24 Novembre 2007

Il pensiero femminile sulla scienza

Esiste un pensiero femminile sulla scienza? Abbiamo un linguaggio capace di dare la parola alle tante giovani donne che fanno un lavoro scientifico con libertà e senso di sé? A queste domande si è cercato di rispondere il 24 novembre, alla Libreria delle donne, a partire dal libro Viaggio nel paese delle meraviglie. Scienza e curiosità nell’Italia del Settecento, che fa luce su un momento cruciale dello sviluppo scientifico in Italia senza trascurare il ruolo delle donne. L’autrice, Paola Bertucc, Enrichetta Susi e Sara Gandini hanno dialogato su questi temi.

 

Quando ho proposto questo libro in realtà l’ho fatto perchè si facesse una scheda dentro il sito della Libreria – inizia Enrichetta Susi parlando di Viaggio nel paese delle meraviglie. Scienza e curiosità nell’Italia del Settecento (ed. Bollati Boringhieri, 2007).
“E’ un testo di piacevolissima lettura, cosa che non succede spesso con i libri di storia della scienza. Poi ha, ai miei occhi, alcune qualità che lo rendono adatto ad essere punto di partenza per le domande che stasera ci poniamo (Esiste un pensiero femminile sulla scienza? Abbiamo un linguaggio capace di dare la parola alle tante giovani donne che fanno un lavoro scientifico con libertà e senso di sé?)
Innanzitutto descrive un periodo della scienza in Italia particolarmente interessante perchè dopo quei tempi siamo sempre andate in discesa. Si tratta di un periodo di grande fermento scientifico all’interno del nostro Paese. La cosa che mi è interessata è che viene descritto con accuratezza, precisione e anche con una certa sottigliezza il nascere di una comunità scientifica attraverso le relazioni e l’importanza di queste relazioni sia nel viaggio di Jean-Antoine Nollet in Italia sia in quello che lui vuole costruire e che mette in piedi con personaggi di Bologna, Napoli. L’attenzione alle relazioni come base del fare della scienza di cui abbiamo tanto parlato ai tempi di Autorità Scientifica Autorità Femminile non sono in genere oggetto di attenzione sia nei testi di storia sia nei testi di filosofia della scienza. Il secondo punto che mi interessava è che viene riportato il ruolo delle donne in Italia in quel periodo. C’erano due donne, Maria Gaetana Agnesi e Laura Bassi che avevano un ruolo importante. Laura Bassi fu la prima donna che si laureò a Bologna. Quello che mi è interessato era cosa c’era intorno a questi due ruoli femminili, il tipo di costruzione, oggi si direbbe mediatica, il tipo di costruzione pubblicitaria che è stata fatta intorno queste due figure femminili presentate come mostri, nel senso di meraviglie, perchè donne sapienti, esibite in ogni occasione in quanto tali. Io credo che le due domande che avevo fatto ovvero, ‘esiste un pensiero femminile sulla scienza? Abbiamo un linguaggio capace di dare la parola alle tante giovani donne che fanno un lavoro scientifico con libertà e senso di sé?’ La mia risposta è no, nonostante i tentativi che abbiamo fatto e c’è necessità di un pensiero femminile sulla scienza. E’ quindici anni che abbiamo lavorato per dimostrarne la necessità e l’urgenza, adesso è ancora maggiore perchè ci sono nella scienza tantissime donne giovani che, a causa dell’assenza di un pensiero femminile, fanno difficoltà a trovare un linguaggio con cui descrivere la propria esperienza. Tanto è vero io credo che Sara Gandini, poi me lo confermerà, non trovi facile parlare dentro la Libreria della sua vita scientifica, delle sue competenze che sono grandi. Non riesce a far circolare l’autorevolezza, un’autorità scientifica che ha nella sua comunità. Credo che questo sia un grave problema.
C’è un problema più generale di uomini e donne che non ci sia un pensiero sulla scienza nella nostra società, che la scienza sia quasi sepolta nell’inconscio sociale perchè è diffusa ovunque, è continuamente adoperata ma non è pensata, non c’è un pensiero, una mediazione sociale che aiuti a pensare che cosa la scienza sta facendo, dove va, dove conduce. Il costo che paghiamo è troppo alto.

 

