardo. Se c’è, ha tutti i mezzi per farsi conoscere quando e da chi vuole, lui o lei – poi dobbiamo affrontare la questione del maschile o femminile, adesso lo uso al maschile. Ha la possibilità di farsi riconoscere. Franca D’Agostini ieri sul manifesto parlando del libro di Ratzinger su Gesù Cristo – dico Ratzinger senza dargli titoli perché così si chiama l’autore di quel libro, si dà il caso che sia anche il papa, ma il fatto che lui sia papa non aggiunge nulla a quel libro, che vuol essere opera di un teologo studioso – dice una cosa che io condivido: Dio non ha bisogno che predichiamo di lui titoli che servono a noi. Io radicalizzo questa cosa, ed è l’argomento ontologico: nella parola stessa, nell’idea stessa di Dio c’è tutto quello che gli serve. L’avrete sentito a scuola, l’argomento ontologico, di quel signore che si chiamava Anselmo e che nasce in Val d’Aosta e diventa vescovo di Canterbury (sapete certamente che l’Europa unita esisteva nel medioevo, noi stiamo tentando di rifarla e non ci siamo ancora riusciti). Anselmo l’ha messo in parole, perché c’erano dei monaci che gli chiedevano una cosa più semplice su Dio. Come “prova”, non convince al cento per cento, però è stato ripreso da Irish Murdoch, che è una scrittrice e filosofa dei nostri giorni, la quale dice: sì, l’argomento ontologico vale, purché teniamo conto che Dio è amore, che Dio è il bene. In effetti, se io amo, l’amore c’è; se io sono buona, il bene c’è. Invece io prendo l’argomento ontologico radicalmente ma in una forma popolare: Dio se c’è e se vuol farsi conoscere e riconoscere da me, non gli manca niente, io basta che rimanga onesta, senza partiti presi. E infatti è questa la cosa fondamentale che chiedo quando discuto di questi argomenti, di conservare il cuore sgombro da ostilità. Quel Dio che ha suscitato e suscita tanta rabbia in tante persone è quello che gli uomini, non tutti ma per tre quarti, anzi per nove decimi, hanno ridotto male, perché in verità se andiamo a vedere la storia religiosa femminile non troviamo nefandezze da parte femminile. Perciò dico che il Dio delle donne non è morto, e non è morto perché non ha fatto nefandezze. Il Dio che si fa detestare è quel Dio che si è fatto potente, potere mondano, che si è alleato con i potenti, che ha preteso di dire, di essere, di fare cose che erano umane, di esseri umani che le volevano fare.
Però devo ritornare sull’argomento ontologico, per dirvi che ne avrei una versione mia: se c’è qualcosa, c’è tutto, cioè c’è Dio. Il principio filosofico di questo ragionamento è che questo tutto è qualcosa che io non posso abbracciare da sola e che quindi ha preso nome “Dio”. E adesso vediamo questo nome, prima correggiamo il nome maschile e poi andiamo al Dio delle donne (anche lui tiene il nome maschile, nel mio linguaggio).
Il nome singolare maschile dal punto di vista della grammatica non è giusto, per cui alla lista dei nomi di Dio avrei aggiunto anche questo nuovo nome: lo Sgrammaticato. Gli ho lasciato il maschile singolare a questa condizione. È fuori dalla grammatica perché non gli va bene né il singolare né il maschile. Il maschile, evidentemente no, in quanto l’umanità sono donne e uomini e in quanto lui vuole abbracciare nella sua potenza tutto quello che è delle donne, tutto quello che è degli uomini e tutto quello che è delle bestie, delle bestioline, delle stelle, dei fili d’erba, dell’acqua che scorre, della musica e tutto… insomma, prendersi un maschile mi par proprio molto molto riduttivo.
L’altra cosa, più difficile da capire, è il singolare. La nostra è una religione monoteista e anche i nostri cugini che vengono adesso a trovarci sempre più numerosi sono in gran parte – alcuni suppongo che siano come alcune di voi, senza religione – di una religione monoteista, e anche i nostri antenati e amici ebrei – antenati nella civiltà religiosa e amici che vengono in libreria – sono di religioni monoteiste, e questo è un po’ un guaio. Abbiamo perso la ricchezza della pluralità di cui godevano gli antichi. Come i greci. I più sofisticati, tipo Aristotele, tenevano i piedi in due scarpe (non ho mai capito questo detto, in verità… ah, un piede, ecco!, tenere un piede in due scarpe, anzi sandali): Dio è uno ma si deve onorare tutti gli dei… Poi il cristianesimo ha fatto una bella genialata, quella della Trinità, che è una cosa bizzarra però sono riusciti a significare la pluralità. Naturalmente voi sapete bene che quel tre non è il tre che usiamo per contare, è un tre superlativo, di quelli che non servono per contare. Dal punto di vista filosofico, che Dio sia uno si ricava da quello che ho detto prima: se se c’è qualcosa c’è tutto, questo tutto è uno, non è che ci sono due tutti. Quindi l’unità è concettualmente rigorosa, ma “Dio” come nome è sgrammaticato, sia sul singolare sia sul maschile.
