14 Giugno 2019

La scommessa del care: lavoro, cura, lavoro di cura

di Giordana Masotto


Introduzione all’incontro in Libreria delle donne, sabato 8 giugno 2019: La scommessa del care: lavoro, cura, lavoro di cura. Si può ripensare il lavoro e i nessi tra le varie componenti di “tutto il lavoro necessario per vivere” a partire da quel lavoro raffinato e insieme banale, antico e sempre più attuale che tiene in piedi una casa di riposo per anziani? Pascale Molinier, nota e autorevole studiosa francese di psicodinamica del lavoro, l’ha fatto, mettendo insieme ricerca e relazioni sul campo con l’elaborazione teorica. Ne è uscito un volume, oggi tradotto in italiano:Care: prendersi cura. Un lavoro inestimabile (Moretti&Vitali 2019). Scommessa interessante, perché ribalta canoni correnti, cercando autorità femminile in un lavoro svalorizzato. Introducono la discussione Annarosa Buttarelli, direttrice della collana, e Giordana Masotto.


Il discorso che facciamo qui oggi (in occasione della presentazione del libro di Pascale Molinier, “Care: prendersi cura”, Moretti&Vitali 2019) si inserisce a pieno titolo nella prospettiva che ci siamo date: cambio di civiltà. Lo voglio affermare perché sono convinta che il “lavoro del prendersi cura” sia uno snodo importante in sé e illuminante sul presente e sul futuro del lavoro e della convivenza. Sono quindi d’accordo con la scelta politica fatta da Pascale Molinier: «obiettivo di questo libro è affermare la potenza teorica e la dimensione di utopia politica racchiuse nella prospettiva del care». Con un paio di critiche che preciso più avanti.

Tutto il lavoro è al centro del cambio di civiltà. Con PM sono d’accordo che la strada da fare è lunga: «l’incapacità di pensare contemporaneamente e in ogni circostanza, per uomini e donne, la sfera produttiva e quella riproduttiva è una delle caratteristiche principali della nostra civiltà del lavoro». Quindi: «pensare il lavoro delle donne implica che si continui a decostruire l’episteme viril-capitalista del lavoro. Non abbiamo ancora portato a termine il programma femminista di “implosione” e riconcettualizzazione del lavoro».

In questa prospettiva, ci sono almeno tre buoni motivi per dire che questo specifico lavoro del prendersi cura è oggi uno snodo fondamentale.
Il primo è cheriguarda tante donne. È un settore di occupazione femminile per eccellenza, in cui quindi possiamo e dobbiamo affrontare i rapporti sociali tra donne che qui stanno sia in cima alla scala gerarchica sia alla base, dalle laureate alle immigrate. Dunque rapporti tra donne, incarnati, situati nel lavoro. Osserva PM: «Al giorno d’oggi, le donne istruite che lavorano nell’ambito del care devono parlare dell’esperienza del care nella lingua della specializzazione e della competenza nel momento stesso in cui è stato insegnato loro a respingere la cultura popolare del care, quella dell’amore o dell’attaccamento, quella del cuore, che parlano le loro subalterne». Il luogo è dunque paradigmatico per cercare risposte alla domanda: dove si colloca in un contesto così l’autorità femminile? Come la si costruisce? Come si supera la difficoltà che abbiamo così spesso di confliggere tra donne, di mettersi in gioco da posizioni diverse e reggere le differenze?