Per me è molto importante essere qui non solo per il luogo ma anche perchè ho ritrovato Enrichetta che ha avuto una grande importanza nel mio percorso accademico anche nello scegliere il settore di ricerca – interviene l’autrice Paola Bertucci -. Le devo molto anche per il fatto che abbia proposto il mio libro per parlare di scienza tra donne o di donne di scienza. Mi sembra una bellissima opportunità. Per questo ho riguardato il libro del ’92 di Ipazia Autorità Scientifica Autorità Femminile che avevo letto in quell’anno. Ho ritrovato qui autrici di quel libro e concetti e pensieri che, mi accorgo, sono rimasti con me e ho ritrovato in percorsi diversi a cominciare da quelli del testo, perché il libro ruota intorno a questo concetto, ovvero come si costruisce autorità scientifica più che una storia della scienza nel senso di teorie, esperimenti, personaggi. Questa è una storia di relazioni che rendono possibile la scienza. Succede da un po’ di tempo nella comunità internazionale, fuori dall’Italia, di storici della scienza che sostengono l’ipotesi che la scienza è vista come un prodotto sociale, un prodotto di una cultura che ha luogo in un certo tempo, anche in un certo spazio, e che è frutto di relazioni tra comunità e tra individui. Quindi sono queste relazioni che ho messo a fuoco in un contesto preciso che è quello di un viaggio, c’è anche una storia appassionante di una controversia scientifica. La cosa forse che vorrei dire prima di cominciare la discussione a cui tengo, è quella che la scienza è, nel pubblico generico, considerata come qualcosa che c’è sempre stata e sempre uguale a se stessa. Quello che a me ha insegnato il percorso di storia scienza (l’autrice è laureata in fisica poi si è specializzata in storia della scienza, ndr), lo studio di storia è che la scienza non rimane sempre uguale a se stessa perché i personaggi e le relazioni che le fanno cambiano nel tempo. Questa è una cosa importante da tenere presente. Quando la si guarda come prodotto sociale si notano alcune increspature nei racconti storici che vengono fatti su questo soggetto appunto, la scienza, in particolare il ruolo delle donne. Se ci aspettiamo donne come Marie Curie o Laura Bassi ne troviamo poche. Io ho cercato di andare oltre, ho cercato di trovarne altre, quelle che non sono diventate famose, quelle che non hanno pubblicato dei testi che non sono diventate professoresse. E che magari non hanno scoperto neanche niente di nuovo però magari nelle loro case, perché di nascita nobile o comunque alto borghese, si dilettavano, avevano piacere, a studiare non letteratura o poesia, o non solo, ma anche la scienza. Non leggevano solo testi pubblicati da altri ma compravano degli strumenti e insieme a mariti, figli, o anche da sole eseguivano gli esperimenti. Stiamo parlando di un periodo, il Settecento dove non c’era una separazione netta tra le due culture. Oggi invece si parla sempre di due culture: la cultura umanistica e quella scientifica. All’epoca questo confine non c’era, scienza significava conoscenza e quindi si parlava di un uomo o una donna scienziata. Scienziata era un aggettivo e significava una persona dotta. Questo ha delle conseguenze importanti sull’oggi e su come le donne vivano la conoscenza scientifica soprattutto quelle che non hanno studiato scienza.
Vorrei dare qualche notizia su questo periodo che mi ha appassionato. Il Settecento è stato definito da una mia collega americana il secolo delle donne. Perché? Non tanto perché fossero protagoniste ma perché di loro si parlava e si scriveva moltissimo. In Italia, un tema di discussione in un’Accademia veneta fu proprio sull’opportunità o meno che le donne studiassero. Vennero pubblicati diversi pamphlet, alcuni prendevano posizione a favore, altri contro, comunque erano tutti uomini, perché sono tutte voci maschili quelle che si esprimevano su questo tema. C’era anche qualche donna che spesso diceva che non tutte dovevano studiare. Studio inteso come non scientifico ma come erudirsi, leggere, imparare ad esprimersi. Erano quindi punti di vista maschili quelli che ci rimangono, coloro che pubblicano o che sono visibili in istituzioni, che danno autorità alla parola di chi parla, sono prevalentemente uomini.
Si parlava di Laura Bassi o Maria Gaetana Agnesi. Sono donne che non pensano a una genealogia femminile, non pensano di lasciare un’eredità di creare un posto, non si relazionano ad altre donne ma principalmente ad altri uomini e sono donne che arrivano ad avere visibilità pubblica perché un nugolo di uomini ha trovato l’interesse a fare sì che questo avvenga. Maria Gaetana Agnesi aveva un padre alle spalle che non era nobile ma aveva ambizioni nobiliari e quindi usa il prodigio della figlia per farsi un nome in città e anche altrove. Laura Bassi doveva rilanciare il ruolo di Bologna la dotta, una città in decadenza nel Settecento a livello internazionale. Non è un merito specifico di queste personaggie che le consegna alla storia ma è piuttosto un insieme di relazioni che forse non ci gratifica guardare, ma che invece rende possibile la loro esistenza storica come personaggi più che come donne. Nel caso di Laura Bassi, che era particolarmente ambiziosa, pur di diventare accademica benedettina, cioè stipendiata dall’Accademia delle Scienze, chiese di essere extranumeraria, cioè oltre ai 24 accademici di routine, chiese di aver un ruolo in più per sé che sparì con la sua morte, quindi lei stessa si propone come eccezione, che tale deve rimanere. Quindi per queste donne ha senso chiedersi perché sono delle eccezioni, meraviglie o mostri?
Il punto è che emergono dei personaggi a seconda di come si guarda un’impresa umana come la scienza e basta leggere tra le righe anche del pubblicato che raccontano gli uomini per trovarci delle donne. Per esempio viene citata la moglie di qualcuno che si dilettava a fare esperimenti di elettricità e qualche collega trovava dei documenti che mostrano questa persona, una sconosciuta in azione che fa i suoi esperimenti. Basta leggere i diari dei viaggiatori per capire che passavano le loro serate nei salotti di dame locali che parlano, conversano di materie che oggi definiamo scientifiche: l’elettricità, le collezioni naturalistiche, la meccanica newtoniana, l’astronomia. La scienza è anche divertimento nel Settecento per cui ci si dà a questo piacere. Quello che volevo sottolineare è come questa assenza di divisione tra le due culture permettesse una partecipazione femminile che oggi sembra persa. Quando si discute oggi del rapporto tra donne e scienza sembra che la scienza sia questo sapere un po’ spaventoso, molto potente e prepotente da cui quindi un pensiero femminile, tradizionalmente e culturalmente più ‘pacifista’, non si identifica, non si riconosce. Questo è un errore culturale che deriva anche da questa pesante eredità tra le due culture cioè la cultura umanistica e la cultura scientifica a cui sembra corrispondere una differenza tra i due sessi: la cultura umanistica sembra appartenere di più alle donne e quella scientifica più agli uomini.
Ho trovato su Internet uno studio fatto a Napoli, città della scienza. Qualche anno fa venivano intervistate delle studentesse, delle ragazze, e veniva chiesto loro se la scienza è un mondo per le donne e la loro risposta è stata, nella stragrande maggioranza, di no, la scienza non è un mondo per le donne. Eppure queste dame del Settecento nei loro palazzi si divertivano a fare scienza anche se non hanno lasciato eredità, ma avevano interesse, partecipazione, voglia di fare, di scoprire, di darsi alla scienza. Come mai prima c’erano e oggi invece quello che troviamo, quello che c’è, è un senso di estraneità femminile alla scienza? Mi chiedo quali siano le radici culturali di questo fenomeno. Io le trovo in questa tradizione molto occidentale delle due culture.
Quando studiavo ad Oxoford ricordo che le ragazze mussulmane studiavano spesso le materie scientifiche, quelle dure tipo ingegneria e c’erano molte donne medico. Allora ho voluto verificare anche questo e ho trovato che nel 2000 c’è stato un congresso internazionale in Giordania: Donne mussulmane nella scienza per un futuro migliore. Ho trovato inoltre che anche che nei paesi di religioni islamiche le donne che si laureano in scienza, se la percentuale in Usa è 43%, in Bahrein è 74%, in Brunei 49% in Kirghzikistan del 64% in Libano 47%, in Qatar 71% in Turchia 44%, sono tutte superiori agli Stati Uniti.
Inoltre c’è un 70% di studentesse negli Emirati Arabi Uniti. Mentre in Europa siamo su un 35%.
Una cultura occidentale responsabile della divisione tra le due culture che ha penalizzato la confidenza delle donne nella scienza perché ha attribuito dei ruoli.”

 