Alcune amiche, tra cui Letizia Tomassone e donne delle comunità di base, hanno introdotto il femminile di Dio, Dea, ma il femminile di Dio a me non piace. La mia amica Ivana Ceresa, che è l’autrice del libro postumo L’utopia e la conserva, insisteva perché Dio lo si chiamasse “Madre” e si recitasse il Padrenostro, la preghiera dei cristiani, dicendo “Madre nostra che sei nei cieli”. Questa cosa voi sapete che ha trovato una breccia importante in un papa che ha regnato pochissimo, papa Albino Luciani, Giovanni Paolo I, che non l’ha detto ex cathedra ma è una parola autorevole lo stesso. Comunque, il problema se preferire il femminile si pone. Ne ho discusso con Letizia Tomassone. Non la considero una questione cruciale, ma mi rendo ben conto che il genere grammaticale è uno scoglio.
Il Dio delle donne dal punto di vista storico non è mai morto. E la prova è in quel banchetto di libri che abbiamo messo in libreria. Questa non è una libreria specializzata in cose religiose ma è una libreria che presta attenzione alle donne e a quello che le donne scrivono e fanno, e donne che prendono forza dalla parola “Dio” o dal pensiero di Dio o dall’amore di Dio ce ne sono tante. Sono tante, sia nel passato, sia nel presente.
E qui vengo alla ragione per me più importante, che non è quella filosofica ma politica e simbolica, e cioè che Dio è una parola straordinariamente energetica, pur essendo una parola molto ordinaria. Non è una parola sofisticata, ricercata: se dico Essere con la e maiuscola, sono più sofisticata e ricercata che se dico Dio. È una parola che dà vigore alla parola femminile. Se leggo monsignor Ravasi, per esempio, che scrive spesso sull’inserto del Sole 24 ore, questo effetto non si sente, quello che dice è pura mondanità… Ha scritto un articolo su quelli che discutono su Dio, facendo la graduatoria di quelli che sono seri nel negare l’esistenza di Dio, di quelli che sono poco seri e di quelli che sono spregevoli: e lui? scrive sul giornale della confindustria, sul piccolo trono di questo luogo che pesa, che conta, per far sentire cose che con Dio che cosa c’entrano? Sinceramente, non credo una parola. Ma quando leggo Ivana che scrive su queste cose alle sue sorelle – il libro è Mie carissime sorelle – si vede che lei ha questa astuta alleanza con Dio. È una donna onesta, è una donna intelligente, è una donna dotata, ma è anche furba: si è fatta amica di Dio. E non è la prima. Sono tante le donne nella storia del pensiero che si sono fatte amiche di Dio, per darsi forza. E si fanno forza per essere libere. Perché questa è la cosa fondamentale.
Sono state le beghine ad avere la grande invenzione. Prima, ai tempi di Hildegarda di Bingen, si andava a fare le monache – tra i libri che abbiamo messo c’è quello del gruppo delle nostre amiche storiche della Libreria, Libere di esistere: raccontano vicende di donne medievali che entrano nella vita religiosa. Le beghine – siamo all’alba dell’Europa moderna – sentono spirare un vento di libertà di tipo nuovo, quello che dà la città, sentono la civiltà cittadina che nasce. La civiltà cittadina è il luogo dove la gente non ti conosce e tu puoi muoverti e fare la tua strada, e ti sposti ecc., puoi ascoltare delle cose e puoi dirle. Mentre nella civiltà contadina, la grande civiltà europea di base era questa, c’erano dei ruoli stabiliti e quello che uno diceva e faceva era prescritto, non era libero; non parlo esclusivamente della condizione femminile. Quando nasce la civiltà comunale, le beghine respirano il nuovo vento di libertà e hanno questa bella invenzione: si mettono insieme tra donne e non si chiudono nei monasteri, fanno voti provvisori, cioè si prendono il titolo di donne consacrate a Dio che dava loro l’inviolabilità da parte degli uomini e la possibilità di restare non sposate, di non doversi sposare e fare figli, ma senza vincolarsi a regole che potevano essere molto rigide e a soggiornare dentro un monastero da cui praticamente non potevano uscire. Le beghine invece si muovono per la città, vanno in giro, e cosa fanno? Una delle loro attività – in un concilio qualcuno lo riferisce, indignatissimo – era andare nelle piazze e nelle officine a parlare con i lavoranti e leggere il Vangelo in lingua volgare. Immaginate che gioia, per quella gente, perché loro credevano – e qualcuno lo crede ancor oggi – che quella è parola di Dio. Avere un libro dove tu pensi che è Dio che ti parla è bello, è una grande soddisfazione. Io quando apro Simone Weil – non è Dio, però è Simone Weil – cerco sempre qualcosa che mi sia di supporto, quindi lo tratto come un testo sacro, e mi dà sempre qualche risposta che mi aiuta. Per questa umanità inchiodata al lavoro, alla fatica, all’umiliazione, se arriva lì una che gli dice “Ti leggo un pezzo di quello che Dio vuole farti sapere”, è una gioia, non so se ve ne rendete conto. Simone Weil era consapevole che le civiltà religiose avevano sorgenti di gioia che noi non abbiamo, le abbiamo perse; forse gli spiriti religiosi le hanno ancora, ma la nostra umanità comune ha perso le sorgenti di gioia che davano le feste religiose, per esempio, le processioni.