Il secondo motivo di interesse è la scelta della geriatria (l’indagine sul campo è stata fatta in una casa di riposo assistita). Sappiamo bene che la diversa posizione che le donne hanno preso nello schema produzione/riproduzione fa sì che il lavoro di manutenzione delle esistenze sia in parte scomparso in parte monetizzato. Ma attenzione: anche l’aumento di cibi pronti preconfezionati è aumentato perché le donne stanno più fuori casa, eppure non ci mettiamo ad analizzare come questo influenzi il modo di mangiare, anche se sarebbe certamente interessante. Oppure non analizziamo l’aumento dei laboratori di cinesi e sudamericane che ti cambiano le zip o rifanno l’orlo dei pantaloni. Eppure anche tutto questo è frutto del fatto che le donne non lo fanno più ognuna a casa sua.
Il lavoro analizzato in questo libro riguarda la relazione con persone vulnerabili perché anziane e spesso malate. La relazione di dipendenza ci riguarda tutte e tutti, come ci ha ben spiegato Ina Praetorius ma, specialmente quando si invecchia (o si è molto piccoli o si hanno certe disabilità) questo lavoro-in-relazione aumenta in maniera esponenziale, radicale, tanto da modificare la natura della relazione stessa.
Dice PM che sceglie geriatria perché «la geriatria fa parte delle pratiche sociali che non si sono deteriorate, al contrario». Qui dunque viene particolarmente alla luce il paradosso: i mestieri di cura si sono femminilizzati perché le donne sarebbero devote e buone per natura ma, per dargli qualità, meglio prendere le distanze, controllare e diffidare, specie del personale di base, perlopiù immigrato: «sembra ovvio che il sapere, in particolare il sapere etico, debba essere impiantato dall’alto e dall’esterno a colpi di formazioni onerose e di controlli gerarchici». La scommessa che sta sotto è pensare il valore di una attività che non ha nulla di eccezionale.

Il terzo fondamentale motivo per occuparci di questo lavoro di cura – PM lo accenna ma va ben ribadito – è che questo è un lavoro del futuro perché la popolazione invecchia. Aggiungo che non può essere coperto da automazione e robotica, quindi prenderà sempre più spazio nel lavoro del futuro. Nel settore dei servizi che non possono essere svolti da un robot rientrano: educatori, assistenti di persone anziane, baby sitter. Perché? Perché in questi lavori la produttività non può essere ottenuta con l’automazione ma si raggiunge solo con la collaborazione.

Noto che ci sono molti dibattiti sugli algoritmi e la robotica e la necessità di ribadire il controllo umano sulle decisioni etc. ma c’è poca attenzione al fatto che il lavoro relazionale di cura resterà fuori e sarà sempre di più il vero lavoro umano!

Se il secolo scorso è stato il secolo della fabbrica, questo sarà il secolo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale da una parte e della manutenzione delle vite umane dall’altra. Vite che si prolungano, sempre più esposte nello spazio sociale. Non accadrà oggi o domani, ma le trasformazioni sono profonde e, come con il metoo, non sappiamo quando e come quel fiume carsico potrà emergere e cambiare il paesaggio. Adesso non si vede ancora una esplicita autorità delle donne che metta al centro in modo inedito i modi, la qualità e il valore di quei lavori, ma è la direzione in cui dobbiamo andare e PM fa un passo avanti.

Per tutti questi motivi io chiamo questo lavoro “tutto il lavoro necessario per morire” dove naturalmente considero il morire parte integrante del vivere. La morte è un punto di vista sul vivere, una luce che lo illumina. Un lavoro di accompagnamento verso…, speculare a quello di accompagnare le creature piccole a stare pienamente nella vita. Ma bisogna focalizzarlo specificamente perché rimane quello più nascosto e negato. Svalorizzato. Se parliamo di attenzione alle creature piccole, o di diversamente abili ma nel fiore degli anni, vediamo bene che lo spazio si sta creando o si è già creato. Ma la vecchiaia disabile… nessuno la vuole vedere.

Va invece illuminata sia perché ci riguarda tutte e tutti sia perché è radicale. Spingendoci oltre, possiamo dire che il prolungamento della vita fa più spazio alla dimensione della imperfezione che, come ci spiegano i filosofi della scienza e gli studiosi dell’evoluzione, è la chiave della umana grandezza rispetto ad altre forme di vita, perché caratteristica dell’umano è far tesoro, valorizzare quel che c’è. Non le cose migliori, la perfezione è immobile. Dunque possiamo affidarci alle macchine e all’intelligenza artificiale quando ci sono da realizzare compiti che richiedono potenza di calcolo, memoria, precisione, ripetitività e velocità. E darci più tempo per stare nelle nostre imperfezioni.