Sara Gandini riprende alcuni spunti per raccontare una sua esperienza.
Di quello che diceva Enrichetta mi ha colpito la questione dell’attenzione alla relazione, i pericoli della costruzione mediatica che ci sono rispetto alla scienza, l’urgenza di saper raccontare quello che accade con un linguaggio che sappia dire, mentre nominare l’estraneità delle donne alla scienza che in parte mi trova d’accordo in parte no. Anch’io sento un’estraneità rispetto a certe comunità scientifiche, a certe diatribe scientifiche rispetto alle quali io mi sottraggo, ma ho incontrato tante giovani donne appassionate di scienza che dedicano molte delle loro energie, tanta passione alla ricerca quando la ricerca scientifica diventa scoperta, diventa ricerca per dare luce su questioni che appassionano.
In questi giorni ho cercato di pensare alle domande di Enrichetta: esiste un pensiero femminile sulla scienza? Abbiamo un linguaggio capace di dare parola alle tante giovani che fanno un lavoro scientifico con libero senso di sé?
Volevo raccontare un episodio. Io sono ricercatrice in campo oncologico, epidemiologa biostatistica. Quindi ho una formazione un po’ particolare: provengo dalla statistica però mi occupo di medicina. Lavoro in un ospedale oncologico e collaboro con un istituto internazionale che si occupa di epidemiologia. Poco tempo fa è uscito, su una rivista scientifica, un mio articolo in cui mostro sostanzialmente che la vitamina D può ridurre la mortalità. L’ho pubblicato in una rivista scientifica internazionale letta da medici, biologi ecc. E’ scritto con un linguaggio scientifico in inglese, difficile per i non addetti ai lavori, molto tecnico ma tra colleghi ci si intende.
La questione è che questa notizia è stata ripresa dai media, ha avuto un interesse enorme perché c’erano degli interessi economici molto chiari, quindi dietro c’erano le aziende alimentari, farmaceutiche, il mercato delle medicine alternative, che spingono per l’integrazione della vitamina D.
Ci sono diverse problematiche legate a questa faccenda: da una parte nonostante sia una vitamina, contrariamente a quello che si pensa rispetto alle vitamine, a dosaggi eccessivi puo’ avere tutta una serie di effetti collaterali non piacevoli. Comunque la filosofia che sta alla base dell’adozione di integratori vari spinge per medicalizzare dalla nascita alla morte per cui noi dovremmo prendere vitamina D dal momento in cui nasciamo al momento in cui moriamo. Le madri anche in Italia sono terrorizzate dai medici se non danno vitamine varie ai loro figli dal momento in cui nascono. Negli Stati Uniti ogni alimento viene integrato con le piu’ svariate vitamine. Nonostante io abbia scritto questo articolo basandomi sui risultati trovati con una ricerca rigorosa questa faccenda del medicalizzare la vita mi trova perplessa. Ma il problema maggiore sta nel come le notizie venivano date dai giornalisti. Infatti la vitamina D è sintetizzata naturalmente dal corpo umano, basta che ci esponiamo al sole e non abbiamo bisogno di nessun tipo di pillola. Il problema è che se da una parte noi possiamo esporci al sole e sintetizzare naturalmente la vitamina D, dall’altra il sole è anche un fattore di rischio notevole, provoca tumori, i melanomi alla pelle, se ci espone in modo eccessivo, quindi il sole è sia un fattore di rischio che una fonte di salute. La complessità di questa cosa era da tenere assieme, non era facile da affrontare, bisognava tenere conto che a diverse latitudini, il sole agisce in modo diverso, che per uomini e donne è diverso, a seconda dell’età abbiamo esigenze diverse rispetto alla vitamina D. Tener conto di tutte queste variabili non era semplice. La questione proviene da lontano: i nostri antenati andavano in giro nudi, poi con la modernità sono arrivate le case, sono arrivati i vestiti e quindi la gente ha cominciato a coprirsi e non prende più il sole come una volta. In più la modernità ha portato la moda della pelle scura, dell’abbronzarsi con ogni modo, ci sono i lettini solari, la gente si espone al sole solo due settimane in estate, alla ricerca dell’abbronzatura, esponendosi al rischio di scottature, soprattutto se ha la pelle chiara e quindi piu’ a rischio. Da una parte in realtà non siamo esposti come una volta, dall’altra ora ci esponiamo in modo irregolare ed eccessivo. Il sole da un lato diventa un fattore di rischio per i tumori, dall’altra abbiamo carenza di vitamina D. La sfida per me era tenere insieme tutte queste cose, la complessità di queste analisi che porto avanti e chiarire che lo stile di vita consapevole è fondamentale per la nostra salute. Quindi non c’è bisogno di alcun tipo di integratori, che fanno solo gli interessi economici delle varie industrie, alimentari, farmaceutiche ma anche quelli delle cosiddette medicine alternative. Ma non è semplice dare un messaggio chiaro, non strumentabile, e tener conto della variabilità del fenomeno in cui mi muovo, esprimere tutti questi aspetti contradditori. Il tutto viene complicato dal fatto che bisogna anche passare il messaggio che la probabilità su cui si basano queste analisi non danno certezze, ma solo tendenze, probabilità. E questo fa problema perchè in realtà la gente cerca soprattutto le certezze, di potersi affidare senza avere dubbi, per quello che riguarda la malattia. Non è semplice riuscire a dare un messaggio chiaro che non si perda nella complessità di un linguaggio scientifico e nello stesso tempo rendere la complessità di questi fenomeni, sopratto in ambiti come la medicina.
Dopo l’uscita del mio articolo dai media di tutto il mondo usciva una notizia del tipo “Gandini e il suo co-autore hanno scoperto la pillola della vita”. Io ero molto spaventata perché io non dicevo questo nel mio articolo. Tutto ciò ha scatenato diatribe nella comunità scientifica, discussioni di questi scienziati, prevalentemente uomini, che si davano battaglia, e non si capiva quale fosse il loro interesse: chiarezza scientifica o diventare leader dell’argomento? Una ricerca di verità o interessi economici? Io mi sono sottratta. L’unico evento per me interessante è accaduto con una giornalista americana di Women Health che mi ha contattato per scrivere un articolo. Questa giornalista per esemplificare mi ha fatto cinque domande in cui avrei dovuto riassumere in breve le complessità relative al mio articolo. Io ho risposto con quattro pagine di dati. Ma lei non si è arresa ed è iniziato uno scambio in cui era evidente che lei era interessata non solo a dare la notizia ma a capire cosa stessi dicendo e in questo scambio stretto io ho dovuto tenere conto delle sue esigenze, di fare chiarezza, e lei delle mie di tenere insieme la complessità. Questa cosa ha funzionato perché è successa all’interno di una relazione in cui la c’era la curiosità di entrambe di comprendere l’altra, con le sue esigenze, oltre a riuscire a dare un messaggio agli altri comprensibile. Ciò mi ha permesso in qualche modo di rendere comprensibile, fruibile in una lingua corrente, la complessità dei fenomeni di cui mi occupo.

 

INTERVENTO DEI PARTECIPANTI

 

Io sono laureata in chimica – interviene una partecipante – non ho capito, in questi discorsi, cosa centra la femminilità o l’opposto. La scienza ha un unico linguaggio indipendentemente che sia un uomo o una donna a farla. Quello che tu (Sara Gandini, ndr) hai detto in particolare, il problema era che la giornalista fosse una donna? Se era un uomo non ci sarebbe stato questo rapporto? Dipende dalla curiosità o dalla profondità del giornalista, non se è un uomo o una donna, non trovo che fosse particolarmente significativo questo.

 

Sono molto interessata – dice un’altra partecipante -. Io sono una poetessa che per accidente si è laureata in medicina e devo dire che hai detto due cose che io trovo femminili: una è il sottrarsi all’esibizione. Secondo me gli uomini sono molto più esibizionisti a meno che non si consideri l’esibizione solo sessuale allora la donne esistono solo in questo modo. L’altra cosa molto importante che hai detto è che la medicina non deve strafare cioè che la vitamina D non deve essere data senza dei motivi molto precisi, perché io ho imparato da due grandi gerontologi che la maggior causa di morte oltre i settant’anni è l’abuso di farmaci.