Il Dio delle donne è sempre stato un ricorso per la forza, l’autorità e la libertà. Dell’autorità religiosa, voi sapete bene che quella ufficiale era degli uomini, del clero, ma alle donne veniva riconosciuta un’autorità straordinaria, quella carismatica, per dono diretto dello Spirito Santo, è data anche agli uomini comuni, i non preti (le donne erano tutte comuni). Tra le scrittrici mistiche italiane dell’antologia di Pozzi e Leonardi, compare la figura di una donna grassoccia che diceva di digiunare molto e a chi si meravigliava, rispondeva: “È lo Spirito Santo che mi nutre”. Per dire che con Dio si può anche fare degli accordi così. Se tu sei in una condizione molto difficile, il Dio delle donne accetta qualche patteggiamento, qualche inganno, sì. Io così la vedo, e d’altra parte Pozzi e Leonardi, non la presentano come una mentitrice o una fasulla.
Il carisma dà autorità riconosciuta, e nel libro L’utopia e la conserva, che è un profilo di Ivana Ceresa attraverso i suoi scritti, potete vedere una foto di lei, già seduta in carrozzella perché colpita da mielite, che parla autorevolmente al vescovo di Mantova. Mantova è una città che ha una tradizione di autorità femminile di origine religiosa: la beata Osanna degli Andreasi è una figura di santa viva – “sante vive” chiamavano le sante riconosciute come tali anche in vita – ed era consigliera dei principi di Mantova. Ivana Ceresa ha fondato un ordine di donne che chiama Sororità e tra le loro sante protettrici ha indicato anche la beata Osanna degli Andreasi, insieme a una monaca reclusa amica con la quale Osanna aveva uno scambio intenso.
E qui veniamo a queste amicizie femminili: le amiche di Dio sono amiche tra loro, naturalmente, va da sé. E stringono amicizie. A proposito di questo titolo – Le amiche di Dio era il titolo che avevo dato a una raccolta di studi su questo Dio delle donne – mi ricordo che alla presentazione del libro in una bellissima sala pubblica, un monsignore intervenne dicendo: “Io sono un amico delle amiche di Dio”. L’ha detto molto bene. Ho trovato che il modo di presentarsi di quest’uomo era di uno stile maschile di buona qualità. Cioè l’avere capito – non è il primo, non sono tanti ma ci sono – che per ingraziarsi Dio è meglio passare attraverso le donne. Voi dite: certo, i preti lo sanno bene, Maria Santissima è la mediatrice per eccellenza. Certamente, ed è importantissimo che la madre di Gesù abbia questo titolo, che conta molto, ma ci sono alcuni che capiscono il limite dell’unicità della figura di Maria e che lo correggono passando attraverso le donne. Un uomo che aveva attenzione e che faceva questo passaggio per arrivare a Dio, attraverso le donne, era il cardinale Federico Borromeo, che è stato vescovo di Milano: lui teneva corrispondenza e frequentazione di figure di mistiche, verso le quali si atteggiava con obbedienza e devozione, proprio perché riconosceva questa vicinanza.
Adesso devo andare alle conclusioni, non farò l’evitamento delle conclusioni. La ragione del mio interessamento al Dio delle donne – ripeto, le questioni su esistenza o non esistenza ho già detto come le ho risolte – è perché farsi forti di questo legame di complicità con Dio da parte delle donne, ha una felice rispondenza con la politica che noi chiamiamo del simbolico, cioè quella politica che non passa attraverso i rapporti di forza e la forza della legge per ottenere il meglio che si desidera quanto a sé, ma che passa attraverso il potenziamento dell’interiorità nello scambio relazionale. Se si fa posto a Dio nell’interiorità, il potenziamento è notevolissimo. Le mistiche dell’epoca delle beghine – e Maestro Eckhart riprende questo tema nella sua predicazione – dicevano che l’anima sarebbe come un abisso che è bucato in fondo, e nel fondo sfocia nell’assoluto, nell’infinito. E nel fondo del fondo loro potevano sentire Dio. L’aspirazione di sempre della ricerca mistica è sentire Dio, lo dice chiaramente e bene Simone Weil.
E veniamo a questo parlare di Dio. Sarebbe meglio sentire Dio e non parlarne, per tante ragioni. E questo si applica anche a me. C’è una scrittrice che ci riesce quasi, Cristina Campo. Cristina Campo non nomina Dio, ma se voi leggete quello che lei scrive, c’è questa segreta cattura. Un po’ vale anche per Simone Weil. Margherita Porete e le altre beghine parlano dell’amore, ed è un nome femminile – a proposito del femminile, anche queste scrittrici sentivano la questione dello Sgrammaticato e cercavano di risolverla. Hadewijch di Anversa lo chiama Die Minne, l’amore, che è un nome femminile. In Margherita a volte Dio è la Trinità, spesso è l’Amore, nome di genere femminile, che si presenta come Dama Amore; qualche volta invece diventa la Deité, un nome impersonale.
Sarebbe meglio non parlarne, e c’è questa possibilità, ma naturalmente questa possibilità è per chi ha questa potenza di amare. Anche Il Dio delle donne finisce dicendo: ma sì, non è necessario parlarne. Oggi alla scuola di scrittura parlavo di come concludere un testo: ecco, per Il Dio delle donne ero in difficoltà: dove andavo a parare con quel libro? Poi mi è venuta un’illuminazione, mi è venuta in mente quella donna che mi aveva obiettato: ma perché parlarne? E io: ma sì, si può non parlarne. Però sono qui, ho fatto questo discorso per poi ascoltare voi, quindi avete il permesso di parlarne. Se avete domande, obiezioni o contributi, vi ringrazio.