Tornando al lavoro di PM, ricco sia di pensiero che di radicamento nell’esperienza, ci sono alcune conclusioni interessanti. La prima è la critica al dogma della specializzazione e la presa di distanza rispetto al concetto di competenza, alla leggerezza con cui a volte lo si usa. Questo spesso è un lavoro che non ha nulla di eccezionale: come facciamo a dargli valore attraverso la competenza? Per risolvere questo dilemma, lei dice, dobbiamo passare, nelle relazioni di lavoro, dal riconoscimento alla fiducia. Senza faciloneria, ben consapevole che «nel lavoro geriatrico … il rischio di barbarie è sempre presente», PM arriva alla conclusione che non dobbiamo puntare al diploma in corretto uso della carta igienica con soggetti non autonomi! Al contrario, questo può diventare un lavoro di valore perché c’è fiducia in chi lo fa, «la fiducia è istituente», «è il vettore di quanto ancora non c’è». La scommessa dunque è quella di creare cooperazione, fare comune. Il valore non è nell’azione in sé, ma in chi “mette in opera”, chi agisce dà senso all’azione: in fondo tutte/i siamo artisti contemporanei! Allora forse una buona casa di riposo è quella in cui crei lo spazio perché ognuna possa sperimentarsi al meglio, mettere in atto le proprie potenzialità: inservienti, ospiti (e parenti) comprese.

In conclusione, sollevo due critiche, o meglio, messe in guardia.

Non mi convincono i richiami etici. «La preoccupazione per gli altri sarebbe l’epicentro di una società del care»: un’etica dei subalterni che intreccia lavoro ed etica. Oggi è diffuso questo richiamo a una dimensione etica rinnovata, e PM lo fa radicandosi nella differenza femminile. Ma non credo che questa sia una dimensione politicamente forte oggi e non credo neppure che sia l’innovazione politica più interessante che può venire dalle donne. Non si può usare l’etica perché le persone vogliono esprimersi senza mediazioni, si è consumata la forza identitaria della collettività. Bisogna fare spazio alle soggettività, farle crescere. Ed è quello che possono fare le donne. Preferisco affidarmi e lavorare sulla autorevolezza e immaginazione delle donne che stanno nei vari contesti e che, più prendono forza più vanno alla ricerca di modi per tenere unite le diverse parti di sé. È lo stesso motivo per cui non amo il termine accoglienza ma considero imprescindibile ripensare la convivenza, gli spazi e i modi. In questo senso, la nuova etica non è l’attenzione per gli altri ma mettere al centro i soggetti in relazione.

Il secondo punto che mi preme sottolineare è il rischio di far discendere l’autorevolezza delle donne in questo campo dall’esperienza del lavoro e delle relazioni domestiche, cadendo nell’equivoco di trasformare la casa, l’ambiente domestico in un modello relazionale e produttivo che ha già tutte le risposte.

Intendiamoci: PM non è né ingenua né astratta, ha ben chiaro che bisogna vedere il continuum teorico tra domestico e mercato per cogliere la complessità di un contesto a «entrate e protagonisti multipli». La fiducia istituente di cui parla PM può rompere specializzazioni assurde ma, più che una risposta risolutiva, è solo una condizione di partenza per cercarla.

Il compito di ripensare oggi “tutto il lavoro necessario per morire” va affrontato con urgenza in tutte le sue fasi. In questo campo infatti, a seconda del punto in cui ti situi fai un lavoro solo in apparenza simile, in realtà completamente diverso. Parlo a partire dalla mia (ricca ahimé) esperienza di caregiver e di conoscente diretta di due diverse RSA. Ho visto, su di me, che ci sono comportamenti che giudico di buona relazione di care che mi è più facile mettere in atto nell’ambiente non domestico e non con le persone con cui sono direttamente coinvolta. Nelle relazioni familiari e personali quando subentrano bisogno e dipendenza estremi prevale l’esperienza della perdita. Solo se ti sposti in altro luogo riesci a prendere le distanze, a vedere, ad accettare, aiutata proprio da contesti pensati in modo innovativo.

In altre parole io credo che la rottura dello schema lavoro domestico separato nascosto e gratuito non sia solo una necessità: è una opportunità in più che si apre. Forse ci sono modi più interessanti per vivere questa fatica di invecchiare e morire. Un modo di abitare da vecchi e malati che non sia né la solitudine abbandonata né la istituzionalizzazione del morto vivente nascosto e da nascondere. Si possono pensare fasi diverse a seconda delle necessità. Opportunità inedite per le donne (e gli uomini) che ci lavorano, a tutti i livelli, per tutte/i noi che invecchiamo, per chi si ritrova poco o tanto a sperimentare la collocazione del caregiver. Lavoro, invecchiamento, relazioni: un intreccio molto promettente.


(www.libreriadelledonne.it,14 giugno 2019)

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