 

Sono di Palermo – interviene un’altra partecipante di nome Lia – lavoro al Cnr come tecnica, ho lavorato anche alla sezione sperimentale combustibili qui a Milano. Una delle cose che volevo dire è che si mettesse in chiaro in questa epoca storica che cosa rappresenta la scienza. Io mi trovo come tecnica vicina a ricercatori e ricercatrici e vedo come opera la scienza, cioè è subordinata alle esigenze del mercato e, nell’ambito di questo, mi chiedo come può essere il contributo, l’apporto della riflessione di ricercatrici scientifiche che amano la scienza. Anch’io ho fatto un po’ di letture di storia della scienza, ho fatto un corso di laurea in chimica che non ho finito perché ho trovato un lavoro. Ho scelto di occuparmi di politica e della società e il senso per cui avevo studiato era quello di capire cos’era la vita, il mondo, l’universo, di capire com’eravamo fatti, quindi qualcosa di più etico, mentre nell’ambito della ricerca vedo gente donne, uomini con una visione dell’universo limitata che non hanno idea di qual è la vita nella società che non si pongono altri problemi se non di andare a trovare come funziona la molecola e basta.
Quindi prima bisogna definire che cos’è la scienza, quale ruolo deve avere, se deve essere alla mercè del mercato e quale è il contributo della donna nel pensiero scientifico. Comunque la scienza è parziale, ci ho messo un po’ a capirlo, ho avuto delle resistenze. Poi ho letto Vandana Shiva in cui nel libro Sopravvivere allo sviluppo fa una critica feroce sia al pensiero scientifico occidentale che ha un percorso parziale sia di genere e tutta una serie di diversificazioni. Ci ho messo un po’ perché pensavo al positivismo della scienza, all’obiettività, andando nel merito mi sono accorta sul vivo che aveva ragione e ho modificato l’approccio.

 

Rendere semplice è il problema che hanno tutti gli scienziati quando devono divulgare cioè farsi capire – interviene la prima partecipante -. C’è stata una divisione tra cultura umanistica e quella scientifica perché la questione è estremamente complessa, uno difficilmente riesce a unificare ad approfondire ugualmente il campo umanistico e quello scientifico, che poi ci sia un interesse personale, ma questo riguarda sia gli uomini che le donne. Quando parliamo di potere è un altro discorso, ma non la scienza in sé per ricollegarmi a quanto diceva lei (Paola, ndr). Ci sono ingegneri chimiche nella percentuale 50% e 50%, ingegneri elettrici ce n’è una ogni tanto. Dipende dal tipo di scienza che può attrarre o meno ma si guarda alle possibilità di lavoro, le grandi reti elettriche non attirano mentre nell’informatica e nell’architettura ci sono tantissime donne.

 

Vita Cosentino:
Io ho trovato buono lo spunto di Paola quando esibiva i dati e sosteneva che qui c’entra anche la costruzione del pensiero occidentale. Mi è tornato in mente il libro Un mondo senza donne di David F. Noble, studioso statunitense che è un grande ammiratore degli studi femministi americani, che ricostruisce la storia di come le donne sono state fatte fuori perché è stato costruito un mondo che poteva essere solo maschile. Io questo spunto critico non lo lascerei perdere sinceramente e anche quel libro è un ottimo inizio. L’altra questione è che io, da sempre, sono convinta che la questione del linguaggio sia importantissima e non sta nella questione studi umanistici – studi scientifici, sta invece in un rapporto che si può e si deve creare rompendo con questi specialismi che finiscono con l’essere auto referenziali e quindi trovare altre mediazioni e Sara ci ha dato un buon esempio. Pensavo anche ad altri campi come la filosofia. Anche questa è diventata specialistica. Luce Irigaray negli ultimi libri che ha scritto ha trovato delle mediazioni molto buone per cui riesce a non perdere l’esattezza del concetto rendendolo con un linguaggio molto accessibile. Se paragoniamo Speculum agli ultimi suoi testi Oltre i propri confini o In tutto il mondo siamo sempre in due si vede un abisso linguistico che li separa. Questo è anche il tentativo di chi fa scienza, è chi fa scienza che deve inventarsi delle mediazioni. Questa è una cosa che ci serve come il pane altrimenti stiamo sotto l’autoritarismo della scienza, non capiamo niente non è possibile parlare perché tutto chiuso in specialismi incomprensibili.

 

Enrichetta Susi:
Volevo spiegare meglio cosa intendevo quando parlavo di linguaggio capace di rendere l’esperienza. Per la questione della differenza tra uomini e donne, Paola ci ha appena spiegato che la scienza è fatta di relazioni e nelle relazioni uomini e donne sono differenti e si relazionano in modo diverso. Non è la stessa cosa essere in relazione con un uomo o con una donna. Nei pregiudizi che molti di noi si portano dentro, che derivano dalla civiltà occidentale, c’è anche questo: che la scienza sia neutrale ovvero che non dipenda da chi la fa. La scienza dipende da chi la fa, questo non vuol dire che non sia vera, che i risultati non siano accettabili o non siano validi. E’ come tutte la attività umane. Anzi la specificità della scienza sta proprio nel fatto che i risultati vengono esaminati, approvati e respinti da una comunità di pari che è una comunità scientifica. Ora, stare in una comunità scientifica essendo una donna o essendo un uomo non è la stessa cosa, il tipo di autorità che circola è diversa e collocarsi come donna non è la stessa cosa che collocarsi come uomo. Quando parlo di un linguaggio aderente parlo di questo, del fatto che una donna scienziata se vuole esser fedele al suo essere donna, e questo vale in qualunque campo, non lo può fare perché adotta il linguaggio maschile.
Riguardo il passaggio di Luce Irigaray: prima parlava come parlava Lacan adesso parla come parla lei e la capiamo meglio perché è più aderente a se stessa e ha trovato un linguaggio che la esprime interamente. Nella scienza è molto difficile anche adesso che ci sono tante donne, ci sono gruppi formati interamente da donne, dalla dirigente in poi. Nelle facoltà scientifiche italiane la grande maggioranza sono studentesse; tra i laureati ci sono percentuali alte di donne nella ricerca anche questo certamente sta cambiando le comunità scientifiche. La nostra società non conosce luoghi e strumenti di mediazione tra le comunità scientifiche e il sapere sociale collettivo. Guardate le pagine scientifiche dei giornali, fanno pena: si colgono solo certi aspetti o quelli economicamente interessanti o quelli che il giornalista, che in genere ne capisce poco, pensa possono solleticare il pubblico e dell’essenza della scoperta di cui parla non c’è nulla, si perde nel rumore.
La necessità di cui parlavamo nel libro Autorità scientifica autorità femminile è che ci fosse una società femminile capace di fare questa mediazione che nessuno fa al momento. Provate a pensare cosa vuol dire che nelle case ci siano computer che tutti usano, come usano i telefonini e nessuno ha la minima idea di come funzionino, per cui in realtà hanno nella nostra vita hanno lo stesso ruolo che i totem hanno nella vita delle tribù primitive. Non c’è nessuna differenza perché li si adopera senza avere nessuna competenza su di loro. Il rapporto che abbiamo con la medicina oscilla tra l’attesa di una guarigione magica da cui sorgono tutte le ansie e problemi. E questo deriva da una mancanza, è una società che non pensa sulla scienza. La scienza va avanti per conto suo per questo ho parlato di inconscio sociale. E’ come quello che avviene nell’inconscio che cammina e poi ogni tanto si esprime in certe forme.
Volevo fare un esempio che è quello del referendum sulla fecondazione assistita in cui c’è stato un silenzio totale delle donne o un invito a non andare a votare. Io sono contraria allo strumento referendario, penso che tra gli strumenti politici sia uno dei peggiori e poi su un quesito del genere rispondere solo si o no secondo me non andava bene, su un quesito poi su cui una maggioranza non era in grado di esprimersi perché non aveva le competenze necessarie. Poteva essere scelta come un’occasione per parlare della scienza, per parlare tra di noi al di là del fatto di esprimersi per il si o per il no e poteva anche essere un’occasione…da me sono venute dalle donne che avevano fatto questo percorso e si sono sentite sole nella loro esperienza, non si è interessata nessuna, nessuna donna si è interessata della loro esperienza del loro desiderio di parlarne. E’ stato allora che mi sono accorta che non c’è un pensiero femminile sulla scienza.”.