INTERVENTI

Luisa Muraro
[Risposta a domanda non registrata, sul titolo del libro L’utopia e la conserva]
È un accostamento, in quarta ci sono parole mie che danno la spiegazione: “Accostare con sorprendente armonia cose ordinarie e cose straordinarie è sempre stata una caratteristica di Ivana”. La conserva sono le cose che si fanno, poteva essere la marmellata… L’utopia e la conserva sono parole pronunciate da Ivana proprio per rendere l’idea del mescolare le cose banali con le cose sublimi, ed è l’unica maniera in cui possiamo parlarne, in questo tipo di società, tenere un tono dimesso per le cose sublimi.

Mariri Martinengo
Le monache dei monasteri dell’alto medioevo erano libere, Ildegarda usciva, andava a cavallo, e andava a predicare in giro. All’interno dei monasteri avevano la possibilità di studiare, di dipingere, di parlare con altre e altri al di fuori del monastero – Rosvita di Gandersheim ha mantenuto rapporti con la corte degli Ottoni e riceveva nel monastero -, di scrivere i loro libri e farli circolare. Cioè c’era libertà nei monasteri altomedievali, non è che solo le beghine godessero di libertà.

[Breve risposta non registrata]

MMariri Martinengo
L’altra cosa che volevo dire è che certo Ildegarda aveva un grande carisma che le veniva riconosciuto da uomini e da donne, anche dall’imperatore Federico Barbarossa con cui è stata in corrispondenza, e dai quattro papi che ha conosciuto nella sua vita. Però secondo me il carisma di Ildegarda è un carisma materno, che le viene riconosciuto. Le sue corrispondenti e i suoi corrispondenti la chiamano “madre” e lei accetta di essere definita così, cioè è un’autorità femminile la sua. E risponde a chi la chiama così con amore materno, con comprensione materna.

Francesca Ciribilo
Questo Dio maschile e anche sgrammaticato a cui in qualche modo si contrappone o si sottrae il Dio delle donne, dovrebbe essere risultato anche di una pressione culturale dovuta alla cultura greca: Zeus, che poi è passato nella nostra tradizione patristica. Un Dio quindi legato all’idea di potere, l’onnipotente ecc. Mi sembra che prima di questa forzatura nel concetto di Dio nostro cristiano, il concetto di Jahvé ebraico si collegasse più a una voce, infatti Jahvé ha solo le consonanti, quindi è l’impronunciabile, l’indicibile, però è quello che si rende noto nell’ascolto: una voce. Forse allora il Dio delle donne che consente questa maggiore libertà nella relazione donna-Dio di cui prima parlavi, è un significato di Dio più originario, meno manipolato dall’influenza greca molto maschile, che poi ha condizionato anche la teologia cristiana. Vorrei sapere se questo mio collegamento (sto leggendo dei testi di Adriana Cavarero che insiste su questa tematica, la voce), se si può pensare che il Dio delle donne sia un Dio prima dei condizionamenti dell’ordine simbolico patriarcale, e quindi sia come un aver conservato qualche cosa di più genuino, o di più antico.

Giovanna Mariani
Io sono interessata al femminile come tutti voi, e volevo citarvi due libri del Dalai Lama pubblicati quest’inverno: Non sprecare la tua vita, con un paragrafo dove dice che Dio è madre, perché Dio continua a dare, come una madre ai suoi figli, nutrendoli fisicamente e spiritualmente, facendoli studiare, e quindi la compassione e la comprensione sono più vicini a un elemento femminile, il modo migliore per esprimere queste qualità che lui intende molto importanti per il cambiamento del pianeta verso un mondo più di pace. L’altro libro è Lettere alle donne: partendo dai principi fondamentali e quindi da qualità interiori che possono appartenere sia a uomini che a donne o anche a un gattino o a una pianta che ci dona un fiore, la gentilezza e la compassione, fa vedere come le donne hanno la capacità di esprimere al meglio tutti questi principi fondamentali che sono quelli che appartengono a Dio. Secondo me è interessante anche perché attualizza tutte le nostre ricerche.

Doranna
Sono una donna delle comunità di base, che prima hai citato. Sì, effettivamente c’è stata in questi anni una grossa ricerca, un travaglio direi, sulla questione del nome, perché ognuna di noi è d’accordo sul fatto, come dicevi tu, che sarebbe meglio sentire Dio e non parlarne, però, essendo comunità, c’è il momento della preghiera comune, o il momento della celebrazione comune. Momento misto, tra l’altro, in cui il Dio delle donne, che noi spesso separatamente abbiamo comunque cercato di far riemergere in qualche modo, deve trovare poi espressione. Devo dire che non abbiamo mai usato il termine “dea” nelle nostre preghiere e nelle nostre celebrazioni. Le comunità di base sono variegate, non sono una realtà uniformata, dipendono molto dal territorio, dai luoghi, dalla storia, però abbiamo dei momenti di coordinamento nazionale in cui ci incontriamo tra donne, e in questi momenti separati non abbiamo mai usato questo nome. Abbiamo cercato invece di utilizzare nuove immagini e nuove metafore, a partire anche da una ricerca sulle profetesse… o semplicemente sui nomi diversi di Dio che nella Bibbia sono stati usati. Però questo è un problema che nasce proprio perché ci sono dei momenti in cui la comunità si riunisce.

Flora
Ho appena sentito una conferenza di un filosofo francese che aveva per titolo “Di quale Dio si è detto che è morto”, e lui, un uomo, non non poneva il problema del nome ma quello degli attributi. È morto un Dio che per secoli, dovuto a un moralismo ecclesiastico, era un Dio giustiziere, che se ne stava da solo e non in relazione; perché nel momento in cui un Dio entra in relazione non può dimenticare la giustizia ma non può neanche dimenticare quella passione o quella compassione di cui pocanzi si parlava. Cosa pensi di questa idea?

Monica Giorgi
Non si tratta di vedere Dio ma di esserlo. Forse è meglio non dirlo, però ci si prova, per spostare l’asse del dicibile, e quindi anche dell’indicibile. Occorre secondo me parlarne, ma in una maniera che non lo definisca – non può esser definito Dio – e non in base a una percezione: a un saperlo più che a un sentirlo, che però non può essere comunicato perché va nell’ambito dell’essere, e l’essere non ha parole, non può avere parola l’essere e il non essere. In questo senso va anche la questione del linguaggio: per esempio la parola “conserva” mantiene dentro di sé l’aspetto piuttosto ambiguo di che cosa voglia dire. Perché per me “conserva” non rimanda necessariamente allo stoccaggio delle marmellate o dei pomodori, la conserva rimane anche nel senso di secreto, di qualcosa di essenziale. Quando mia mamma diceva “dammi la conserva”, io le davo il tubetto di pomodoro essenziale concentrato, esattamente. Quindi la conserva ha un’ambiguità, come ogni parola, che è una positività per poter dire Dio. È l’ambiguità della parola che dà la possibilità di dire qualcosa di Dio. Fra l’altro si può dire anche che Dio è stupido, è una cosa importantissima la stupidità di Dio.

Maddalena Brentarolli
Per me la domanda sull’esistenza o non esistenza di Dio è importante, non sento che si possa scavalcare. Quando sento un teologo dire che non è importante porsi la domanda ma vedere dove Dio si manifesta, non mi dice niente, se non risolvo a monte la questione dell’esistenza. Non mi posso sganciare da una tradizione, o da quanti credono che noi siamo qui perché Dio ci ha creati.

Luisella Lugoboni
Vengo da Verona, sto facendo una tesi su Ivana Ceresa. Ho iniziato a leggere i suoi testi, ho cercato di capirla, di entrare in contatto con lei come persona attraverso quello che ha detto e scritto. Volevo chiedere a lei che l’ha conosciuta personalmente se c’è qualche aspetto, qualche cosa peculiare, qualche dimensione che secondo lei vale la pena di mettere in evidenza.

Vita Cosentino
Parto dal fatto che non sono credente (ma non sono anticlericale), però una cosa bella di questa questione giocata tra donne è che non c’è questa distinzione e quindi sono qua perché mi interessa. Sono colpita da una cosa che dicevi: le donne che sono credenti prendono forza da questo. Anche chi non sente Dio, come me, questa questione la sente molto. E pensavo a tante cose che sono state proposte – Irigaray proponeva di mettere da tutte le parti immagini di Sant’Anna e la Madonna, di esplicitare dei simboli – e ho continuato a pensarci anche quando dicevi che la religione aveva tante feste. Chi non crede ha comunque le stesse esigenze, di prendere forza, di un orizzonte più grande, anche di spiritualità, e non usa il nome di Dio. Una cosa che mi ha convinto stasera è il sentire Dio: se una non lo sente, non c’è, se una lo sente c’è. Io non ho il problema di dimostrare l’esistenza o la non esistenza di Dio, però questi altri problemi sì che li ho tutti, e volevo anche riportarli, per avere altri contributi in questa analogia che si può fare tra prendere forza interiormente in un modo oppure in modo simbolico, però di questo nostro simbolico, di donne. La questione anche di farne dei simboli, delle feste, perché se non mi sbaglio il tuo libro Il Dio delle donne finisce con: si può non parlarne, basta il voler bene. Però la cosa è solo enunciata e non si è andate avanti in una ricerca.

Andreina
Volevo tornare al titolo del libro Utopia e conserva. Lei ha parlato di miscuglio. Da quello che capisco di Ivana, avendola letta, per Ivana l’uso delle parole era importante. Pensando al miscuglio ho pensato che sono due realtà che rimangono distinte, l’utopia e la conserva. Mi sembra che Ivana avesse usato la parola “incarnazione” invece che miscuglio, dato il valore grande che Ivana dava al quotidiano. Infatti alla fine di tutto, quando parla di Dio, dice che non è la teologa o la studiosa ma è l’Ivana che parla di Dio. Dato che lei l’ha anche conosciuta, vorrei che mi aiutasse a capire questo.

Lucy
A parte la facile battuta che il Dio delle donne non è morto forse perché non è mai nato (tutto ha un principio e una fine, se Dio è tutto è anche principio), volevo dire che per quanto riguarda me cito Margherita Hack: “Non credo, non ho fede, ma anche il non avere fede può essere una grande fede”. Infatti, per dire qualcosa di positivo come sollecitava prima la nostra Luisa Muraro, il non avere fede significa il poter avere fede in tutto, perché non avendo preconcetti tutto può essere possibile, anche credere che se c’è Dio si potrà manifestare, che ne so, in una nocciola, in qualsiasi cosa che noi conosciamo, che è poco, perché nell’universo c’è talmente tanto che non conosciamo che può essere di tutto. Comunque io non mi aggrappo alle vecchie storie che ognuno racconta a modo suo a seconda della religione d’appartenenza o al proprio credo: si può vivere lo stesso senza sopravvivere, vivendo pienamente, aspettando magari di sapere qualcosa di più, e se viene viene, se non viene non viene, non c’è problema. Quindi la parte positiva dell’essere senza Dio è che si può vivere benissimo anche così. Grazie.