 

Io avevo deciso di non votare al referendum – interviene una partecipante – perché non avevo capito com’era fatto poi ho votato sì perché il papa ha detto di votare no o di non votare.
Volevo dire una cosa. Quando c’è stato Cernobyl nessuno sapeva quello che sarebbe successo perché non c’erano esperienze in proposito, io ho saputo per caso che i giornalisti sono andati a intervistare tantissima gente che non ha saputo o voluto parlare finché sono riusciti a trovare quello che per ambizione si è inventato tutto, questa è una delle cose terribili che succedono con i media.

 

Sara Gandini:
Volevo ringraziarti (Enrichetta, ndr) per aver menzionato la questione della fecondazione assistita. A dire il vero in Libreria ne abbiamo discusso, c’è stato anche un incontro al Circolo e abbiamo messo alcuni articoli sul sito, ci sono state diverse discussioni in vari contesti. Mi ricordo una mail che ci è arrivata, anonima, da una ragazza che parlava di questo desiderio forte di maternità. Il fatto che fosse anonima la dice lunga sulla difficoltà a raccontare, a nominare, anche in un luogo femminista come questo, il desiderio che aveva. C’è stata una discussione anche sul dove pubblicarla, su che rilevo darle, se pubblicarla o meno. Evidentemente questa questione muove tante paure, e ci siamo dette che dovevamo continuare a parlarne anche al di là del referendum.
Io sono d’accordo che l’esser donna non garantisce nulla però, nella mia esperienza, e sono una decina d’anni che lavoro in questo campo, quello che è evidente è che ci sono diverse pratiche, tra uomini e donne: come stanno nelle comunità scientifiche, come si muovono nel lavoro. La necessità di stare in relazione, di lavorare in relazione con altri è più tipicamente femminile, mentre più facilmente si vedono uomini che partono in solitaria, alla ricerca della possibilità di emergere prima di tutto, quindi sia negli articoli che nei lavori, lottano per un protagonismo spesso finalizzato alla ricerca di potere, e comunque la ricerca di un piacere diverso nello stare al lavoro. Le donne in genere lottano per tenere assieme sia il lavoro che la propria vita, passioni, affetti. Io ho visto ad esempio in questa vicenda della vitamina D, quando hanno intervistato il mio collega subito si è lanciato a dare numeri, mentre io ero molto più cauta. C’è stata una evidente differenza su come ci siamo mossi rispetto ai media e al nostro lavoro, io avevo molto più presente la necessità di tenere assieme tutte le perplessità che avevo in mente piuttosto che cavalcare l’onda del successo.

 

Laura Minguzzi:
Vorrei tornare un attimo sul discorso della lingua, sugli specialismi. Noi come comunità di storia abbiamo lavorato moltissimo su questa questione e c’è stato un incontro in ottobre con Milagros Rivera Garretas sul femminismo e la storia. Quello che avevamo sempre riscontrato come insegnanti a tutti i livelli della scuola e come donne, uomini che non amano la storia, è che non si ama la storia perché quello che si trova scritto sui libri è neutro. Questo linguaggio stereotipato, noioso, piatto da cosa proviene? Da una mancanza del parlare, del partire da sé. Abbiamo fatto una ricerca e siamo partite da noi: cosa mi piace cosa mi interessa, cosa cerco nel passato a partire dal presente, perché devo amare il passato, cosa mi dice oggi. Nel momento in cui abbiamo fatto questo abbiamo trovato la chiave politica della motivazione, del desiderio del partire ognuna dalla propria storia, siamo riuscite a raccontare. Anche Milagros racconta di storia in un modo che interessa, questa è la chiave che ha fatto uscire il racconto della storia, il parlare di storia, dalla noiosità, dalla piattezza, dal disinteresse totale in cui versano questi programmi di storia.
Questo fa fatica a partire perché è faticoso partire da sé. Trovare un aggancio tra presente, passato e futuro.
Volevo porre una domanda a Sara. Non ho capito la tua motivazione. Perché ti sei interessata alla vitamina D.?

 

Sara Gandini: Sono arrivata a questo argomento tramite alcune relazioni: alcuni anni fa sono stata coinvolta da una ricercatrice che mi piaceva molto; lei ha espresso il desidero di fare una ricerca sul melanoma, capire tutti i fattori di rischio del melanoma. Io ho delle competenze più metodologiche su come fare questo tipo di analisi e abbiamo messo insieme le nostre competenze: lei si occupava del melanoma dal punto di vista medico, io dal più punto di vista dell’analisi dei dati. Quindi abbiamo portato avanti questa ricerca, su cui si è basato il mio dottorato. Il melanoma è legato al sole. Seguendo la letteratura ho visto che alcuni mostravano che il sole poteva migliorare la sopravivenza dei malati di melanoma, e quindi ho voluto cercare di comprendere questa contraddizione per capire come il sole potesse agire sul corpo umano, prima come fattore di rischio e poi migliorando la sopravvivenza. E quindi sono arrivata alla vitamina D e all’effetto protettivo che ha.