Giovanna Mariani
Dio è tale perché ha creato tutte le creature (è una definizione classica), e quindi le creature non possono arrivare a concepire il creatore perché le ha create. E poi, sempre nei testi religiosi, si trova che certe cose sono percepite solo dal cuore, cioè se noi diciamo “Che bello questo fiore” probabilmente in quel momento abbiamo un’emozione. È una cosa sperimentabile e quindi la possiamo riportare. Per quanto riguarda gli atei, molti credenti pensano che siano quelli più vicini a Dio, perché tagliando tutti i fronzoli, le manifestazioni esteriori, candelabri, vestiti… arrivino più all’essenzialità e quindi siano più vicini a Dio. Se questo abbia più o meno importanza, è relativo. La cosa fondamentale secondo me in questo momento è che si stia remando nella stessa direzione: se i principi di base sono l’amore, il rispetto per gli altri, il rispetto per la diversità, per un mondo più pacifico e dove si possa vivere tutti meglio, è relativo dove uno attinge le proprie forze, il proprio sostegno, l’importante è sentirsi un unico corpo e remare nella stessa direzione. Nel rispetto reciproco, chiaro.

Emma Scaramuzza
Ho indugiato a parlare perché anch’io ho pensato e penso che di Dio farei bene a tacere. Nello stesso tempo mi sono ricordata di quello che tu mi hai sempre detto: “Emma osa”. E allora ho pensato di farlo. La ragione della mia titubanza è legata al fatto che io sento il mio parlare del rapporto con Dio come una cosa molto intima, molto delicata, rispetto alla quale ho come il timore di poter essere ferita. Ma parlo perché io appartengo a quelle persone che sentono Dio, che lo riconoscono, perché lui si è fatto riconoscere da me senza che me lo aspettassi, e il Dio che conosco e che vivo non è né singolare né maschile, perché è il tutto, e non è neppure femminile, è un tutto che accoglie tutte le cose. L’altra ragione che mi spinge a parlare è che ho sentito spunti interessanti in questo tuo modo di parlare di Dio che avevano a che fare con l’accostare una materia che può apparire così ineffabile, con questo tuo modo molto diretto, e a me interessa poter comunicare in un modo che non offenda la sensibilità degli altri, rispettando la mia, e ho sentito che c’era una cosa buona. Mi risuona molto questo dire che Dio è una parola straordinariamente energetica, e io dico di più: Dio per me è una esperienza straordinariamente energetica. Ma dirò di più, è bioenergetica. Nel senso che è quello che ha potenziato la mia vita, e mi ha dato per l’appunto forza, autorevolezza e anche libertà. Volevo ringraziarti di aver detto queste cose.

Luisa Muraro
Grazie, Emma. Dal punto di vista di una regia dell’incontro il tuo intervento sarebbe stato perfetto come ultimo… Ancora una domanda, sì.

Flora
Si è parlato sia di cuore che di sentire. Il sentire è un’esperienza intima di cui si può parlare o non parlare, e il cuore – a me piace molto la definizione di Hannah Arendt – è una dimora e non è una patria. Quello che il cuore sente innanzitutto, almeno per la mia esperienza, non è Dio ma è quello che diceva Vita, un insieme di esigenze, e l’esigenza di prender forza da qualche cosa. Cioè sente questa condizione umana come mancante o bisognosa di un di più. Questo è quello che il cuore a mio modo di vedere può dire davanti a chiunque, e che invece un discorso religioso ha come dimenticato. Il punto di partenza è la nostra esistenza umana che tutti i giorni ha bisogno di prendere forza, non so da chi ma questo è un bisogno di tutti.

Giordana Masotto
L’ultimo intervento mi ha forse chiarito una cosa che volevo dire. Io non sono credente. Ho avuto un’educazione e anche una pratica religiosa di quelle normali, da cattolica italiana, di prima socializzazione con altre donne: andavo all’oratorio con grande impegno, avevo anche una responsabilità di gruppi, di bambine più piccole di me… Quella prima esperienza è stata certamente molto importante e capivo che non c’era niente di religioso in quello. E quando lentamente ho potuto liberarmi senza grandi traumi dell’aspetto religioso, finalmente ho potuto pensare che la cosa poteva prendere corpo davvero, crescere. Allora il bisogno di essere, di sentire, mi viene da dire: di relazione, di potenzialità continuamente da far crescere, di trovare la forza, di pensare che la storia non è mai finita, che tutto può ricominciare ogni giorno, ogni momento, tutto questo è come se mi fosse dischiuso quando ho potuto dire che era profondamente umano. Come se invece quell’altra cosa religiosa mi mettesse un coperchio, non una libertà in più. Questo non mi impedisce di vedere che il modo in cui chi crede parla del credere come qui è accaduto mi mette in una possibilità di relazione, dischiude una possibilità senza limiti di parlarsi, di costruire insieme tra chi crede e chi non crede, e questo mi sembra una grande potenzialità, e anche il bello di tutta la storia.