 

Silvia Baratella
Sulla questione di come influisce il sesso di chi fa scienza. In realtà noi abbiamo l’abitudine di considerare la scienza come il massimo dell’oggettività disincarnata ma, per l’appunto, l’ultimo intervento dimostra che si cerca quello che interessa quindi non è che la mela di Newton se sotto ci fosse stata una donna cadeva verso l’alto, però una serie di cose noi le osserviamo, le cerchiamo perché ci interessano. I colori che descriviamo come qualcosa di oggettivo è qualcosa che percepisce il nostro occhio e se avessimo gli occhi diversi dovremmo farci entrare gli infrarossi e gli ultravioletti che non vediamo, per esempio. Noi conosciamo una scienza che si è sviluppata in un mondo in cui è stata ufficializzata e fatta, magari anche da donne, ma di solito ufficializzata e fatta da uomini, rappresentata come univoca, universale. Io mi sono sempre chiesta quante linee di indagine e ricerca scientifica sono rimaste tagliate fuori nell’antichità e anche adesso che ci sono più donne nella comunità scientifica, vengono abbandonate dopo esser state proposte perché non di interesse maschile. Mi chiedo quali cose potrebbero aprirsi. L’altra questione che mi incuriosiva era questo dato sulla divisione tra scientifico e umanistico nella cultura occidentale e in quella musulmana a cui facevi riferimento. Io penso che una delle caratteristiche tipiche delle donne è di tenere insieme le cose relazionalmente tra loro e che quindi di fronte a uno sviluppo sempre più specialistico delle discipline scientifiche, sempre più parcellizzato, molto spesso si annoino e si rivolgano per quello altrove, quindi non per poco interesse alla scienza ma perché annoiate dalla superspecializzazione e superparcelizzazione si rivolgono alla cultura umanistica e questo credo che sia proprio il metodo occidentale di affrontare il sapere tutto, anche la filosofia è incomprensibile assolutamente se non si è superspecializzati. Le discipline umanistiche sono più correlate tra loro e forse per questo più interessanti per le donne. Un’altra cosa che penso è che nei paesi a prevalenza musulmana ci siano grandi esigenze materiali di acquisire competenze e specialità per mandare avanti le cose. Quindi penso che le donne che accedono agli studi in quei paesi, che sono spesso molto di più di quante immaginiamo, magari con diritti agli studi maggiori di quanto ci immaginiamo, siano più spinte a vedere come costruire una casa o metter su un ospedale e farlo funzionare che magari qui in occidente dove comunque case ce n’è fin troppe con speculazione edilizia, gli ospedali ci sono già e magari una pensa di dedicarsi ad altro. Penso che questo abbia un’influenza perché sono paesi con un’economia detta emergente, economie che hanno bisogno e penso comunque che ci sia un approccio diverso al sapere che può creare meno barriere che qui. Rispetto invece alla diversa disinvoltura nell’esibire le proprie conoscenze, i propri risultati, come l’esempio di quello che è capitato a Sara con la vitamina D, non credo che riguardi solo la scienza ma tutti i campi della vita pubblica e della sfera pubblica in cui le donne sono molto più abituate a stare fuori da un gioco dove gli uomini in pratica fin da piccoli sono avezzi che dovranno andare in società ed lì cercare il successo. Gli argomenti e i contenuti finiscono con il passare in secondo piano. Le donne che arrivano ad accedere alla sfera pubblica ci arrivano senza avere interiorizzato altrettanto queste regole del gioco, poi ci posso essere le donne super arriviste super esibizioniste, però per molte io l’ho verificato nel campo della politica, prima di prender in mano un microfono e intervenire le donne fanno auto interrogazioni per vedere se il proprio intervento porta a qualcosa di diverso o fa perder tempo. Gli uomini invece intervengono facendo tutti lo stesso intervento perché ciascuno deve timbrare il proprio cartellino, marcare il proprio territorio senza farsi grossi problemi. Quindi che la responsabilità di quello che si dice, di come fluisce, sia una potenzialità che le donne possano portare per andare in società per cambiare e trasformare la società.”

 

Paola Bertucci
Ho portato il dato sulle donne nei paesi musulmani come dato forte, veramente diverso. Muovendomi in contesti internazionali esco da una discussione di qualche anno fa piuttosto forte nella mia comunità. Il rettore di Harvard, commentando un dato sulla minore frequenza delle donne negli studi scientifici, ha dichiarato che le donne sono meno portate degli uomini per gli studi scientifici, riprendendo una discussione settecentesca quando si discuteva sulla differenza sessuale, sul perché i sessi sono diversi dal punto di vista scientifico in cui si ribadiva l’inferiorità intellettuale femminile radicata nella natura. Questo è un dato culturale. Quella musulmana noi la percepiamo come cultura differente dalla nostra e lo è. Li c’è un dato relativamente al rapporto tra donne e scienza molto diverso dal nostro come cultura occidentale.
Dove volevo arrivare mettendo in evidenza questo dato. Volevo arrivare al fatto che la scienza è un prodotto culturale o almeno la percezione comune non tanto tra chi pratica scienza ma soprattutto chi subisce o usufruisce o beneficia della scienza. Forse questo dato sfugge e quindi questa percezione che collettivamente si ha della scienza spesso è neutra oggettiva sempre uguale a se stessa. C’è sempre stata la scienza, c’erano i greci che avevano la loro scienza, poi c’è stata la rivoluzione scientifica per cui la scienza è cambiata, in qualche modo è migliorata. C’è oggi questa concezione di un sapere oggettivo che sempre progredisce e si avvicina alla verità. Se questo si mettesse in discussione in modo radicale, credo che molte donne, e mi riferisco soprattutto alle donne non scienziate, si sentirebbero più autorizzate a parlare di scienza. Io registro muovendomi, pur avendo una formazione scientifica, in dipartimenti umanistici e di filosofia che si ha paura della scienza. Se si propone un corso di storia della scienza con un titolo molto tecnico non viene quasi nessuno e soprattutto non si vede una donna, pur trovandoci in un dipartimento in cui ci sono molte donne.
Questo è il dato che mi interessava sottolineare proprio per mettere in evidenza la mancanza di mediazione tra chi pratica scienza e chi ci si muove intorno perché comunque viviamo in un mondo in cui non si può fare a meno della scienza. C’è una mancanza di alfabetizzazione scientifica che priva di autorevolezza le persone che non praticano scienza e penso che questo sia dannoso. Ci si avvicina alla scienza soltanto se si parla di etica e anche questo lo vedo dannoso. Se si propone in dipartimento di filosofia un corso di etica della scienza allora c’è molta affluenza, in quel contesto le persone si sentono autorizzate in quanto cittadini ad esprimersi sulla scienza se però c’è un discorso sul contenuto c’è questa inibizione che io trovo politicamente e socialmente molto pericolosa e penso che la mancanza di mediazione e di linguaggio sia un elemento molto importante in questo. Per me è stata la storia della scienza che ha messo insieme le due culture e che mi ha autorizzata, a parte che io ho anche un curriculum scientifico, ma mi sento autorizzata a parlare di scienza così come i miei colleghi.

 

Elisabetta Marano:
Volevo riportare l’attenzione su una cosa che diceva Sara quando raccontava della sua esperienza di lavoro: parlava di tenere insieme la complessità di quello che stava accadendo che per me è un dato molto importante perché è una fatica che io faccio quotidianamente nel mio lavoro che è molto diverso dal suo. Io lavoro con quei giornalisti che poi vanno a diffondere le notizie come lei hai raccontato quindi divulgano le notizie con un sacco di imprecisione, tanti errori, cercando un taglio di notizia sensazionale. Quindi devo tenere insieme la complessità, sento di entrare in contraddizione, contraddizione forte perché da un lato voglio preservare un’informazione corretta, dall’altro mi rendo conto della necessità di dire una cosa anche nell’importanza di poterla dire non solo per quello che succede in quel momento ma anche per la prospettiva che può scaturire, per l’occasione che si propone e che se non cavalca forse si può perdere qualcosa. Quindi oscillo sempre tra un senso, questo al di là del caso specifico è un mio approccio rispetto alla difficoltà che trovo nel mondo del lavoro e non solo, di dover da un lato preservare me stessa, dall’altro non perdere delle occasioni perché forse quelle occasioni possono far accadere qualcosa di interessante. Mi trovo in questa difficoltà e in questo gioco che è molto delicato, va al di là di tenere insieme la complessità, è un punto molto importante dove è vero che c’è un problema di linguaggio ma non solo un problema prettamente di comunicazione ma di mediazioni cioè di strumenti interiori ed esteriori, di pratiche che ci mettono nella condizione di stare in certi contesti e non solo tra me e me in un contesto di un comunicato stampa o dal te e te della tua ricerca. Per me questo è un grosso interrogativo da un punto di vista politico e la tua storia è un po’ esemplificativa di questo, esemplare di questo mio punto di domanda.

 

Laura Colombo:
Mi ha colpito una cosa che diceva Silvia. Ipotizzava il fatto che le donne non si avvicinino alla scienza perché c’è una specializzazione, una parcellizzazione. Credo che forse anche questo è un pregiudizio perché qui è stato ricordato anche più volte che la stessa filosofia è diventata molto specialistica, che chi si occupa di filosofia del linguaggio si occupa di una cosa molto particolare, direi che è un po’ un mito dire che la cultura umanistica tiene insieme molti aspetti per cui starei attenta.
Vorrei poi riportare l’attenzione su quello uscito anche da altri interventi: la capacità di lavorare insieme, mettere in relazione le scoperte, mettersi in relazione per fare ricerca. Un’altra questione: sulla non autorizzazione che si ha a parlare di scienza da parte di chi scienziata non è per un analfabetismo di base e qui credo ci sia anche una certa spocchia anche da parte di chi propone, per esempio, l’utilizzo del computer senza sapere cosa è, e dall’altra parte un vanto di non sapere niente di matematica, niente di scienza cioè con una contraddizione di fondo per cui la stessa cosa che si denigra poi è quella che fa anche paura e si ha bisogno di denigrare per cui diventa feticcio.
E’ la cosa di cui si ha paura come la questione della procreazione assistita, non si conosce e si vuole tener fuori.
Io parlo di più dei computer perché il mio ambito tecnologico è proprio quello. Tra l’altro io ho una storia mista: appassionata di filosofia, laureata in filosofia, ho lavorato per anni in IBM con un lavoro di analista di sistemi per cui ho collaborato anche con laboratori americani, alcuni pezzi di cose che ho fatto sono finiti in sistemi operativi di macchine complesse, mi ritrovo a cavallo tra due cose.
Riguardo questa paura dei computer che si sente cioè tutti lo usano ma c’è questo timore: è ridicola”.

 

Sara Sesti:
Insegno matematica e ho insegnato anche i corsi dell’Università delle donne, alle corsiste casalinghe, studentesse, insegnanti a utilizzare il computer facendole confrontare con un linguaggio rigido, difficile, duro. Ho insegnato in maniera consapevole e in maniera differente sicuramente da come l’ ho insegnato in altri corsi. Sono molto contenta di essere venuta questa sera perché al tavolo ho sentito una donna che ama la scienza come Sara, che riesce a comunicare di amarla e che riesce anche a comunicarla con un linguaggio diverso. Ho conosciuto Enrichetta con cui condivido assolutamente il fatto che non esista ancora un pensiero femminile sulla scienza anche se io sono un po’ più ottimista, forse perchè ho seguito con grande interesse il dibattito sulle nuove tecnologie che veniva portato avanti dal sito dell’Università delle donne e dal sito della Libreria. A me ha colpito molto un libro che si chiamava Un’appropriazione indebita in cui un gruppo di donne mediche, filosofe, genetiste, bioetiche e religiose hanno ragionato sull’uso del corpo della donna a partire proprio dalla legge 40 sulla procreazione assistita, sviscerando la complessità della questione. A me è sembrato che questo libro riuscisse a porre domande, a guadagnare tempi per la riflessione e per la comunicazione, l’ho trovato davvero importante e mi sembrava che potesse forse, con grande ottimismo, ritornare un momento dove per la prima volta il movimento delle donne non avesse soggezione della scienza, il momento di Cernobyl. Dopo Cernobyl il movimento delle donne ha cominciato a riflettere sulla scienza sono usciti anche in Italia i primi libri straordinari di Elisabetta Donini sulla scienza e le donne hanno dimostrato di poter tenere un occhio critico anche se non erano esperte, di poter riflettere e riflettendo loro far riflettere anche gli altri in un modo diverso su delle tematiche molto complesse. Sono molto contenta di aver conosciuto Paola Bertucci perché questo concetto che ha sottolineato più volte e cioè che è la costruzione culturale sulla scienza, la dicotomia del pensiero occidentale, che rende le donne estranee a questo pensiero. Condivido questo suo pensiero però come Sara vedo che le cose si stanno movendo e che si muovono in maniera positiva. In tante discipline le donne dicono la loro, pensate che il Festival della Scienza di Genova si è aperto con la presenza dei Jane Goodall, la biologa che, studiando le scimmie, ha dato una svolta ai paradigmi della primatologia definitiva. Quindi non usciamo con un’immagine tutta di scuro sul rapporto donne e scienza perché qualcosa sta andando avanti anche se la fatica di Sara è la testimonianza di quanta difficoltà le donne incontrino.

 

Sara Gandini: Volevo dire un paio di cose in più sulle domande che mi sono state fatte. In realtà io credo di esserci di più, di essere me stessa nella scelta di occuparmi di epidemiologia, che sulla questione specifica della vitamina D. Io parto da una formazione molto tecnica che è la scienza statistica, che tra l’altro può essere applicata ovunque. Sono laureata in statistica economica quindi potevo andare a lavorare nelle industrie, nelle aziende farmaceutiche… Una parte del mio lavoro consiste nel fare da consulente statistica per i medici, analizzando i dati, e fornendo un servizio all’ospedale come consulente per gli studi clinici. Ma ora negli ospedali i pazienti sono visti come clienti, l’ospedale funziona come un’azienda e c’è quindi tutto l’aspetto economico di questa questione che complica la ricerca scientifica, il dover fare consulenza per studi che vengono finanziati anche da aziende farmaceutiche… Appena posso invece indirizzo la mia passione e le mie energie all’epidemiologia e quindi all’idea che lo stile di vita e fattori come il fumare, la dieta, lo stile di vita influiscono sul nostro stato di salute. Questa cosa non porta immediatamente soldi all’ospedale, perché è quasi come se sottraessi clienti, e pagarmi per questo tipo di lavoro all’ospedale non interessa, non da entrate. Ma all’ospedale interessa quando pubblico articoli perché in quel momento il nome dell’ospedale circola, e quindi mi “tollerano”. Per me la cosa interessante dell’epidemiologia è che io mi autorizzo a parlare, anche se parto da una formazione tecnica come la statistica, e mi occupo di salute e di malattia sottraendomi alla forza degli interessi vari, affermando che in realtà siamo noi in prima persona che costruiamo la nostra vita e che è importante essere consapevoli su cosa influenza la nostra salute come il cibo, il sole, il fumo, le allergie… senza doversi affidare necessariamente a specialisti.