Antonella
Questo “delle donne”, pensavo a come declinarlo. Se Dio è qualcosa di trascendente, di infinito, quindi non di proprietà delle donne, in che senso “delle”? In quanto le donne nella loro specificità ne parlano, lo pensano, pur non pensandolo del tutto, o lo sentono? Perché questo genitivo?

Luisa Muraro
Comincio da questo “delle donne”. Non si dice niente, non si parla di niente, non si fa niente se non si scommette, se no si va all’insignificanza. La mia scommessa è questa, “delle donne”, e non parlo solo del campo della teologia, che poi non frequento affatto. A un certo momento è diventata anche la scommessa (non nei termini che le do io) di Ivana Ceresa. Con Ivana Ceresa avviene che ci si incontra, tra Verona, dove c’è Diotima, e Mantova. Ci ritroviamo dopo una frequentazione che si era interrotta, ma lei mi aveva presente. In Maglia o uncinetto avevo scritto, parlando di metafora e metonimia, “ecco, così, di colpo, come Gesù che passa i muri ti si presenta lì”, e lei che lavorava con i carcerati era rimasta colpita da questa figura di Gesù che davanti a un muro passa dall’altra parte e dice “Eccomi qua, sono risorto”. Però non ci si vedeva. Poi ci siamo incontrate. Non dico le circostanze, che sono molto intime, di un’amicizia, quella in cui ci siamo riprese a frequentare. Io ho cominciato a parlare della differenza, e lei ha colto che lì c’era il taglio simbolico, che la cosa che lei doveva fare era dire Dio al femminile, la teologia della differenza, la teologia femminista, perché quello riordina tutto un campo. Ma bisogna farne la propria scommessa, non dire “è verosimile”. “Delle donne” è semplicemente il taglio, Dio è tagliato da questa cosa, ed è quello per cui io posso parlarne. Non c’è altra cosa. Senza negare niente. Ma se cominciamo a dire “Dio essendo trascendenza…”, è persa, lei ha perso se stessa, cioè il suo discorso, e anche Dio ha perso, perché non si sta dicendo niente. Magari si ritroverà facendo una conserva… È un professore di filosofia dell’Università Cattolica che è tenuto a spaccarsi il cervello su quella questione. Anche quando si va a scrivere libri, sia chiaro, bisogna averla la scommessa.
Giordana rincalza quello che diceva Flora: Dio è energetico, sì, cioè è l’umano che contiene quella pregnanza che arriva fino a concepire Dio. La cosa che ha detto Emma la lascio alle sue parole, e la ringrazio moltissimo, anche di avere colto lo slittare, non farsi incastrare da discorsi già fatti, perché se no abbiamo perso la cosa dell’esperienza. Giovanna Mariani ha fatto due interventi, e volevo dirle (dato che lei parla da professoressa) che la teologia della creazione riguarda un’area ristretta della religione. Che Dio sia creatore lo hanno detto gli ebrei e i cristiani, i greci non concepivano che Dio fosse creatore. Poi lei ha ricordato una cosa molto importante, che gli atei sono considerati più vicini a Dio, anche Simone Weil lo dice. Però bisogna afferrare il modo per cui si arriva a fare questa affermazione, se no sembra una battuta di spirito, ma sono sicura che lei l’ha ben presente.
Sia Giovanna sia Lucy hanno usato due immagini che sono associate per me a questo tipo di discorsi. Giovanna ha detto “stiamo remando nella stessa direzione”: mi è venuta in mente una poesia di Anne Sexton che dice “come è faticoso remare contro Dio”. E questo è una mia specialità, io sono brava a remare contro Dio, ma è faticoso, sì, e non so neanche remare ma è come se sapessi bene come si fa remare contro Dio… Lucy ha tirato fuori la nocciola, che è un’immagine di Giuliana di Norwich, la grande, meravigliosa Giuliana di Norwich, nel Libro delle rivelazioni. Se non l’avete letto, quelle che amano la letteratura mistica la leggano. Piaceva molto al poeta inglese Eliott, ne era appassionato. Lei ha una visione e vede che Dio, Gesù, tiene tre nocciole in mano, e dice: “queste siete voi, e io vi tengo con cura e con amore”. Credo di avere ancora una nocciola che mi porto dietro dall’orto di mia madre. Una figura della nostra piccolezza, che anche Leopardi sentiva, come ho ricordato (lui si rivolge alla Madonna: tu così grande…). La piccolezza amorosa. Sono sentimenti, per chi può provarli, di straordinaria dolcezza. Ma chi rema contro Dio no, invece, di Dio ha un’immagine energetica. Grazie del contributo, Lucy, perché bisogna percepire questo.
Andreina, è vero, la vita quotidiana aveva grandissimo valore per Ivana Ceresa, lo dice nei suoi scritti. In fondo, lo stile che uso l’ho imparato vicino a lei. La parola miscuglio la uso io. Il fatto che Ivana mescolasse cose sublimi e cose quotidiane era una sua caratteristica ma aveva uno stile suo: era una signora, si faceva ascoltare dai vescovi, mi ha sempre fatto pensare a Ildegarda di Bingen. La sua mostarda o marmellata che fosse, non la considerava cosa da poco: la sua vita quotidiana era vissuta come si vive una vita quotidiana ma da signora. Era la signora di casa sua omaggiata da uomini che le volevano un gran bene, era “la possenta”. Ha scritto per Via Dogana un articolo dedicato alla Madonna dicendo che nella campagna mantovana la chiamano “la possenta”, che è anche il titolo che danno alla suocera e alla padrona di casa. Ma guardate che quello che si scrive è sempre distante da quello che siamo, bisogna ricordarsi che la scrittura compie un’operazione speciale.