 

“I miei sono due incisi veloci – interviene Lia -. Intanto sul fatto della scienza com’è oggi maschile, bisogna pensare che 5 milioni di donne sono state bruciate come streghe e poi un’altra cosa: il fatto che magari nei paesi arabi ci sia questa forte presenza femminile che investe nella scienza è perché c’è minore libertà di espressione, ovvero studiando scienza rischiano di mettere meno a repentaglio la propria opinione, mettere in discussione valori ecc, è più neutra, io la butto lì”.

 

“Uno dei motivi per cui mi trovo qui è un interesse professionale nei confronti della storia della scienza del Settecento come Paola Bertucci – interviene un partecipante -. Come lei non ho potuto fare a meno di vedere le figure che sono proposte nella scienza del Settecento e non solamente quelle che, per motivi che Paola ci ha spiegato, hanno assunto una grande visibilità in quanto fenomeni, in quanto curiosità, come Maria Gaetana Agnesi e Laura Bassi in un mondo prevalentemente maschile. Ho constatato, i documenti lo portano all’evidenza, un sottobosco molto numeroso di donne che in realtà hanno lavorato duramente in settori di scienza hard producendo duro lavoro scientifico. Per quello che ho potuto studiare finora nel campo dell’astronomia settecentesca l’assistente dell’astronomo era quasi sempre, considerando la povertà di mezzi anche economici dell’epoca, la moglie, la sorella o le sorelle, la donna che è entrata in casa attraverso il matrimonio di un figlio. Sono spesso adibite ai compiti più faticosi come l’esecuzione dei calcoli o di osservazione astronomiche vere e proprie di cui non esiste quasi mai riconoscimento a livello di pubblicazione o accademici ma di cui gli astronomi parlano tra di loro con tutta naturalezza perché era considerato normale.
Queste donne erano private della loro personalità. Mi viene in mente Caroline Herschell che può imporsi come astronoma solo dopo la morte del fratello del quale era stata per molti anni assistente. Mi piacerebbe scrivere se non avessi difficoltà enorme di documentazione perché quello con cui si ha a che fare sono dei frammenti con cui è difficile, se non con un lavoro immenso, ricomporre in qualche cosa di sensato.
Una delle delle opinioni che mi sono fatto e sono d’accordo con Enrichetta Susi è che non mi è mai capitato di riscontare l’esistenza di un pensiero che si può dire femminile nella scienza. Soltanto che Enrichetta Susi ne ha parlato come un dato di fatto mentre qui ho sentito degli interventi che ne evocavano una necessità e auspicavano l’esistenza di un pensiero femminile che ancora non esiste.Perché dovrebbe esistere un pensiero scientifico femminile e come dovrebbe configuararsi questo pensiero? mi domando.

 

Enrichetta Susi:
Non è che voglia rispondere a questa domanda naif ma giustificata. Quando parlo di pensero femminile sulla scienza non è che sottintenda che c’è un pensiero maschile sulla scienza, secondo me la nostra società manca di pensiero sulla scienza. Per pensiero sulla scienza intendo una mediazione che si occupi di quello che succede, che c’è stata per un certo periodo: penso al dibattito sulla meccanica quantistica agli inizi del secolo scorso. Negli anni 30 ci fu, in ambito politico- filosofico, un dibattito molto intenso sulla meccanica quantistica, su quello che voleva dire nella descrizione del mondo fisico ma anche su quello che voleva dire sul pensiero, su di noi come esseri umani, perché la meccanica quantistica cambiava il modo di vedere le possibilità di conoscenza. Questo dibattito attualmente non c’è da nessuna parte e secondo me è un’esigenza vitale per la società perché ora la ricerca scientifica non si prefigge più di costruire una visione del mondo ma, come è stato detto, è frantumata in specialismi sempre più ristretti e ha come guida e come indirizzo semplicemente interessi economici. Adesso è così: l’indirizzo della ricerca è definito da chi la finanzia e non è sempre stato così, ci sono stati dei periodi nel Settecento in cui era diverso, tutto il dibattito sull’elettricità non era un dibattito limitato a chi finanziava la ricerca. Adesso non c’è nessun tipo di discussione da nessuna parte, non nella politica, non nei governi, gli uomini politici non capiscono niente di scienza e non se ne interessano. Io non ho mai visto un dibattito in un governo, in parlamento su dei giornali sugli indirizzi della ricerca. L’unica autorità che rimane in questo campo è la Chiesa. Questa interviene sulle questioni che lei considera etica. Se ne occupa la Chiesa cattolica ma non solo, anche altre Chiese come l’Islam. Questa se ne interessa sempre per quanto riguarda temi cosiddetti etici della sessualità, il ruolo della donna…però altri luoghi generali di dibattito e di mediazione politica non ce n’è. Io che sono una donna ho fatto la scienziata fino a poco tempo fa sento la necessità di una mediazione femminile perché sono una donna, è necessaria una mediazione femminile. E quello che si è visto qui stasera e la cosa che mi fa più piacere è che qui ci sono molte giovani donne che lavorano nella scienza e si interessano della scienza. Non era così quando io ero giovane. Nel mio istituto c’erano cinquanta uomini e due donne. Trovare una mediazione femminile era difficile.
Perché mi occorre una mediazione femminile non starò a spiegarlo perché ne abbiamo parlato tanto. Lo dirò con un aneddoto: quando hanno cominciato ad arrivare giovani donne nel nostro Istituto un mio collega ed amico mi ha detto: “hai visto quante donne? Sono un po’ preoccupato perché ho paura che il livello dell’Istituto si abbassi.” Allora io ho risposto “anch’io ho abbassato il livello” – “ma no – mi ha detto lui – tu sei un’altra cosa” intendendo che ero stata riconosciuta dalla comunità scientifica, quindi non ero una donna, e come tale non abbassavo il livello scientifico.
Tante donne tutte insieme gli ha fatto rendere conto che erano donne mentre con me che ero sola era diverso perchè costretta ad adattarmi a loro, erano loro che giudicavano se accettarmi o no, non ero un pericolo. Sono contenta che ci siano tante giovani donne e mi aspetto da loro questo pensiero femminile che noi non siamo state capaci di costruire e penso e sento già che anche questo libro è un esempio di pensiero femminile sulla scienza.

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