Grazie anche a Vita che ricorda la questione, perché – io non l’ho voluto fare, ho parlato tanto di Dio ma non ho detto quello che è il proprio di Dio – bisognerebbe parlare dell’amore se si vuole parlare di Dio. Io sono inadeguata, ho solo accennato alla faccenda, però è di quello che tratta. Qualcuna ha detto che non si vede Dio. Quando vedete una persona che è buona, la bontà di una persona buona (non una che finge), voi vedete Dio. Così quando vedete una persona abbandonata, che non ha soccorso umano, voi vedete una immagine di Dio – per la religione cristiana. La luce che fa la bontà di una persona buona, è Dio.
Maddalena fa una sacrosanta obiezione, che non si può scavalcare la domanda sull’esistenza di Dio. Io mi sono tolta da questi problemi e ho trovato supporto anche dalla migliore filosofia; lo stesso Bontadini che ha prodotto una prova dell’esistenza di Dio in quanto creatore ha detto che è una prova per modo di dire. La domanda tua è sacrosanta, io ho deciso di saltarla. Un giorno andavo con un pretino pieno di buona volontà sulla sua automobilina, mi portava alla sua parrocchia a parlare delle donne, era tutto fervoroso, sarà stato marzo, dovevo chiudere un ciclo dedicato alle donne, e mi dice: “Ma Luisa” – lui mi conosceva poco – “ma tu credi?” Perché – pensava – la porto qua davanti a tutte mie pecore… Ce n’era tantissime di pecore (nel senso buono della parola), era pieno il teatro, ma si vedeva che era un uomo pieno di fervore, e giovane per giunta. Guardo fuori dalla sua automobilina e dico: “Io quando guardo questo, certo, c’è qualcosa, c’è tutto, c’è Dio. Le altre cose…”. “No, no, mi basta questo”, ha detto. Allora quella volta ho deciso: se ha bisogno di farsi conoscere… E così lì è comparso nella forma di questo personaggio. A me interessava parlare del tema, a lui… Si fa anche così. Se poi tu fai anche il teologo, filosofo di professione, non basta, ti devi spaccare la testa, ma io no, io faccio la politica delle donne, su questo ho scommesso. E quindi prendo quella scorciatoia. Però capisco quando dici che non si può scavalcare.
Monica, “più che dire Dio, si tratta di esserlo” è la posizione di san Paolo: non solo il sentire ecc.
Flora, “di quale Dio si è detto che è morto” è uno spunto, ma a me non fa gioco questo discorso. Capisco, lui è un uomo, deve salvare qualcosa, deve cercare di strapparci al nichilismo. Mi va benissimo che dica che è morto il Dio non relazionale, perché questo incrocia un punto importante della politica delle donne: una donna non conquista mai se stessa se non nella relazione con un’altra donna. Noi lo abbiamo vissuto, provato, sperimentato, la nostra libertà nasce nella relazione donna con donna. Non c’è altra strada, non c’è l’autocoscienza pura hegeliana, la lotta con la coscienza dell’altro per affermare la propria ecc. Se questa cosa per noi fondamentale, sorgente di libertà femminile, diventa un attributo divino, ben venga – del resto, la trinità divina è relazionale – ma che sia un Dio relazionale nel senso umano della parola.
Doranna, di Pinerolo, grazie, ci hai fatto conoscere qualcosa delle comunità di base.
A Giovanna Mariani, grazie. Questa lettera alle donne del Dalai Lama, vediamo di tenerla in libreria, perché abbiamo uno scaffale di amici delle donne, e sarei a priori incline a pensare che lo sia, però lo dobbiamo leggere, naturalmente.
E infine, Francesca, che ha fatto un’ipotesi teorica e me la sottopone. Io non sono in condizione di sapere se Jahvé sia una figura generatrice del Dio delle donne, cioè sia una matrice più adeguata a questo Dio delle donne. Non lo so. Ma quello che lei dice è giustissimo. È ineccepibile, lo ha ripetuto positivamente come teologo e studioso Joseph Ratzinger, che la religione cristiana nasce da uno sposalizio tra la rivelazione ebraica e la filosofia greca. La filosofia, non la religione greca (a me non risulta che ci sia stata tanta influenza del Giove dei greci), indubbiamente ha contato molto per la gestazione della teologia cristiana, e alcuni vorrebbero invece purificarla dall’influenza greca – non Ratzinger, lui è contrario – per far venir fuori quella ebraica, come più autentica. Però io su questo non posso dire. Quello che posso dire è che il Dio delle donne non è che sia arcaico o antico o precedente ai condizionamenti, non ha una sua consistenza: viene generato dalle donne, o riconosciuto dalle donne. È questo il Dio delle donne. Quello che è stato tenuto in vita dalle donne che non hanno aderito a ricerca del potere, del prestigio, delle cariche, e persecuzioni… Con quel piccolo peccato – non piccolo – di quella mia amatissima che ha detto che credeva che le crociate fossero una cosa buona: si sbagliava.
Vi ringrazio.

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